AGI – Negli storici Accordi di Abramo tra Israele, Emirati arabi uniti e Bahrein ci sono chiari vincitori e vinti. A cinquant’anni esatti dal ‘Settembre Nero’ che aprì la strada alla cacciata dei fedayn di Yasser Arafat dalla Giordania, i palestinesi sono gli unici a non poter cantare vittoria. Anche l’Iran guarda con preoccupazione all’allargamento e al compattamento del fronte dei suoi nemici in un’alleanza pragmatica per la quale lo spirito anti-Teheran è stato un collante decisivo.
Dopo il primo passo rivoluzionario compiuto da Abu Dhabi, seguito da vicino da Manama, la speranza di Washington, e di Gerusalemme, è che altri Paesi facciano lo stesso. Tra questi, uno potrebbe essere l’Oman. A spingere il Golfo in questa direzione c’è la comune opposizione verso l’arcinemico Iran e la sfida posta dall’atteggiamento sempre più aggressivo della Turchia di Recep Tayyip Erdogan nella regione. Lo stesso presidente Trump ha detto che presto altri “cinque o sei Paesi” arabi seguiranno l’esempio di Emirati arabi uniti e Bahrein.
Tutti i protagonisti di questa “svolta diplomatica storica” hanno da guadagnare dall’accordo per la normalizzazione dei rapporti: il presidente americano, Donald Trump, ha messo a segno un grosso colpo in vista delle elezioni di novembre mentre gli Emirati possono dire di aver fermato i piani israeliani di annessione della Cisgiordania e attraverso i negoziati stanno facendo pressioni per ottenere il via libera alla vendita degli F-35 su cui finora Israele aveva messo il veto (e che frutterebbe agli Stati Uniti posti di lavoro spendibili in campagna elettorale).
Da parte sua, lo Stato ebraico apre la strada a una cooperazione economica con i Paesi del Golfo che può valere miliardi di dollari di interscambio annuo (una boccata d’ossigeno nel post-pandemia di Covid-19) e scavalca Ramallah e le sue istanze; senza contare il ritorno di immagine per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, sotto attacco in patria per una gestione fallimentare dell’epidemia coronavirus e per il processo in cui è incriminato per corruzione, frode e abuso di fiducia.
Il leader dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha gridato al tradimento, ha lanciato appelli a scendere in piazza a protestare, ha anche tentato di far passare una risoluzione di condanna all’ultima riunione della Lega araba ma il tentativo si è risolto in un nulla di fatto. La causa palestinese resta tuttavia in primo piano, hanno assicurato gli Emirati: negli Accordi di Abramo si fa riferimento alla ‘soluzione dei due Stati’, ha affermato il sottosegretario agli Esteri, Anwar Gargash, precisando però che sono citati solo brevemente perché il documento tratta largamente delle relazioni bilaterali tra Israele ed Emirati.
Lo stesso re saudita Salman, il custode dei luoghi sacri dell’Islam, in una telefonata la settimana scorsa con Trump, è tornato a ribadire la centralità della causa palestinese per il via libera a futuri rapporti: senza “una soluzione giusta e durevole che porti la pace”, non ci sarà normalizzazione. Una puntualizzazione necessaria per non essere accusata, anche Riad, di tradire i palestinesi.
Vedi: Chi vince e chi perde dagli Accordi di Abramo
Fonte: estero agi
AGI – Negli storici Accordi di Abramo tra Israele, Emirati arabi uniti e Bahrein ci sono chiari vincitori e vinti. A cinquant’anni esatti dal ‘Settembre Nero’ che aprì la strada alla cacciata dei fedayn di Yasser Arafat dalla Giordania, i palestinesi sono gli unici a non poter cantare vittoria. Anche l’Iran guarda con preoccupazione all’allargamento e al compattamento del fronte dei suoi nemici in un’alleanza pragmatica per la quale lo spirito anti-Teheran è stato un collante decisivo.
Dopo il primo passo rivoluzionario compiuto da Abu Dhabi, seguito da vicino da Manama, la speranza di Washington, e di Gerusalemme, è che altri Paesi facciano lo stesso. Tra questi, uno potrebbe essere l’Oman. A spingere il Golfo in questa direzione c’è la comune opposizione verso l’arcinemico Iran e la sfida posta dall’atteggiamento sempre più aggressivo della Turchia di Recep Tayyip Erdogan nella regione. Lo stesso presidente Trump ha detto che presto altri “cinque o sei Paesi” arabi seguiranno l’esempio di Emirati arabi uniti e Bahrein.
Tutti i protagonisti di questa “svolta diplomatica storica” hanno da guadagnare dall’accordo per la normalizzazione dei rapporti: il presidente americano, Donald Trump, ha messo a segno un grosso colpo in vista delle elezioni di novembre mentre gli Emirati possono dire di aver fermato i piani israeliani di annessione della Cisgiordania e attraverso i negoziati stanno facendo pressioni per ottenere il via libera alla vendita degli F-35 su cui finora Israele aveva messo il veto (e che frutterebbe agli Stati Uniti posti di lavoro spendibili in campagna elettorale).
Da parte sua, lo Stato ebraico apre la strada a una cooperazione economica con i Paesi del Golfo che può valere miliardi di dollari di interscambio annuo (una boccata d’ossigeno nel post-pandemia di Covid-19) e scavalca Ramallah e le sue istanze; senza contare il ritorno di immagine per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, sotto attacco in patria per una gestione fallimentare dell’epidemia coronavirus e per il processo in cui è incriminato per corruzione, frode e abuso di fiducia.
Il leader dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha gridato al tradimento, ha lanciato appelli a scendere in piazza a protestare, ha anche tentato di far passare una risoluzione di condanna all’ultima riunione della Lega araba ma il tentativo si è risolto in un nulla di fatto. La causa palestinese resta tuttavia in primo piano, hanno assicurato gli Emirati: negli Accordi di Abramo si fa riferimento alla ‘soluzione dei due Stati’, ha affermato il sottosegretario agli Esteri, Anwar Gargash, precisando però che sono citati solo brevemente perché il documento tratta largamente delle relazioni bilaterali tra Israele ed Emirati.
Lo stesso re saudita Salman, il custode dei luoghi sacri dell’Islam, in una telefonata la settimana scorsa con Trump, è tornato a ribadire la centralità della causa palestinese per il via libera a futuri rapporti: senza “una soluzione giusta e durevole che porti la pace”, non ci sarà normalizzazione. Una puntualizzazione necessaria per non essere accusata, anche Riad, di tradire i palestinesi.
Vedi: Chi vince e chi perde dagli Accordi di Abramo
Fonte: estero agi