Ma non solo. Avendo visto come la situazione dei diritti umani in Cina è peggiorata di giorno in giorno da quando hanno aperto i negoziati nel 2014, per Bruxelles – e/o Berlino – era meglio concludere un Accordo complessivo sugli Investimenti (CAI) a fine dicembre dell’anno scorso. Un accordo sempre più controverso sotto vari aspetti, a partire dal suo linguaggio particolarmente debole sui diritti umani, venduto come vittoria europea, che impegna il governo cinese soltanto ad impegnarci “verso” la ratifica di alcune Convenzioni fondamentali dell’OIL.
Impossibile non leggervi un’Unione europea – con l’eccezione del Parlamento europeo che ha indicato ben altra strada – volontariamente cieca, sorda e muta dinanzi ai crimini più gravi contro l’umanità che si stanno verificando in questo preciso istante.
Questa posizione stona ancora di più quando si consideri l’immagine di sé che l’Ue vorrebbe progettare ai suoi cittadini e nel mondo: un blocco geopolitico e primo mercato mondiale dal più alto livello morale, impegnato fermamente nella promozione dello sviluppo sostenibile a partire dalla svolta ecologica, carta magica anche nella difesa del CAI.
Un recente articolo di Politico testimonia come “quasi tutti i pannelli solari venduti nell’Unione europea hanno le loro origini nella regione oppressa dello Xinjiang, con operatori europei del settore che affermano che il potenziale utilizzo del lavoro forzato per produrre materiale incluso nei pannelli solari importati nell’UE è un segreto di pulcinella”.
Un segreto di pulcinella. Al quale le nuove disposizioni europei in materia di due diligence, previste verso giugno, poco potranno fare visto la continua mancanza di autentica trasparenza nel mercato cinese, come denunciato da anni da fonti anonimi nel settore.
La soluzione per alcuni è chiara, come cita Politico: “I componenti solari possono essere prodotti in Europa”, afferma Nitzschke di EU ProSun. “Le aziende che li producevano erano qui fino al 2012, ma sono fallite quando le tariffe europee utilizzate per affrontare la sovrapproduzione e i sussidi cinesi sono state rimosse, consentendo le loro aziende di farci una concorrenza micidiale.”
Avete letto bene. Esisteva un mercato interno europeo per quel che è uno dei settori del futuro, garantendo diritti e equità nei posti di lavoro locale, ma è stata la stessa Ue ad inchinare la testa dinanzi l’imperatore cinese, implicandoci letteralmente tutti – aziende, consumatori e direttamente i contribuenti visto le ingenti somme pubbliche investite nella svolta – nei crimini contro l’umanità in corso in Cina.
Ovviamente non solo nel settore green. I programmi statali cinesi che non possono che ricordare le pagine più buie del continente europeo, permeano ampie catene di approvvigionamento. Abbiamo già scritto su queste pagine del rapporto dell’Australian Strategic Policy Institute (ASPI) circa le catene di fornitura di 82 noti marchi globali, direttamente implicate nell’utilizzo di lavoratori uiguri inviati direttamente dai campi di internamento, con le ormai famigerate dichiarazioni a seguito del CEO di Volkswagen Stephan Wöllenstein in cui ammetteva di non poter essere sicuro che nessuno degli uiguri dello stabilimento Volkswagen di Urumqi, la capitale dello Xinjiang, fosse stato trasferito lì da uno dei campi.
I rapporti si susseguono a raffica: dal settore del cottone (tema tornato con prepotenza nell’opinione pubblica ultimamente per ricordare l’orrore degli schiavi afro-americani, ma largamente ignorato nella sua attualità in Cina) a quello del pomodoro targato #MadeInItaly ma prodotto da aziende indissolubilmente legati agli schemi di lavoro forzato cinese come riporta il South China Morning Post e denuncia da anni Stefano Liberti, autore del libro “I signori del cibo”.
Quindi, quo vadis Europa? Si può ancora mantenere la falsa pretesa che investendo sempre di più in quel mercato – sì enorme, ma anche macchiato del sangue della sua popolazione – si possano nel tempo creare le parità di condizioni basate sul rispetto dei diritti umani che non solo salvino milioni di persone da orrori che dovrebbero ormai essere relegati al passato, ma che permetterebbero anche alle nostre aziende di essere competitivi e tornare a creare posti di lavoro qui?
O si può prendere atto del fatto che le attuale politiche che relegano la questione dei diritti umani ad un ripensamento finale non solo hanno fallito nel produrre gli effetti desiderati, ma hanno piuttosto creato l’effetto opposto?
Perché un cambiamento attraverso il commercio effettivamente in realtà vi è. Lo vediamo negli sforzi di lobbisti a libro paga delle più grandi aziende operanti nella Repubblica popolare all’interno delle nostre democrazie.
Dal contrasto all’adozione dell’Uyghur Forced Labour Prevention Act al Congresso americano, alle lodi pubbliche a Xi Jinping dell’attuale CEO di VolksWagen Herbert Diess, al lavoro dietro le quinte del CEO di Ericsson Borje Ekholm contro il divieto svedese su Huawei. La questione dei diritti umani cancellata, venduta al (presunto) miglior offerente, in quel che la tattica maoista descriveva come “prendere in prestito una barca [straniera], per attraversare il mare”.
È un chiaro segno di crescente complicità strategica, dove con grande efficacia Pechino tiene nelle sue mani delle leve potenti per influenzare il dibattito e le politiche a casa nostra. E certamente non teme all’occorrenza utilizzarle anche in modo coercitivo per contrastare discorsi sui diritti umani. Discorsi sui quali Pechino si è dimostrato altamente allergico, come dimostrano le sue sanzioni unilaterali contro l’Australia o l’offuscamento della Bbc.
Dovrebbe essere evidente che incentivare l’aumento di tale complicità strategica, attraverso accordi come il CAI o il famigerato accordo politico sulla Via della Seta sottoscritto dall’Italia, può solo nuocere al “comune destino dell’umanità” tanto citato da Xi Jinping. Per contrastare tale deriva, serve con urgenza una linea ed azione politica che parte proprio dai diritti umani.
Fonte Formiche.net