Il 21 gennaio del 1921, al Teatro Goldoni di Livorno, il XVII Congresso del PSI si concluse con la scissione della frazione comunista, guidata da Nicola Bombacci, Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci e Umberto Terracini, che abbandonò i lavori e diede vita al Partito Comunista d’Italia.
causare la separazione fra socialisti e comunisti, esito dello scontro annoso tra la corrente riformista e quella rivoluzionaria, fu il rifiuto della maggiorana del partito di accogliere la richiesta del Comintern di espellere l’ala riformista.
A cento anni da quell’evento, che segnò traumaticamente la storia della sinistra italiana, possiamo riflettere con distacco sul confronto, mai del tutto sopito, fra le diverse anime del socialismo.
A CENTO ANNI DA LIVORNO
di Renato Costanzo Gatti
Vorrei dare il mio contributo sulla scissione di Livorno e la nascita del Partito Comunista in occasione del centenario di quei fatti. La mia riflessione non sarà solo finalizzata a indicare chi, tra le tre posizioni (Turati, Serrati o i comunisti) avesse ragione o torto (cosa sulla quale comunque mi pronuncerò) quanto a riflettere sui limiti di quell’evento.
La mia tesi è che le tre posizioni fossero errate e che il più grosso errore fu quello di non porre al centro della discussione il crescente pericolo squadristico e quindi di presentarsi scissi e, un anno dopo in occasione della marcia su Roma, imbelli nel contrasto all’avvento del fascismo.
Il tema centrale del congresso fu certamente la “rivoluzione”, termine che dopo il ‘17, cessava di essere un termine “teorico” ma diveniva una alternativa concreta, attuale.
Turati respingeva questa alternativa, ritenendo che l’evoluzione delle conquiste del riformismo avrebbe portato a risultati più durevoli e progressivamente più avanzati. La storia ci insegna tuttavia che il riformismo, pur dopo i successi degli anni del dopoguerra, sfociati nello stato sociale moderno o welfare state, non riesce (né si pone l’obiettivo) di scalzare il capitale dalla sua funzione egemonica e impositiva che si presenta con tutta la sua violenza in particolare nelle fasi di crisi (vedasi il 2007) nelle quali riesce ancora a scaricare sulle classi subalterne (ivi costringendovi anche la classe media) gli effetti delle sue contraddizioni.
Serrati si batteva per l’unità del partito italiano di cui difendeva la dignità in opposizione alle richieste perentorie del delegato sovietico ma, nel contempo, era favorevole ad accettare i 21 punti per accedere alla terza internazionale e si rifiutava di espellere i turatiani. Ometteva tuttavia, nella sua corretta intenzione di evitare la scissione, di finalizzare l’unità del partito alla opposizione allo squadrismo ed al nascente fascismo limitandosi invece all’obiettivo di una indefinita rivoluzione.
I comunisti (Bordiga, Terracini e Gramsci) erano acriticamente schierati sulla linea disegnata dal delegato sovietico: espulsione dei turatiani, cambiamento del nome del partito, adesione alla terza internazionale e concreto avvio alla fase rivoluzionaria. Eppure, anni prima Gramsci aveva definito la rivoluzione bolscevica come una rivoluzione contro il Capitale, evidenziando che i fatti avvenuti nel ‘17 in Russia non avessero i presupposti storici per il loro successo. Presupposti che invece erano forse più presenti nella situazione italiana, ma che l’insuccesso delle lotte del ’19, doveva far affrontare con maggior riflessione, ponendosi la domanda se un modello vincente in un contesto completamente diverso potesse essere esportato in diversa realtà.
Nella situazione odierna continuo a ritenere “la rivoluzione” un concetto romantico (la presa del palazzo) che assume al contrario dimensioni scientifiche grazie alle riflessioni gramsciane sul concetto di egemonia. Con l’azione pedagogico-critica del partito, la rivoluzione romantica diviene “rivoluzione culturale”, allarga il fronte rivoluzionario dal ristretto ambito operaio ad un orizzonte più ampio di soggetti guidati dalla ragione e dalla scienza che ripudiano la logica del capitale finalizzata alla ricerca del plusvalore ovunque esso si collochi, proponendo una logica scientificamente socialista.