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 Brexit: la pesca, l'ultimo e faticoso miglio del negoziato

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AGI – E’ stata la pesca il nodo più difficile da sciogliere tra le questioni rimaste in sospeso al termine del negoziato sulla Brexit. E’ su quote di pescato del valore pari a meno di 100 milioni di euro, circa la spesa annuale in welfare della Repubblica di San Marino, che si è rischiato il ‘no deal’. Ed è la pesca il motivo per cui non è stato chiuso ancora quel sospirato accordo che pareva dovesse essere annunciato nelle prime ore del mattino, dopo che, a quanto si apprende, l’Unione Europea aveva utilizzato dati obsoleti per il ricalcolo del pesce che avrà il diritto di prelevare dalle ricchissime acque britanniche, dove il 60% dei prodotti ittici viene raccolto da imbarcazioni straniere.

In origine, il Regno Unito aveva, come ogni Stato, una zona economica esclusiva che si estendeva fino a 200 miglia nautiche al largo della sua costa. Nel contesto comunitario, è stata decisa la gestione congiunta di queste aree nell’ambito della politica comune europea sulla pesca, che prevede la distribuzione di quote, calcolate su ogni singola specie ittica, ai pescatori di ogni nazione. Nell’Atlantico nordorientale e nel Mare del Nord, sono un centinaio le specie oggetto di gestione condivisa tra il Regno Unito e l’Ue. Alcuni Stati europei godono inoltre di un accesso “limitato” ad aree situate entro 6-12 miglia nautiche dalla costa britannica, in acque territoriali, in riconoscimento di vecchie attivita’ tradizionali.

I pescherecci dell’Unione Europea prelevano pesce per 650 milioni di euro all’anno dalle acque britanniche, con le flotte di otto Paesi che contano per il 40% del pescato. Il pesce catturato nella zona economica esclusiva di Londra (in particolare specie pelagiche come sgombri, aringhe e merlani) conta per il 20% del valore della raccolta dei pescherecci francesi, percentuale che sale al 28% per i Paesi Bassi, al 30% per la Danimarca, al 35% per l’Irlanda e addirittura al 50% per il Belgio. Spagna, Germania e Svezia attingono alle acque britanniche in misura minore. A livello commerciale, il Regno Unito esporta tra il 60% e l’80% dei suoi prodotti ittici e l’Ue ha assorbito quasi il 70% delle esportazioni di pesce britanniche.

A rendere le acque britanniche molto pescose sono i meccanismi biologici. Le uova vengono deposte lungo le coste francesi e fino alla Danimarca, zone adatte al nutrimento degli avannotti perche’ abbastanza basse e sabbiose. Raggiunta l’eta’ adulta, i pesci partono per il Nord alla ricerca di acque piu’ profonde, fredde e ossigenate del nord. Tale fenomeno e’ stato accentuato dal cambiamento climatico, in particolare per merluzzi e passere di mare, specie molto presenti nel Mare del Nord.

Per l’accordo post-Brexit, l’Ue si è offerta di rinunciare a circa il 25% del valore dei prodotti catturati nelle acque britanniche dalle flotte europee, dopo un periodo di transizione di sei anni. Londra ha risposto proponendo a Bruxelles di rinunciare al 35% per le specie non pelagiche, o al 60% comprese le specie pelagiche, per un periodo di tre anni ma Bruxelles ha detto no.

L’ultima offerta britannica sul tavolo prevede che l’Ue rinunci al 25% della quota attuale dopo un periodo di transizione di cinque anni e mezzo, dopo il quale le regole per l’accesso reciproco alle zone di pesca sarebbero rinegoziate ogni anno, come avviene con la Norvegia. Tale strada però è ritenuta impraticabile dal capo negoziatore europeo, Michel Barnier: “Stiamo parlando di 100 specie (condivise tra Ue e Regno Unito), non cinque come con la Norvegia”. Inoltre, gli inglesi desiderano disconoscere le attivita’ tradizionali entro le 6-12 miglia, in alcuni casi risalenti a centinaia di anni fa. Un esempio è la carta del 1666 con la quale Carlo II concesse a 50 pescherecci fiamminghi accesso perpetuo alle acque inglesi, carta che il governo belga ha annunciato di voler far valere in caso di no deal. 

Vedi:  Brexit: la pesca, l'ultimo e faticoso miglio del negoziato
Fonte: estero agi


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