di Vittorio Ferla
Kamala Harris è andata male anche negli stati dove doveva andare bene. Quindi è andata malissimo. Come mai? Forse è troppo presto per capirlo, ma per provarci bisogna mettersi dal punto di vista degli americani e non delle élite intellettuali che, negli USA come in Europa e in Italia, hanno commentato l’evento limitandosi a denunciare la carica eversiva e illiberale del candidato repubblicano. Con un paragone cinefilo, si potrebbe dire che l’America di Clint Eastwood, quella più dura, brusca e marginale, vince sull’America di George Clooney, quella più colta, educata e urbana. Entrambi sono ottimi attori, ma Eastwood è anche un ottimo regista (parecchio superiore a Clooney), capace di interpretare e rappresentare plasticamente le contraddizioni della parte più profonda del paese.
Un esercizio che, questa volta, il partito democratico non è stato capace di fare. La candidata dem era troppo scialba. L’idea del sogno di riscatto americano della figlia di immigrati, capace di mescolare origini afroamericane e indiane, idea che era stata alla base della vittoria di Barack Obama, stavolta non è bastata. Nemmeno è bastata la rivendicazione delle conquiste di genere che, piuttosto, potrebbero aver addirittura allontanato l’elettorato maschile tradizionalmente democratico, che soffre una progressiva perdita di ruolo sia sul piano professionale e lavorativo, sia sul piano familiare e del rapporto tra i sessi. L’errore del partito democratico è stato quello di confidare troppo nella forza del simbolo e degli ideali rispetto alla materialità della dimensione esistenziale e di averlo fatto con una candidata inconsistente, percepita come non all’altezza delle sfide presenti. Non è detto ovviamente che Trump lo sia, ma la sua brutale propaganda ha saputo meglio sollecitare i nervi scoperti del popolo americano. In questi anni, il mondo liberal ha insisto in maniera asfissiante su alcune tematiche classiche e sacrosante: tra le altre, i diritti civili, la parità di genere, la tutela delle minoranze etniche. Ma lo ha fatto con alcuni eccessi. Primo fra tutti, l’esplosione dell’ideologia woke, arrivata ormai a livelli così elevati di radicalismo e intolleranza da disturbare perfino una ampia fetta della stessa popolazione che dovrebbe godere dei suoi effetti come i neri e i latinos. Negli ambienti accademici, editoriali, intellettuali e mediatici, chi in questi anni non si è allineato ha corso seri rischi di essere bandito dalla comunità professionale e sociale. Il politicamente corretto si è progressivamente esteso ai più diversi ambiti di intervento, dalle questioni di genere a quelle razziali, con il rischio di imporre una sorta di dittatura del linguaggio. La comunità dei bianchi è diventata tutta insieme responsabile di atti e ideologie schiaviste archiviati dalla storia. L’Occidente inteso come blocco storico unico di civiltà viene accusato di imperialismo e di ogni nefandezza del passato – dal colonialismo alle discriminazioni razziali ai genocidi – e del presente, arrivando all’estremo di giustificare dittatori e terroristi. Israele viene accusata di genocidio e di oppressione da chi per le strade inneggia ad Hamas e nei campus attacca gli ebrei e chiede la cancellazione dello stato ebraico “dal fiume al mare” con la conseguenza di alimentare un nuovo antisemitismo nei confronti dell’unica democrazia del Medio Oriente, mentre si dimenticano le atrocità e le discriminazioni perpetrate dai regimi islamici contro i loro stessi popoli. I movimenti di protesta come Black Lives Matter, nati su emergenze sacrosante di tutela dei neri americani, si sono trasformati in un attacco a tutte le forze dell’ordine con la conseguenza in alcuni casi di peggiorare ulteriormente le condizioni di sicurezza delle città statunitensi. A un certo punto, la campagna elettorale di Kamala Harris ha subito un’ulteriore svolta nella lotta contro il patriarcato del maschio bianco e, perfino, di quello nero con i rimproveri paternalisti di Barack Obama: difficile immaginare che ciò abbia potuto giocare a vantaggio della candidata dem. Colpisce anche lo scarso peso assegnato alle questioni economiche. Il costo della benzina e il costo dei generi alimentari hanno pesato sul voto dei cittadini statunitensi più di ogni altra cosa. Certamente di più delle battaglie culturali e ideali del wokismo. In altre campagne presidenziali del passato, i democratici americani sono stati molto più attenti alle esigenze materiali della popolazione. Nel 1991-92 Bill Clinton riuscì a scalzare dalla Casa Bianca George Bush padre dopo il primo mandato grazie a uno slogan vincente: “It’s the economy, stupid”. Bush fece un errore fatale: dimenticò l’economia. Approfittando della fase di stallo economico del paese, James Carville, stratega elettorale di Clinton, coniò quello slogan che denunciava la disattenzione dell’amministrazione uscente attirando i voti dei delusi verso Clinton. Questa volta l’economia è stata la carta vincente di Donald Trump che, in più, ha associato alle difficoltà economiche la paura per l’impatto degli immigrati sul tessuto sociale: un mix esplosivo che ha convinto molti elettori dell’attenzione dell’ex presidente verso le loro peggiorate (e minacciate) condizioni di vita.
Insomma, in questo ampio quadro di deriva moralista ed estremista della sinistra americana che ha fatto dimenticare la dimensione materiale della vita quotidiana delle persone, un’ampia parte della popolazione (comprese, ripetiamo, le stesse minoranze) ha subito un clima di sopraffazione culturale e ha colto un progressivo distacco dalla realtà con l’esito elettorale che adesso è sotto gli occhi di tutti. La gente delle periferie e delle campagne (e non solo) ha reagito contro i salotti buoni della political correctness.
Libertà Eguale