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CARNEVALE, CINEMA E COSTUMI

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Franco La Magna

Quest’anno, dall’11 al 16 febbraio, nessuna manifestazione. La festa, spesso celebrata dalla settima arte, è stata un vero e proprio banco di prova per i nostri grandi costumisti-scenografi che spesso hanno usato il travestimento in senso psicologico.

Non esiste ormai, nella sempre più caotica e ridondante letteratura dei premi cinematografici, una manifestazione degna di tale nome che non includa tra i riconoscimenti da assegnare almeno uno destinato ai costumi, dall’americana “notte delle stelle” (la celeberrima cerimonia degli “Oscar”) che vi riserva una delle ambitissime statuette, agli italianissimi “David di Donatello” o ai “Nastri d’argento”, al “Ciak d’oro” e perfino a premi minori di neonata costituzione. Un premio, dunque, a suggello di un “mestiere di cinema”, che ormai superato l’oscuro anonimato in cui per molto tempo è stato relegato, ha conquistato un ruolo di star di prima grandezza nel rutilante mondo del cinema, oggi contaminato dalla tecnologia digitale che ormai ha del tutto soppiantato l’obsoleta ultracentenaria pellicola perforata.

Il costumista (una volta scelto dall’Architetto scenografo con il compito di disegnare i costumi da affidare alla paziente cura delle sarte) ha dunque assunto all’interno della composita troupe cinematografica un ruolo riconosciuto di primissimo piano, non soltanto come insostituibile collaboratore del regista, fondendosi non raramente addirittura in un’unica figura di scenografo-costumista (come il “felliniano” Danilo Donati), ma perfino divenendo anche assistente personale della primadonna o della diva.

E a proposito di formidabili professionisti, figure straordinarie di costumisti pullulano nel nostro cinema, da cui spesso vengono “rubati” dalla strapotente industria d’oltre oceano, come nel caso della Magrini (famosa per i costumi della borghesia malata descritta da Michelangelo Antonioni o per gli abiti che Dominique Sanda indossa ne “Il conformista” e quelli di Marlon Brando di “Ultimo tango a Parigi”, entrambi per la regia di Bernardo Bertolucci); o ancora Giorgio Armani che appronta l’intero guardaroba di Richard Gere di “American gigolò” (1980) regia di Paul Schrader, fino al grande Piero Tosi, lo stesso Donati, Gabriella Pescucci (Oscar per “L’età dell’innocenza”, 1993, di Martin Scorsese e ormai notissima nel mondo intero), solo per citare i nomi più altisonanti.

Un particolare banco di prova della grandezza del costumista-scenografo non di rado, per la possibilità non soltanto d’investire in fantasia, ma di travestire i personaggi assecondandone le oscure pulsioni dell’animo, è stata la rappresentazione cinematografica della festa del Carnevale. Esiste, dunque, un uso psicologico dei costumi di Carnevale nel cinema, soprattutto (se non esclusivamente) in quel cinema cosiddetto d’autore dove la stretta correlazione la tra maschera e volto tende ad assume precisi significanti.

Nella sconvolgente versione psichedelica dell’australiano Baz Lhurmann, ad esempio, “Romeo + Giulietta di William Shakespeare” (1996), Romeo – Leonardo Di Caprio travestito da guerriero intravede Giulietta travestita da angelo attraverso una vasca di pesci. Simboleggia magistralmente l’avidità sessuale e la sfrenata brama di denaro attraverso lo scandaloso costume-simbolo (indossando il quale confessa la sua vera natura e il diabolico piano per impadronirsi d’una ricchissima eredità) una crudelmente affascinante e tortuosa Dominique Sanda (Palma d’Oro a Cannes), nei panni di una diabolica dark lady ottocentesca (qui ancor più inquietante di quanto non sia nel romanzo di Gaetano Carlo Chelli), “creatura mostruosa”, formidabile protagonista dell’elegantissimo “L’eredità Ferramonti” (1976) di Mauro Bolognini, un’anima nera destinata a soccombere contro il nuovo ceto ormai potente e spregiudicato (da lei definite “rispettabili mediocrità”).

Straordinariamente adeguati alle psicologie dei personaggi gli abiti di Gabriella Pescucci, che fa propria la lezione di Piero Tosi (costumista teatrale e cinematografico) il quale concepisce i costumi non già come semplice vestizione del personaggio, lezione minuziosamente interiorizzata e pedissequamente applicata dalla Pescucci ad ogni personaggio del film di Bolognini, che raggiunge la vetta proprio nella vestizione carnascialesca della Sanda.

Strettissimo il rapporto tra l’ambiguo costume scelto da “Gilda” (1946) regia di Charles Vidor, costumi di Jean Louis (uno dei più grandi cult di tutta la storia di Hollywood) per la festa in maschera, completo di frusta con la quale metaforicamente la bellissima, crudele e sadica protagonista (Rita Haywhorth) infligge e si autoinfligge insopportabili tormenti d’amore ed esistenziali, in questo turbinoso e violento noir sadomaso dalla trama vertiginosa e rocambolesca e dalle sottili articolazioni psicanalitiche.

E gli esempi potrebbero continuare numerosi. A partire da “Capriccio spagnolo” (“The devil is woman”, 1935) di Joseph von Sternberg, con Marlene Dietrich, fino al celeberrimo “Les enfant du Paradis” (1945, tradotto in Italia con l’improbabile ed offensivo titolo “Amanti perduti”), capolavoro del realismo poetico francese firmato Marcel Carné e sceneggiato da Jaques Prevert, fino ai poveri costumi di provincia de “I vitelloni” (1952) di Federico Fellini, il quale anni dopo nel suo incantevole e “mostruoso” “Casanova” (1976) rivela la strabiliante potenza sessuale e l’orripilante universo femminile del veneziano, durante il Carnevale, per mezzo di una saltellante e assatanata monachella (Tina Aumont) sorprendentemente acconciata da un Danilo Donati in stato di grazia, che abilmente nascondendo le fonti (manipolando stoffe e colori) si ispira a “Ritratto di monaca” di Giacomo Ceruti, mentre per il gobbo Du Bois trae spunto da “Il cantante Scalzi” di Pietro Longhi.

Costume, quindi, “… come una componente fondamentale della sua definizione, ovvero – in base al principio che un abito dev’essere letteralmente habitus – come un elemento che deve porsi in stretta relazione con i suoi connotati specifici”

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