di Loan
È l’alba del 26 gennaio 1917, nel pieno della Grande Guerra. Un fante impegnato nei combattimenti sul Carso passa qualche giorno in retrovia, nella Bassa friulana, località Santa Maria La Longa, provincia di Udine, luogo dove sono acquartierati migliaia di soldati, soprattutto giovani che vengono dal Sud, mandati a combattere sul fronte dell’Isonzo.
Il fante è un poeta, si chiama Giuseppe Ungaretti, sta per compiere 29 anni, viene da Alessandria d’Egitto, la città bianca “che ogni giorno s’empie di sole”, è figlio di italiani emigrati in Egitto per scavare il Canale di Suez. Ha lasciato la città dov’è nato e cresciuto per andare a Parigi, alla “scoperta d’un colore nuovo, i “grigi inenarrabili” della capitale europea della cultura, a respirare la vita letteraria e artistica della Ville Lumière.
Ma dai caffè di Montparnasse e del Faubourg Saint-Germaine è stato trascinato via dai venti di guerra che, impetuosi, hanno reso impetuoso il suo anarchico interventismo, nel nome di una Patria vagheggiata e sconosciuta.
Ed eccolo, il fante Ungaretti, a servire la Patria nel fango delle trincee, a stare nel vuoto cosmico di una vita sospesa “come d’autunno sugli alberi le foglie”, a fare convivere la paura della morte con la ricerca della parola che fa fiorire “il mondo l’umanità la propria vita”. Dove cercare? Nelle profondità del suo essere: “Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso”.
L’uomo, il poeta, il soldato, ha passato una notte senza sonno, nel freddo dell’inverno, ed ecco l’alba, levarsi, immenso, il disco del sole sull’orizzonte di pianura, ed ecco la parola, il verso, erompere dal profondo: “M’illumino /d’immenso”.
È la vita, il suo spettacolo che risorge dall’oscurità, è la luce contro la tenebra, che dall’origine del mondo rischiara il cuore dell’umanità.
Il 26 gennaio, come oggi, di centoquattro anni fa, non lo ricordiamo per la nascita o la morte di un grande uomo, per un evento fatale della storia. Rievochiamo la nascita di un verso lirico che riassume, e spiega, la poesia ermetica. “La mia poesia – disse Ungaretti – è nata in realtà in trincea… io dovevo dire in fretta perché il tempo poteva mancare e nel modo più tragico… in fretta dire quello che sentivo e quindi se dovevo dirlo in fretta lo dovevo dire con poche parole, e se lo dovevo dire con poche parole lo dovevo dire con parole che avessero avuto un’intensità straordinaria di significato”.
“Mattina” è un poesia fatta di due soli versi ternari che fanno perno sul suono “m”, il primo dei suoni con i quali si esprimono i bambini, che ha il senso dell’incomunicabilità. Una sinestesia perché immensità e luminosità sono parole che attengono a due sfere diverse dei nostri sensi.
Ungaretti la scrisse su una cartolina postale inviata a Giovanni Papini per poi inserirla nella raccolta “Allegria” sezione “Naufragi”.
“M’illumino /d’immenso”, pur essendo così breve, è tutt’altro che una poesia facile, in essa si ritrovano molti dei temi essenziali della poetica ungarettiana.