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Caccia al rivoluzionario rosso: così la Cia ordì la morte di Che Guevara

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AGI – Le battaglie si vincono sempre, ma alla morte è difficile scampare; soprattutto se qualcuno parla. Due anni di ricerche per le foreste della Cordigliera, una squadra espressamente addestrata alla caccia e all’eliminazione, le confessioni di Debray, l’esecuzione: questa la cronaca della fine di Ernesto Che Guevara, il mito della rivoluzione castrista. Anzi, la Rivoluzione fatta gioventù.

Portare il castrismo nel cuore dell’America Latina

Talmente forte, la sua ascendenza sul popolo cubano, che anche Fidel se ne era ingelosito e lo aveva mandato a portare, sulla punta delle baionette, il verbo del castrismo fin nel cuore dell’America Latina. Non sarebbe più tornato. Qui incomincia la storia svelata da un faldone di fogli battuti a macchina, di cabli riservati e semplici appunti – non per questo meno delicati – riemersi in queste ore in quella Washington dove tutto si poteva di ciò che si voleva, e infatti si volle la fine del Mito.

Il tramonto di Che Guevara forse inizia proprio al momento della sua apoteosi, vale a dire quella foto scattatagli da una strana prospettiva ad opera di Alberto Korda, fotografo della Revolucion. Era il marzo del ’60 e i barbudos trionfavano per le vie dell’Avana. Ma troppo bello era quel giovanotto, troppo intenso il suo sguardo: finì nel cuore di intere generazioni, venne stampato sulle magliette di migliaia di studenti delle borghesissime università capitaliste, suscitò entusiasmi. E si sa, l’entusiasmo e l’ammirazione hanno sempre un rovescio della medaglia. Magari non fu questo il motivo della sorda rottura con Castro, famoso a sua volta per una certa baldanza fisica ed un carisma innegabile.

Probabilmente giocò soprattutto una serie di divergenze di carattere politico ed ideologico, ma fatto sta che appena quattro anni dopo quella foto Ernesto prese la via che lo portava fuori di Cuba. E questo in altre latitudini ed altri contesti storici lo si sarebbe chiamato esilio dorato, o volontario che fosse.

Il fallimento dell’avventura in Congo

Andò a parlare alle Nazioni Unite, nella tana del leone, poi tornò a casa ma subito dopo ripartì, con l’Africa come meta. Uno schema che poi si sarebbe ripetuto anche dopo la sua morte: Cuba che esporta la rivoluzione negli ex imperi coloniali appena affrancatisi da Londra o da Parigi, come più tardi da Lisbona. Una lunga ricognizione, la sua, per stabilire se fossero giunte a maturazione le condizioni per l’esportazione del processo rivoluzionario.

Concluse che sì, si poteva fare nel Congo del presidente Joseph Kasavubu. Si sbagliava però di grosso. Il suo ritorno in sordina all’Avana fu tutto che una marcia trionfale. Sarebbe di fatto sparito dalle pubbliche cerimonie.

Su una cosa lui e Castro, comunque, erano d’accordo. Anzi, su due. La prima – magari per opposte ragioni – che non v’era motivo alcuno di sospendere i tentativi di esportare la rivoluzione. Il secondo che gli Stati Uniti, soprattutto dopo la grande paura della Crisi dei Missili del 1962, tenevano gli occhi ben puntati sull’area caraibica e centramericana. La circostanza lasciava spazi liberi più a sud. Lì si poteva tentare. Fine dei punti fondanti dell’accordo tra il Lider Maximo ed il compagno che non lo aveva certo abbandonato la notte della Baia dei Porci.

Argentina o Bolivia?

Che Guevara, infatti, puntava sulla sua Argentina, convinto non a torto che situazione sociale e presenza di una certa simpatia alla causa da parte dei ceti intellettuali avrebbero avuto la loro importanza. Castro decise invece per la Bolivia, avendo da parte propria non qualche isolata motivazione. La prima era di carattere geostrategico (materia nella quale il suo interlocutore non brillava): l’Argentina è il secondo colosso del Sudamerica, ma resta geograficamente decentrata. La Bolivia, senza dubbio meno importante, ha però il pregio di essere al centro di uno scacchiere da cui è possibile destabilizzare tutto il Continente.

Erano gli anni del Gioco a Somma Zero e della Teoria del Domino, per cui Cabot Lodge era convinto che perdere in Vietnam avrebbe voluto dire perdere tutta l’Asia ed automaticamente regalare tutto all’Urss. Vincere a La Paz, per converso, avrebbe significato per la Cuba rivoluzionaria farsi – si perdoni l’espressione degna del peggior vocabolario capitalista colonizzatore – un piccolo impero. Quanto ai rapporti con Mosca, si sarebbe visto cosa fare. 

Inoltre sussisteva un’altra questione, un non detto: il Mito era argentino, l’Argentina era importante e ricca, pertanto consegnare l’Argentina al Mito avrebbe creato una dicotomia rivoluzionaria e magari anche personale. Sparava meno bene di Che Guevara, Castro, ma quanto a politica non gli stava certo dietro. Ernesto partì nel novembre del 1966, mostrando alla dogana un falso passaporto uruguayano. Qui inizia la caccia al Che da parte della Cia. I documenti pubblicati oggi, nell’ambito del Digital National Security Archive della George Washington University, dimostrano che l’Intelligence teneva costantemente informato il Presidente Johnson, ma questo non vuol dire che sapesse nulla di dove l’uccel di bosco fosse andato a posarsi.

A Washington non avevano nemmeno creduto, a dir la verità, che Guevara fosse finito in Congo. Che ci fa un sudamericano in Africa? Bisogna ammettere che la rivoluzione immaginifica di Castro aveva una capacità di elaborazione ben maggiore di quella dei burocrati di Langley. In compenso a Langley si iniziò presto a nutrire una vera e propria fissazione per il destino personale del giovane transfuga.

Il cablo dell’ambasciatore

La prima cosa che si disse, anche questo qualcosa di ricorrente, fu che era morto. Per l’esattezza, Che Guevara aveva già perso la vita nel 1965, quando Johnson aveva mandato i marines nella Repubblica Dominicana. La cosa non resse alla prova dei fatti, ma come tutte le leggende fu dura a morire. Ancora nel 1967 c’era nella Cia chi giurava e stragiurava che le cose erano davvero andate così. E si trattava nientemeno che del responsabile delle operazioni segrete, Desmond FitzGerald.

In quell’atmosfera così sovreccitata quasi ogni giorno arrivava sulla scrivania di Johnson, nello Studio Ovale, un report diverso: è in Perù. No. In Colombia. È passato in Messico, trama in Brasile, è arrivato persino in Vietnam. E così tutte le ansie di Johnson, che iniziava a spedire ragazzi al Generale Westmoreland a migliaia alla volta, finivano per saldarsi. Non ci si sorprenda se, a questo punto, un cablo dell’ambasciatore americano in Bolivia finì inascoltato. “Potrebbe essere qui”, mandava a dire il diplomatico. Macché, non è possibile, ribatté personalmente il capo della Cia, Richard Helms. 

Gli errori fatali

Guevara, insomma, partì molto avvantaggiato. Sperperò però quasi subito il capitale. Il suo primo, imperdonabile errore una volta arrivato in Bolivia proveniente (questa volta sul serio) da Praga fu la rottura con il locale partito comunista. Il segretario Mario Monje si disse disposto a smantellarne la struttura per unirsi agli insorti insieme a minatori e sindacati. Ma Che Guevara voleva essere l’unico a comandare, come scrisse nelle sue carte recuperate in seguito, e declinò l’offerta. Al Pc il controllo di La Paz, a lui quello di tutta la Bolivia.

Così facendo confermò la teoria di Lin Piao, di gran voga a quei tempi, della avversità tra città e campagna, ma pose le basi della sua sconfitta. Il concetto maoista di sostituzione con la classe contadina della categoria del proletariato non avrebbe funzionato. Non avrebbe funzionato per quello che ci verrebbe da chiamare il principio dei Magnifici Sette, che qualche anno prima era uscito nelle sale come remake dei Sette Samurai di Akira Kurosawa.

Nell’ultima scena dell’una come dell’altra versione il guerriero, seppur vincitore, ammette che il contadino ha una forza che chi maneggia le armi non avrà mai: la costanza della semina e del raccolto. Il contadino boliviano non è diverso da quello messicano o giapponese, e questo segnò la condanna del Guerrero Heroico di Korda.

Le azioni si concentrarono nella regione di Cochabamba, a ridosso della Cordigliera delle Ande. Foreste e campi, fiumi e villaggi. Guevara registrò successi iniziali e rapide difficoltà: non conosceva i luoghi, non riusciva a farsi capire dalla popolazione locale; questa prese a considerare i suoi sessanta rivoluzionari di professione come emissari di chissà quale squadra della morte e ad averne paura. Quando il contadino ha paura il controllo del territorio è impossibile: gli americani lo stavano imparando anche loro,  nelle risaie del Mekong. Per la Cia, comunque, si trovava ancora in qualche altro angolo dell’America Latina. Johnson lo leggeva nei rapporti.

La delazione dell’intellettuale francese

Eppure ci fu chi lo trovò: Regis Debray, intellettuale engagée della Parigi a sinistra e sostenitore delle rivoluzioni. La sua storia meriterebbe un racconto a parte, ma quello che emerge dalle carte equivale alla conferma delle accuse che il mondo di sinistra gli avrebbe mosso da quel momento in poi. Quelle di aver contribuito, in modo sostanziale, alla cattura di Ernesto Che Guevara. 

Il 10 maggio 1967 un cablo della Cia indirizzato a Washington riferisce non solo che Debray ha identificato il capo guerrigliero cubano, ma anche fornito una serie di particolari che solo il Che avrebbe potuto conoscere. Primo tra tutti il racconto dei suoi mesi in Congo, quando la Cia lo credeva nella Dominica. Anzi: Debray (nel frattempo opportunamente arrestato dagli uomini della dittatura boliviana) poteva asserire che Guevara gli aveva mostrato il testo del manifesto pronto per essere proclamato al momento della vittoria.

Non ci sono più dubbi. A La Paz vengono inviati due emissari della Cia, Felix Rodriguez e Gustavo Villoldo, ad organizzare una unità speciale. L’esercito boliviano, è la valutazione del Consiglio di Sicurezza Nazionale, è del tutto impreparato e lo si vede dall’andamento delle operazioni sul campo. Ci vuole una squadra “per la caccia e l’eliminazione” di uomini appositamente addestrati al combattimento nella foresta. Mesi di duro lavoro e si parte per l’appuntamento con la morte.

Perduto nella foresta

La sera del 7 ottobre 1967 Che Guevara pare essersi perso: deve raggiungere un gruppo di tre villaggi dove già ha compiuto alcune azioni, ma non li trova. Deve rivolgersi ad una contadina, che gli indica la strada: tre miglia più a nord. La mattina seguente lui ed i suoi uomini vengono intercettati vicino a La Higuera, poche casupole in mezzo al nulla. I Rangers boliviani, come vengono chiamati gli uomini dello squadrone governativo, aprono il fuoco. Il Che resta indietro per coprire la ritirata dei suoi, protegge i feriti ma gli si inceppa il fucile e finisce le munizioni della pistola. Ferito al polpaccio, si deve arrendere.

È la fine del sogno rivoluzionario che i contadini non hanno mai accettato. I documenti pubblicati in questi giorni parlano anche di una volontà americana di salvare la vita al capo rivoluzionario. Sarebbe più corretto dire: di prenderlo vivo.

Qui, se le cose sono davvero andate in questo modo, si apre una corsa per lo scalpo del Che, e vince chi è già sul terreno. I boliviani, vale a dire: il tempo che ci vuole perché un messaggio urgente da Washington arrivi a comandare alla ambasciata a La Paz di intercedere presso il governo, ed uno del governo per essere portato nella selva, e il Mito è stato fucilato. Sono le 13,15 del 9 ottobre 1967. Nelle due ore precedenti Rodriguez, che veste i panni di un regolare dell’esercito, ha parlato a lungo con il condannato (l’ordine di uccisione lo ha ricevuto lui personalmente).

Al suo carnefice l’eroe giovane e bello si dice sicuro che il suo spirito continuerà ad ispirare rivolte e rivoluzioni. Non è stato esattamente così. Se avesse detto “nessuno crederà che io sia morto” invece ci avrebbe visto benissimo. Lo stesso Johnson ci mise due giorni per accettare la notizia. Per non dire dei giovani delle università del mondo capitalista. 

Vedi: Caccia al rivoluzionario rosso: così la Cia ordì la morte di Che Guevara
Fonte: estero agi


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