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Chi ha paura della Bce e di una crisi di fiducia nel debito italiano

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Il governo attacca la banca centrale per il rialzo dei tassi ma il difficile incastro dei prossimi mesi rende la sponda di Francoforte decisiva

ALESSANDRO PENATI economista

Il Financial Times titola “L’aumento dei tassi della Bce fa temere per l’Italia, anello debole dell’Eurozona” e alcuni esponenti del governo si danno a criticare aspramente la banca centrale. Ci sono poi i mal di pancia per la ratifica del Mes e le critiche recenti alla proposta di riforma del Patto di stabilità e crescita (Psc). Critiche controproducenti perché le istituzioni internazionali devono mostrarsi impermeabili alle pressioni dei singoli paesi, per non perdere credibilità, che è l’essenza della loro esistenza. Le pressioni a difesa degli interessi nazionali si fanno, ma discretamente dentro le istituzioni, presentando argomentazioni e soluzioni di compromesso. Se ci sono argomenti validi per criticare la Bce – e ce ne sono – ci penseranno i mercati e i commentatori indipendenti a sollevarli, come già stanno facendo. Così, invece, il nostro governo usa l’Europa come capro espiatorio per i propri problemi di fronte all’opinione pubblica nazionale, confermando i pregiudizi nei confronti del “populismo”. L’articolo del Financial Times riportava i risultati di un sondaggio fra economisti i quali ritengono che, con l’aumento dei tassi, i nostri titoli siano quelli più a rischio di vendite: quasi un’ovvietà essendo l’Italia il paese più indebitato.
Ma il sondaggio verteva su un altro e più rilevante argomento: quando finirà l’aumento dei tassi? Secondo il 40 per cento degli intervistati entro il primo trimestre 2023; il 75, entro giugno. E quando ricominceranno a scendere? Nel 2024, secondo il 90 per cento.
Si giunge così alla domanda chiave: se un aumento così rapido e prolungato porterà l’Europa in recessione, la Bce manterrà i tassi elevati fino al raggiungimento dell’obiettivo di inflazione del 2 per cento, o li ridurrà prima, accettando un’inflazione più elevata?
Le vere critiche
La Bce non è criticabile, come vuole il governo italiano, per aver aumentato i tassi: ci si attende infatti che li aumenti fino a poco sotto il tre per cento che, con un’inflazione al due, ripristinerebbe una condizione di normalità con una remunerazione del denaro leggermente positiva in termini reali (fermando la distruzione di risparmio). Lo è, invece, per aver contribuito a creare l’inflazione, eccedendo nella creazione di liquidità tramite gli acquisti di titoli e i prestiti sovvenzionati alle banche, senza prevederne gli effetti e reagendo tardi e confusamente, lasciando il mercato nell’incertezza. E, per l’economia, l’incertezza è il rischio più grave.
Dal 2015, la Bce ha acquistato 3,257 miliardi di titoli tramite il programma App ( Asset Purchase Program) e 1,683 miliardi con il Pepp ( Pandemic Emergency Purchase Program). Quasi il 90 per cento sono titoli di stato. Secondo un’analisi Gavekal, in quasi tutti gli ultimi otto anni la Bce ha finanziato l’intero deficit di tutti i paesi dell’Eurozona.
In alcuni anni la Bce non ha acquistato titoli, ma ha reinvestito cedole e titoli in scadenza, continuando quindi a far salire la quantità di debito nel suo portafoglio. In altre parole, per otto anni il debito pubblico nell’area euro è stato quasi completamente monetizzato: andando contro il mandato istituzionale della Bce e soprattutto contribuendo a far esplodere l’inflazione.
Gestire la stretta
Il vero problema non è l’aumento dei tassi, come sostiene il nostro governo, ma la strategia da seguire per ridurre la montagna di titoli detenuti dalla Bce, il cosiddetto quantitative tightening, ponendo fine a un’esperienza protrattasi troppo, troppo a lungo.
L’approccio della Bce è cauto: riduce solo i titoli acquistati con l’App per 15 miliardi al mese a partire da marzo (aumentandone la quantità a partire da giugno), poca cosa rispetto ai 95 miliardi di riduzioni mensili della Fed.
Il problema, secondo le stime di Gavekal, è che anche così la Bce venderà 210 miliardi di titoli di stato da qui a fine anno, che si aggiungono ai 513 che i governi dovranno raccogliere per finanziare deficit ingigantiti da crisi energetica e rischi di recessione. In totale, oltre 700 miliardi che il mercato dovrà finanziare nel 2023: una quantità senza precedenti (nel 2009, anno di crisi, fu poco sopra i 500).
E, oltre al nuovo deficit da finanziare, l’Italia ha il problema dei titoli in scadenza.
Il problema del debito italiano non è della Bce ma dei governi che l’hanno accumulato, compreso l’attuale, che ha già dato il suo contributo ad aumentarlo.
Certo, il deficit poteva essere maggiore se si fossero accolte tutte le istanze dei partiti, compresa la Lega che dovrebbe sostenere il governo; ma non è il caso di vantarsene.
Per il mercato, l’onere di finanziare tutto questo debito pubblico sarà aggravato dalla contemporanea riduzione dei finanziamenti Bce alle banche tramite il Tltro ( Targeted Long Term Refinancing Operations): da novembre le banche hanno restituito 795 miliardi, e altri 670 scadono da qui a giugno; in tutto, 1,465 miliardi di liquidità in meno che le banche potrebbero recuperare in parte riducendo il proprio portafoglio di titoli di stato (certamente non potranno aumentarlo).
Siamo ai prodromi di una crisi del debito pubblico italiano? Non lo credo, anche se il rischio che lo spread aumenti di parecchi punti prima dell’estate è più che concreto. Ma escluderei che questo aumento possa innescare una crisi devastante, come nel 2011.
Non c’entra il Mes e l’eventuale ricorso alle sue risorse. A suo tempo avevo argomentato come il Mes fosse un’istituzione superata, perché pensata per gestire in modo ordinato e con logiche “privatistiche” la ristrutturazione di un debito sovrano, dopo l’esperienza disastrosa della Grecia con la troika.
Non si hanno infatti esempi passati di gestione “ordinata” di un default del debito sovrano; e quello italiano è semplicemente troppo grande per concepire una sua ristrutturazione “ordinata”: una sua crisi porterebbe inevitabilmente alla disintegrazione dell’euro ed è proprio questa conseguenza che la rende impossibile, visto l’enorme capitale politico investito nella moneta unica, consolidato dall’allargamento a sempre più paesi, come da ultimo la Croazia.
Inoltre la decisione sulla sostenibilità del debito spetterà sempre più alla Commissione che nel nuovo Psc cessa di fondarsi su criteri automatici (come i limiti su deficit e debito), ma è calibrata sulle esigenze del singolo paese e su grandezze economicamente più sensate e verificabili, come la spesa primaria al netto sussidi disoccupazione. Il Mes va però ratificato subito: tentennare serve solo a consolidare irritazione e pregiudizi contro l’Italia.
Se rischia l’Italia
La Bce ha gli strumenti e la capacità di intervenire nel caso una crisi del debito italiano mettesse a repentaglio l’euro. La stabilità finanziaria è sempre una priorità delle banche centrali e la recente esperienza della Bank of England lo conferma.
La Bce potrebbe dirottare sui titoli italiani il reinvestimento dei titoli del Pepp e, dal luglio scorso ha varato un programma di emergenza (Tpi) teso proprio a evitare che una crisi del debito di un paese causi fratture nel sistema finanziario europeo; ma lasciandone volutamente i contorni vaghi per dare un chiaro segnale a governi come quello italiano che il paracadute della Bce è pronto ad aprirsi, ma è meglio non darlo per scontato.
Sarebbe quindi auspicabile che il governo cessasse con le critiche alle istituzioni europee, che serviranno forse a mobilitare il proprio elettorato ma causano enormi danni di credibilità al paese; avviando un discreto quanto efficace lavoro di approccio diplomatico con Bce e Commissione per un piano di contingenza nel caso gli investitori decidessero di disfarsi dei nostri Btp. Ma per questo servono capacità e lungimiranza. Speriamo non siano merce troppo rara.

Fonte: Domani