di Giovanni Cominelli
L’indagine OCSE-PIAAC: cosa misura e cosa rivela sulle competenze degli adulti in Italia.
Sono stati resi pubblici a Roma il 10 dicembre scorso i risultati dell’indagine progettata da OCSE-PIAAC – Programme for the International Assessment of Adult Competencies 2022-23 – e realizzata in Italia dall’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) – di cui è Presidente Natale Forlani – su incarico del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Essa dà conto del livello di acquisizione da parte degli adulti di tre tipi di competenze/skills: la capacità di lettura e di comprensione di testi scritti (dominio cognitivo della “literacy”). E ancora la capacità di comprensione e di utilizzo di informazioni matematiche e numeriche (dominio cognitivo della “numeracy”). Infine la capacità di raggiungere il proprio obiettivo in una situazione dinamica, nella quale la soluzione non è immediatamente disponibile (dominio cognitivo dell’ ”adaptive problem solving”).
Dolori e fratture d’Italia
E qui cominciano i dolori per il nostro Paese. L’indagine ci informa che – data una scala da 1 a 500 – nella literacy il punteggio medio degli adulti italiani è pari a 245 punti, contro una media OCSE di 260.
Dietro di noi solamente Israele, Lituania, Polonia, Portogallo e Cile. Nella numeracy il nostro punteggio è a 244 punti, rispetto ai 263 nella media OCSE. Siamo al quart’ultimo posto.
Nell’adaptive problem solving la media italiana è di 231 punti, quella OCSE di 251 punti. Solo Lituania, Polonia e Cile conseguono punteggi più bassi del nostro Paese. Insomma, siamo gli ultimi in Europa.
Ad un’analisi più in dettaglio, il Paese appare fratturato lungo quattro crinali: il territorio, l’età, il livello di istruzione, il genere.
In literacy i residenti nel Nord-ovest, nel Nord-est e nel Centro d’Italia registrano punteggi medi di competenza statisticamente pari a quelli OCSE. Il Nord-est eguaglia la media OCSE anche nel dominio della numeracy.
L’analisi demografica, tuttavia, ci dice che i nostri giovani tra i 16 e i 24 anni raggiungono punteggi di competenze superiori al resto della popolazione, anche al Sud. Nel caso della numeracy, superano anche la seconda fascia giovanile, quella tra 25-34 anni.
Dai 55 ai 65 anni i valori scendono di molto. Quanto al fattore istruzione, in tutte le aree geografiche gli adulti di 25-65 anni con titoli di studio terziario ottengono punteggi di competenze superiori rispetto a chi ha un’istruzione secondaria superiore e, ancor di più, rispetto a quanti hanno solo un’istruzione secondaria inferiore.
Ora, nel nostro Paese solo il 20% delle persone di 25-65 anni possiede un livello di istruzione pari o superiore alla laurea, mentre il 38% ha un titolo di studio inferiore al diploma. Quanto al genere, le femmine stanno più in basso dei maschi rispetto alla numeracy; il divario aumenta, quando le analisi sono circoscritte alle sole persone con istruzione terziaria.
Fin qui i dati essenziali
Rispetto all’edizione 2011-12 di questa indagine, gli Italiani sono rimasti là, fermi al palo, in literacy e numeracy, sono peggiorati in problem solving. Cioè: il mondo ci ha lasciati indietro.
Sistema di istruzione e decrescita malinconica del Paese
Se i ragazzi escono dalla scuola media e dalla scuola superiore a bassa literacy/numeracy, se a scuola ci si prodiga per i soft-skills, ma si perdono gli hard-skills, se l’Italia è seconda in Europa, appena dopo la Romania, per percentuale di NEET, se il sistema universitario gira attorno a se stesso, mediante produzione di professori a mezzo di professori, ma le tesi di laurea sono piene di errori di sintassi e poverissime di lessico, se i giovani e gli adulti sono già affetti da analfabetismo di ritorno nella misura del 30%…
Se tutto ciò è vero e se dura da anni, allora si deve anche prendere atto che la società civile italiana, la sua classe dirigente, i suoi partiti, il suo Parlamento non hanno né la visione né la volontà di cambiare un sistema di istruzione, il cui degrado precede e accompagna il sottosviluppo produttivo e il declino del Paese.
In questi tempi di PNRR la parola magica è diventata “investimenti”. Ma lo gridano anche i sassi che senza riforme strutturali, senza un cambio delle modalità di formazione, assunzione, gestione del personale scolastico, i soldi saranno/sono semplicemente buttati. Da Gonella, a Moro, a Gui, a Ferrari Aggradi, a Falcucci, a Luigi Berlinguer, a Moratti, a Fioroni, solo per citare alcuni Ministri dell’istruzione della Repubblica, abbiamo ormai esaurito il lessico della “literacy” delle riforme.
Allora, la società civile è più avanti della politica? Neanche un po’! Sta peggio! Secondo Eurostat 2024, la percentuale di Italiani che in 12 mesi hanno letto almeno un libro raggiunge il 35,4%. Secondo l’ISTAT nel 2022 stavamo al 39,3%. L’Italia si colloca al terzultimo posto sui 27 membri dell’Unione europea, precedendo Cipro (33,1%) e la Romania (29,5%). La media europea è del 52,8%, il Lussemburgo sta al 75,2%, la Danimarca al 72,1%, l’Estonia al 70,7%.
Al Sud? Un intreccio di vittimismo e di classismo
La classe dirigente meridionale pratica il vittimismo verso lo Stato e verso il Nord e l’oppressione di classe verso il proprio popolo. Sì, la storia ha le sue colpe e ha fatto le sue vittime, non solo metaforiche. Il modo dell’unificazione del Paese e dell’annessione del Sud racconta di brutalità, miseria, emigrazione di masse, arretratezza e di guerra civile. Ma non si può tirare a campare per un secolo e mezzo sulla rendita delle ingiustizie della storia.
Ancora alla fine dell’800, il notabilato locale si opponeva all’istituzione della scuola di base nei Comuni, mentre i vescovi siciliani dichiaravano che l’istruzione diffusa poteva spingere al furto e prostituzione. Fu un ministro valtellinese, Luigi Credaro, Ministro dell’Istruzione dal 1910 al 1914, ad avocare, a quel punto, allo Stato la scuola elementare con la Legge Daneo-Credaro dell’11 giugno 1911.
A tutt’oggi, i ceti ben abbienti meridionali mandano i figli all’Università “su al Nord”, mentre agli altri è destinato un sistema di istruzione secondaria, con un numero di docenti superiore alla media nazionale, che tuttavia secerne fuga e dispersione.
I Livelli essenziali di prestazione (Lep) sugli asili nido, stabiliti nel 2022, prevedono che in ogni Regione la disponibilità di posti negli asili nido copra il 33% della popolazione dei bambini sotto i 3 anni. La soglia attualmente è raggiunta solo nelle regioni del centro-nord (37%), mentre quelle del Sud e Isole non arriva al 18%.
Il fallimento è annunciato precocemente. Nel “Piano Strutturale di Bilancio 2025-2029” presentato dal Governo a Bruxelles, si confessa che l’obbiettivo non sarà raggiunto. Intanto il PNRR finirà nel 2026. Eppure, secondo la UE nel 2030 si dovrà raggiungere il 45%.
Continua così, in forme rinnovate, la maledizione del Sud: la denuncia vittimistica intrecciata con l’oppressione sociale e con la complicità culturale subalterna delle classi popolari. Questa classe dirigente ora si oppone all’autonomia differenziata. In realtà teme di assumersi delle responsabilità. Più comodo, ma solo per sé, il centralismo assistenziale.