Augusto Lucchese
(pensieri tratti anche da reminiscenze e scritti del 1948, risalenti a ben 74 anni addietro)
L’origine del “carnevale” è tuttora incerta e non tutti concordano nel riconoscere che la sua denominazione derivi dal latino “carnem levare”.
Pur essendo inteso come “festa pagana” per eccellenza, il carnevale è annoverato fra le più attese ”ricorrenze” dell’anno.
Nessuno, però, ha mai osato proporne l’ufficiale inserimento nel calendario delle festività riconosciute.
La diffusa ipocrisia e i falsi scrupoli della cosiddetta “società civile”, a prescindere dall’ovvio diniego della saccente gerarchia ecclesiastica, non ha mai permesso che gli fosse accordato un simile riconoscimento.
Nell’antica Roma, la classe dei ricconi e dei privilegiati, non paga di condurre una insulsa vita da crapuloni, aveva inventato (in onore di Bacco – l’oriundo greco Dionisio – dio del vino e nume dei bagordi epocali) i celebri “baccanali”, antesignani dell’odierno carnevale.
Gli arguti motti, “carpe diem” o “semel in anno licet insanire …”, nel tempo indicati come slogan degli sfrenati riti carnascialeschi, assursero poi al ruolo di emblematiche icone della dissoluta vita castellana e di corte e, infine, sopravvivendo all’oscurantismo bigotto del medio evo, ai roghi degli eretici, ai delitti dell’Inquisizione, sono divenuti espressione di multiformi deviazioni.
Oggi è ben facile constatare che un po’ dappertutto, ai quattro punti cardinali, il carnevale ha assunto la valenza di un importante evento.
Le nutrite schiere di coloro che “festeggiano” il carnevale si sono infoltite e fra i “fedeli” del “gaudente santone” s’è determinato un coinvolgente legame, frutto della smania festaiola dilagante a tutti i livelli.
I più fanatici, chiaramente, sarebbero ben lieti se il periodo carnevalesco potesse protrarsi per tutto l’anno.
E’ sempre più rilevante, infatti, la massa di coloro che, almeno settimanalmente, va a tuffarsi nel vortice dei bagordi “by night”, convinti che ciò possa rappresentare il migliore rimedio ai diffusi turbamenti psichici, all’eventuale stato di crisi interiore, all’incalzare della depressione, quasi intravedendo un salutare antidoto per ogni malessere esistenziale.
Nessuno vuole contestare il soggettivo diritto al “divertimento”, considerato che chiunque è padronissimo di farsi travolgere come e quando vuole dalle frenesie festaiole, ma non guasterebbe il buon senso di non guardare di traverso chi non condivide talune ossessive forme di “distrazione”.
Ma tornando sul discorso “carnevale” non si può non constatare che esso coinvolge parecchio l’ambiente “civico”, con l’aggravante che, per realizzare le insulse coreografie delle costose “sfilate di carri allegorci” è invalsa l’usanza di bussare a cassa presso le amministrazioni pubbliche al fine di ottenere congrui “contributi”, magari in virtù di riprovevoli commistioni d’interessi o della ipotesi di ottenimento di più o meno consistenti consensi elettorali.
Trattasi, spesso, di sostanziose elargizioni che vanno ad assottigliare le già scarse risorse disponibili per fronteggiare, ad esempio, la funzionalità dei servizi pubblici e sociali, la pulizia e il decoro cittadino, la cura del territorio. Senza dire, poi, dei notevoli sciupii destinati alle fastose illuminazioni (altro che risparmio energetico!), a taluni spettacoli di basso livello, all’approntamento delle strutture e dei servizi, anche di ordine pubblico.
Senza dire delle strade transennate a iosa, degli abusati “divieti di transito”, delle difficoltose “deviazioni”, che in maniera turbativa rendono difficile la vita dei cittadini dissenzienti rispetto alle frenesie carnevalesche.
Appare scorretto, oltretutto, addossare ai contribuenti una consistente parte degli oneri originati dalla baldoria festaiola, il cui peso, ovviamente, ricade anche su quei cittadini che non sanno proprio che farsene dei citati “riti carnevaleschi”, delle ostentative e costose “sfilate”, della messa in scena di tribali e talvolta poco accettabili usanze.
Ciò contraddice parecchio l’affettato sussiego di quei politici e amministratori pubblici che, pur affermando, ad uso e consumo dei creduloni, che la buona amministrazione presuppone il controllo della spesa pubblica, nel passare dal dire al fare, operano in maniera opposta e insensata.
Il cittadino “non festaiolo”, in ogni caso, viene scippato dal diritto di pretendere che le risorse pubbliche non vengano distratte per sovvenzionare attività non connesse con le inderogabili necessità della collettività.
A tal proposito, purtroppo, è da dire che anche i preposti organi di controllo hanno simultaneamente perso vista, udito e senso del dovere.
Per meglio approfondire le riflessioni prima esposte, appare utile e pertinente rifarsi ad uno scrittore del ‘700 il quale, prendendo lo spunto dal fastoso “Carnevale di Venezia”, ebbe a dire, oltre due secoli addietro (ma è come se fosse oggi) che “… in quei giorni la gente è come impazzita, … si muove a masse compatte fra calle e piazze, camuffandosi dietro variopinti e chiassosi costumi o dietro paurose maschere che spesso servono a coprire oscuri intrighi”.
E, a mo’ di chiarimento, si prese cura di precisare che “la massa si lascia volentieri irretire dal carnevale, genuina celebrazione delle miserie morali della società”.
E’ chiaro, infatti, che il periodo del carnevale rappresenta il contenitore di palesi ambiguità, di incongruenze sociali, di deviazioni etiche che, magari tenute circoscritte e represse per tutto l’anno, emergono alla fine in maniera eclatante.
L’occasione appare buona per lasciarsi andare, da “gente pazza che pretende di ragionare”, a chiassose sarabande, a scherzi non sempre garbati, a insulse smargiassate, a sfrenate scorpacciate e bevute.
Per magnificare il carnevale, atteso momento di generalizzata frenesia, parecchi “soldini” vengono fuori, con incredibile prodigalità, dalle tasche di chi si lascia travolgere dall’atmosfera paganeggiante del periodo.
Come non ritenere a corto di senno coloro che, spendendo senza parsimonia consistenti somme per procurarsi “maschere” e “costumi”, per assicurarsi costose “prenotazioni” in locali di grido, per approntare straripanti banchetti, ecc. ecc, ritengono giusto porsi in competizione con i più ricchi. Forse ritengono, in tal modo, di non incappare in beffardi “giudizi” di esacerbato puritanesimo, se non proprio di logoro bigottismo.
Salvo, poi, a rendersi conto che, con tutta probabilità, dovranno fronteggiare, da un carnevale all’altro, privazioni di diversa natura o, addirittura, lo spettro di opprimenti ristrettezze esistenziali.
E che dire ancora di chi, pur se per il resto dell’anno magari è apparso nella veste di inflessibile critico e censore dei comportamenti altrui, d’un tratto, a carnevale, diviene permissivo, accondiscendente e di larghe vedute?
Le celebrazioni del carnevale, di regola, non dovrebbero protrarsi oltre il martedì che precede la ricorrenza delle Ceneri, spartiacque che dovrebbe dare avvio, per categorico dettame cristiano, alla “quaresima” e alle diversificate “penitenze”.
Tale frontiera, manco a dirlo, non esiste più.
E’ a tutti noto, infatti, come parecchie ricorrenze infrannuali e, purtroppo, anche talune feste religiose – magari con l’interessata benedizione di qualificati esponenti della piramide clericale – mescolano “il sacro al profano” e divengono, non certo casualmente, occasione di frenetiche chiassate di sapore carnascialesco, per poi finire, spesso e volentieri, a “tarallucci e vino”.
Il rinomato sistema festaiolo è divenuto, di fatto, il motore di una impressionante e dispendiosa macchina consumistica.
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Fatta questa premessa, non sembra fuor di luogo rifarsi ad alcune riflessioni datate 1948, maturate in un contesto sociale memore dei dolori e delle sofferenze della guerra, pur precisando che lo scenario del carnevale di allora era tutt’altra cosa rispetto a quello odierno.
Già a quel tempo, tuttavia, si poteva osservare come ciascuno insegue a modo proprio la chimera del divertimento.
Era sconfortante constatare come parecchi “nuovi ricchi” – venuti fuori in maniera ben poco trasparente ed onesta dalle paludi delle angustie belliche e piombati come fiere feroci sulla sostanziosa preda del “boom” della ricostruzione – fossero convinti di potere facilmente mascherare la fosca provenienza delle loro fortune con la spregiudicata ostentazione di un elevato tenore di vita. E non erano pochi coloro che, magari infagottati in sfarzosi abiti e ostentando stereotipati sorrisi e disinvolti atteggiamenti, andavano ad accalcarsi nei vari locali approntati alla bisogna per consumare cene luculliane e per scatenarsi in frenetici balli, immersi nel frastuono e nella calca.
In molti erano convinti d’avere lasciato alle spalle i loro poco lineari trascorsi, oltre che il modo con cui s’erano presto dimenticati del “libro e moschetto”, dell’ “eja, eja, eja, alalà”, delle “adunate oceaniche”, delle sfilate in “orbace” e a “passo romano”, tutte cose che erano giudicate da molti, a torto o a ragione, come altrettante “carnevalate”.
Anche allora, come oggi, parecchi fra i festaioli di turno s’illudevano di potere annullare, magari solo per qualche giorno o per qualche ora, disagi economici, angustie, sofferenze e insicurezze.
Molta gente, in definitiva, aveva fatto del finto perbenismo e della inconcludente apparenza, una vera e propria dottrina di vita.
Una larga fascia di povera gente, viceversa, per la semplice ragione di essere costretti a vivere quasi in miseria, da emarginati, annaspando fra quotidiani disagi, privazioni e rinunzie, non era certo in grado di calcare le scene del “carnevale”. Persone che avevano ben altro cui pensare e che mai, e poi mai, avrebbero potuto permettersi il lusso di partecipare a sfilate o balli e, tanto meno, a dispendiosi banchetti.
Anche allora, come oggi, esisteva un’altra faccia della medaglia.
Nel triste scenario del dopoguerra, nel pericoloso anno della svolta politica del 1948, erano poche le persone che riuscivano a riflettere sulla poco edificante realtà sociale parallela, fatta d’angoscianti situazioni, di miserevoli condizioni di vita, d’umilianti realtà che affliggevano le classi sociali povere e che, oltre ogni giustificazione, venivano pressoché ignorate.
Mentre per le strade, nei ritrovi, nelle case dei benestanti si ponevano in essere, con eccessiva prodigalità, banchetti d’ogni tipo, in molte pseudo dimore dei quartieri “poveri” (i dimenticati “ghetti” di paesi e città) regnava spesso, quasi incontrastata, la più squallida indigenza.
Gelide, sporche e disadorne mura facevano da cornice a maleodoranti ambienti ove bambini, tristi e smunti, attendevano, con paziente rassegnazione, un tozzo di pane per lenire la radicata fame e ove ci si contendeva una rabberciata coperta per riscaldare le membra rattrappite dal freddo e dall’inedia. In altri non meno desolati casolari, infermi e anziani pativano inauditi disagi ed erano privi, talvolta, della pur minima assistenza. A fronte dell’incolmabile divario fra ricchi e poveri, esistevano situazioni che avrebbero dovuto turbare la coscienza d’ogni ben pensante. Situazioni che, ovviamente, mal s’addicevano con il ripristinato clima festaiolo del carnevale.
Certo non si è più ai tempi del 1948, quando non era raro, all’imbrunire, assistere dal balcone di casa al rientro in paese di tanti umili e poveri contadini. Erano uomini stanchi, incartapecoriti e taciturni, magari carichi di bisacce e fascine poiché, molto spesso, non disponevano neppure di un asinello o di un mulo. Avevano faticosamente lavorato tutto il santo giorno e avevano percorso sconnesse e irte strade di campagna.
Dal viso ossuto e dalla barba irsuta, traspariva una sorta di velata e malinconica rassegnazione. Tuttavia, apparivano ben contenti quando erano riusciti a mettere assieme quel poco di tenera verdura di campagna e quel poco di alimenti che, a sera, avrebbero permesso alle donne di casa d’approntare una parca cena e, sul fuoco di fumose fornacelle, una calda minestra. Al chiarore ombrato di un lume a petrolio o di qualche candela annerita, seduti attorno ad un traballante desco, avrebbero potuto consumare, alla fine della loro strenua giornata, quel misero pasto, prima d’affidare le stanche membra al disiato duro giaciglio. L’alba di un altro giorno sarebbe presto giunta, implacabile, ed era necessario riacquistare energia e forza.
Chi, in coscienza, poteva fare finta di non essere consapevole che in taluni squallidi ambienti più o meno cavernicoli, uomini, donne, bambini, portavano avanti la loro grama esistenza assembrati in un unico malsano spazio, talvolta assieme agli animali che rappresentavano il loro più prezioso patrimonio? Chi mai potrebbe pensare che costoro, autentici reietti della società, avrebbero potuto rivolgere un benevolo pensiero all’imperversante smania festaiola?
Chi mai fra costoro, all’epoca, avrebbe potuto essere attratto e appagato dall’assistere ad una “sfilata carnevalesca”, magari sotto un’ imperversante “pioggia di coriandoli”?
La distratta “civiltà”, pur se tanto decantata, non era stata ancora capace di portare loro l’acqua corrente, l’elettricità, le fognature, magari solo per apportare, in quegl’ambienti, delle pur minime condizioni d’igiene.
Solo la pioggia, quella battente, era la loro amica, specie quando giungeva copiosa e trascinava a valle il lerciume delle strade, puliva l’acciottolato sconnesso e purificava l’aria, oltre a divenire un prezioso elemento per la loro vita quotidiana nella misura in cui riusciva a riempire le cisterne o, in mancanza, a colmare i catini posti fuori casa.
Dal dopoguerra ad oggi gli anni sono trascorsi ma il modernismo e il tecnicismo che imperversano, le crisi economiche e sociali che si susseguono, i conflitti che divampano in ogni parte del Pianeta, fanno sì che, per molti versi, il citato divario tenda ad allargarsi ulteriormente.
E’ mutato solo lo scenario o gli scenari in cui si svolge il dramma di immense masse di popolazioni.
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Concludendo, nessuno pretende di cambiare le radicate convinzioni di coloro che s’inebriano nel promuovere e nel condividere le diffuse balordaggini delle feste di massa, ma è profondamente immorale lo sperpero che si determina attorno ad esse.
In oltraggio ad ogni credo religioso o ad ogni spirito umanitario, il costoso “diritto” al divertimento, a prescindere dal diffuso andazzo dell’ormai adusa esistenza godereccia, serve solo a sperperare preziose risorse.
E’ quantomeno assurdo ritenere che il partecipare a chiassose serate, magari indossando un “dominò”, una “maschera” o un costoso “costume”, possa fare sì che ci si senta felici e realizzati.
Ciò non sembra possa servire, in ogni caso, a sgomberare la coscienza dal rimorso d’avere offeso la diffusa povertà, magari innescando sentimenti di rancore e di odio di classe, oltre che tentazioni di ribellione o di atti inconsulti.
E’ bene non dimenticare, per inciso, che v’è ancora parecchio di paradossale.
E’ inqualificabile, ad esempio, il comportamento di taluni personaggi politici o sindacali (specie quelli che pur non essendo più “proletari” e avendo dismesso da tempo più o meno appariscenti fronzoli rosso-porpora), quando disinvoltamente si lasciano coinvolgere anch’essi dai “riti festaioli”, addirittura in competizione con i tanto invisi “capitalisti – reazionari”.
Salvo poi, passata la festa e “gabbatu ‘u santu”, a riprendere la farsa degli abusati e demagogici “discorsi”, magari inneggianti ai diritti del “basso ceto”. Ogni occasione diviene buona per strumentalizzare la miseria, il disagio salariale, il “caro vita”, per urlare a squarciagola provocatori “slogan”, per intonare inni esaltanti, per chiedere di continuare a votare per loro.
Scivolando lungo il pendio del più antico e insanabile dramma dell’uomo – il diuturno scontro fra ricchezza e povertà – si è forse finiti, magari senza volerlo, fuori tema.
Confortati però dal fatto che a carnevale “ogni scherzo vale”, non ci resta che chiedere venia agli amici benpensanti ed anche a chi, cocciutamente, non intende rinunciare alle smanie festaiole.