AGI – E’ iniziato il conto alla rovescia. Quattro anni e mezzo dopo che il Regno Unito ha votato per lasciare l’Ue, tra sei settimane scadrà il periodo di transizione post-Brexit e a quel punto l’uscita dall’Unione europea sarà inevitabile, sia con un deal o con un no-deal ossia sia che si raggiunga o meno un accordo con l’Unione Europea. Cosa accadrà dopo il primo gennaio 2021?
“Oggi non si può dire se arriveremo a un accordo”, con il Regno Unito su Brexit. Lo dice la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen: “Un possibile testo definitivo è stato delineato, tuttavia restano tre temi che potrebbero essere uno spartiacque per raggiungere o meno un’intesa: la pariteticità, la governance e la pesca. Abbiamo poco tempo, faremo il possibile e saremo disposti a essere creativi ma non siamo disposti a mettere in discussione l’integrità del mercato unico”. Il governo di Boris Johnson sostiene che un accordo minimalista “in stile canadese” – con tariffe o quote zero sui beni scambiati – dovrebbe consentirgli di preservare la massima sovranità. L’Unione europea invece è del parere che la Gran Bretagna stia chiedendo molto di più di quello che è previsto nell’accordo Ue-Canada e che le sue maggiori dimensioni e la prossimità con il continente europeo richiedano maggiori garanzie per una concorrenza leale di quelle richieste al Canada.
In caso di un mancato accordo, l’Ue e il Regno Unito effettueranno gli scambi alle condizioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Le cui tariffe e quote possono essere applicate anche in presenza di un accordo commerciale, nonostante entrambe le parti cerchino di evitarlo. Ma un “no deal” sarebbe probabilmente più costoso per i commercianti in termini di tariffe. Il tasso Ue per i paesi terzi è del 10% per le importazioni di automobili e del 90% per alcune importazioni di carni.
Nel settore dei trasporti senza un accordo, i trasportatori del Regno Unito e dell’Ue non avrebbero più il diritto di operare nei rispettivi territori. Questo potrebbe essere molto dannoso per i camion comunitari, che costituiscono la stragrande maggioranza di quanti arrivano ogni giorno nel porto inglese di Dover. Nel 2019, l’Ue ha dichiarato che avrebbe consentito ai camion britannici l’accesso temporaneo solo per nove mesi. Un punto interrogativo esiste anche sul reciproco riconoscimento delle patenti di guida e degli standard professionali da parte del Regno Unito e dell’Unione Europea.
Per quanto riguarda le ferrovie invece, la determinazione di uno scenario o di un altro non farebbe molta differenza per gli operatori e i conducenti transfrontalieri: dovranno comunque conformarsi a due sistemi diversi a partire dal 2021. Nei trasporti aerei, dal 2019 entrambe le parti si sono accordate per preservare i collegamenti di base senza alcun problema.
Ma è improbabile che le compagnie aeree britanniche siano in grado di volare all’interno dell’Ue e viceversa. I servizi potrebbero essere limitati in quanto il Regno Unito avrebbe bisogno di accordi bilaterali con paesi all’interno e all’esterno dell’Europa.
Nel comparti dei servizi senza un accordo, l’Ue e il Regno Unito potrebbero non riconoscere le rispettive qualifiche professionali, anche se gli Stati membri sarebbero in grado di prendere decisioni unilaterali. Le imprese dell’Ue dovrebbero rispettare le regole di stabilimento nel Regno Unito per operarvi, mentre le società di servizi del Regno Unito dovrebbero soddisfare i severi requisiti previsti per i “paese terzi” per potersi stabilire nel continente. A tal proposito, alcune grandi imprese hanno già adottato misure preventive.
Per quanto riguarda i servizi finanziari, a meno che non venga concordato un accordo, le imprese del Regno Unito non avranno più diritto a servizi “passaporto” nei paesi dell’Ue. I consulenti e le compagnie di assicurazione con sede nel Regno Unito potrebbero trovarsi di fronte un’operatività limitata nell’Ue.
Le aziende del Regno Unito potrebbero poi dover fare affidamento su decisioni individuali di “equivalenza”, ovvero quel tipo di decisioni che uno Stato prende per riconoscere i requisiti di servizio di un altro. Se l’Ue non dovesse riconoscere come adeguato il sistema di protezione dati del Regno Unito, potrebbe diventare più difficile trasferire dati tra le due regioni. Potrebbe inoltre divenire molto più difficoltosa la condivisione di informazioni rilevanti tra le forze dell’ordine di entrambe le parti.
Per la pesca uno scenario “no deal” potrebbe finire per consentire ai pescherecci britannici di pescare nelle acque del Regno Unito più di quanto non potrebbero fare con un accordo, che potrebbe invece imporre delle restrizioni. Sia il Regno Unito che L’Unione Europea avrebbero diritti esclusivi nelle proprie acque, e ciascuno avrebbe bisogno di un permesso per operare sul territorio dell’altro.
La rottura è inevitabile? Per il Financial Times “ci sono le ragioni politiche convincenti per un compromesso”. “In primo luogo – spiega l’autorevole testata giornalistica – un risultato senza accordo potrebbe essere più complicato da vendere oggi rispetto a un anno fa. Ora che il Regno Unito ha lasciato legalmente l’Ue e si sta riprendendo dalla pandemia, rischiare migliaia di posti di lavoro rifiutandosi di firmare anche un accordo commerciale minimo è piu’ difficile da spiegare usando argomenti astratti di sovranità.
In secondo luogo, molti posti di lavoro nel settore manifatturiero più vulnerabili alle tariffe si trovano nelle Midlands e nel nord dell’Inghilterra, che sono spesso in collegi elettorali che hanno votato conservatore per la prima volta nelle elezioni dello scorso dicembre. Ogni giorno in più di ritardo aumenta l’incertezza per le aziende”.
Quindi? La strada per l’accordo finale – sostiene il Ft – risiede sicuramente in ulteriori concessioni da Londra sulle cosiddette disposizioni di “parità di condizioni” su aiuti di Stato, norme ambientali e di lavoro, e da Bruxelles sulle richieste di accesso invariato per le flotte pescherecce dell’Ue alle acque del Regno Unito”.
Inoltre “un meccanismo reciprocamente accettabile per la risoluzione delle controversie potrebbe garantire che nessuna delle parti sia svantaggiata da azioni sleali dell’altra. L’Ue potrebbe concordare parallelamente una transizione graduale dagli accordi di pesca esistenti, forse attraverso quote rinnovabili meno frequentemente rispetto agli intervalli annuali richiesti dalla Gran Bretagna.
Garantire anche queste concessioni sarà impegnativo se le due parti rimarranno così distanti. Eppure il premio, quello di garantire che un commercio ordinato continui tra le depredazioni del coronavirus e di poter finalmente voltare pagina sulla Brexit, è considerevole. Per il signor Johnson, che tenta di riavviare il suo turbolento governo, è qualcosa che dovrebbe afferrare con entrambe le mani”.
Il Financial Times propende per un compromesso ma riporta ugualmente due possibile scenari. “Nella migliore delle ipotesi – spiega – gli accordi commerciali britannici torneranno ai livelli in cui erano nel 1992, prima della nascita del mercato unico europeo”. Cioè si raggiungerà un accordo simile a quello Ue-Canada.
“Nel peggiore dei casi, invece, senza un accordo di libero scambio con l’Ue, i settori critici dell’economia britannica dovranno affrontare tariffe dannose per le esportazioni verso un mercato (quello Ue) di gran lunga più grande del Regno Unito”.
Per alcuni settori, in particolare l’agricoltura e l’automotive, l’imposizione di tariffe elevate minaccia di eliminare la maggior parte degli scambi. Secondo Mike Hawes, capo della Society of Motor Manufacturers and Traders del Regno Unito, “una Brexit senza accordo avrebbe un impatto immediato e devastante sul settore, minando la competitività e causando danni irreversibili e gravi”.
Anche Moody’s ritiene che una Brexit senza accordo “avrà un impatto negativo sulle case automobilistiche più lungo della pandemia di coronavirus”. Dello stesso parere è il politologo della Boe Michael Saunders, secondo il quale “le aziende si scrolleranno di dosso l’effetto del Covid in quanto temporaneo, ma gli effetti a lungo termine della Brexit potrebbero essere più permanenti”.
Questo collo di bottiglia alle frontiere potrebbe essere alleviato, sostiene il Financial Times, “se fosse firmato un accordo con intese di cooperazione doganale per limitare i controlli per un periodo provvisorio e facilitare cosi’ il flusso di traffico se si accumulano code”.
“Per la stragrande maggioranza del mondo – nota il Ft – la Brexit è uno spettacolo secondario. Diventa insignificante rispetto ai problemi economici e sociali causati dal Covid-19, ma per il Regno Unito e per alcune parti dell’Europa, la possibilità di una rottura alla fine di quest’anno aggiunge un’altra dimensione alle incertezze future”.
“Sebbene un accordo sia meglio di nessun accordo economico [per il Regno Unito] – sostiene il professor Jonathan Portes del King’s College di Londra – la cosa peggiore in realtà è lo status quo. Un accordo richiede dei politici che ce la facciano a difenderlo. Un non accordo consente loro solo di incolpare l’altra parte”.
“Affinché un accordo venga raggiunto – dice David Henig, direttore britannico del Centro europeo per l’economia politica internazionale – la Gran Bretagna dovrà accettare di non rivendicare tutto il pesce che nuota nelle sue acque territoriali, sottoscrivere impegni a non sovvenzionare le società britanniche o ridurre le norme sociali e ambientali dell’Ue e revocare le minacce di annullare il diritto internazionale sul protocollo dell’Irlanda del Nord dell’accordo di recesso Brexit. Ma non è per niente chiaro che i parlamentari comprendano che questa sarebbe una vittoria”.
Vedi: Brexit: deal o no-deal? L'economia britannica a un bivio
Fonte: economia agi