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Bilancio, la sindrome del ‘brevissimo termine’

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di Enrico Morando

Quando, la primavera scorsa, il Governo presentò al Parlamento un Documento di economia e finanza (Def) che non era tale -c’era la tabella di finanza pubblica a legislazione vigente, ma non quella programmatica- furono pochissime le voci che si levarono per sottolineare che quella scelta di aperta violazione delle regole di contabilità pubblica (italiane ed europee), era un’ inequivocabile spia della totale mancanza di profondità temporale della programmazione economica e di finanza pubblica. Un difetto di visione sul proprio futuro di medio termine che un Paese con elevato debito e deficit di bilancio pubblico e con elevati squilibri sociali e territoriali rischiava di pagare molto caro.

Che la scusa addotta dal Governo a giustificazione di quella scelta-“mancano le specifiche tecniche del nuovo Patto di stabilità e crescita europeo“– fosse una malcerta foglia di fico era evidente, ma tutti i fondamentali attori -la Presidente della Commissione europea, a caccia di voti per la riconferma; e la stessa opposizione italiana, consapevole di non essere pronta ad una sfida sul terreno della programmazione di medio termine- scelsero di non insistere sul punto. In fondo, il rinvio all’autunno, alla legge di bilancio, era poca cosa e poi… si sa che della programmazione economica “la gente“ non si interessa. Non l’ha detto un grande economista che nel lungo termine “saremo tutti morti“?

Ora settembre è arrivato, ma la sindrome del brevissimo termine non è passata: tutto si gioca sulle scelte da compiere nel bilancio preventivo per il 2025. La domanda su cui è concentrata l’attenzione di tutti è infatti la seguente: riuscirà il “prudente“ ministro Giorgetti a trovare le risorse per rifinanziare anche per il 2025 le misure fiscali -decontribuzione e Irpef sui redditi medio-bassi dei lavoratori dipendenti-, che sono in vigore oggi? Dando ovviamente per scontato che, se risposta positiva ci sarà (perché sì, ci sarà risposta positiva), sarà nuovamente per un solo anno. Così anche l’anno prossimo, e in quello successivo ancora, potremo concentrarci, sotto l’ombrellone, sulla stessa domanda; e poi, tornati al lavoro, sulla stessa risposta: “ce l’abbiamo fatta: ancora per un anno…“.E così via, disperatamente.

È un modo di procedere che preclude all’Italia la possibilità di sfruttare appieno appieno due circostanze favorevoli: quella del PNRR e quella delle nuove regole del Patto di stabilità e crescita europeo.

Sulla prima, è presto detto: fino a tutto il 2026, quella politica fiscale ultraespansiva che i Governi degli ultimi 20 anni non hanno potuto mettere in atto, per i ben noti limiti del bilancio pubblico nazionale, potrà svilupparsi appieno, perché finanziata con risorse pubbliche europee, ricavate da emissioni di debito europeo, sul merito di credito dell’Unione come tale. La spesa pubblica “buona“ di cui parla il Ministro Fitto è ampiamente finanziata e la sua “bontà“ dipende dalla capacità di impiegarla correttamente e rispettare i tempi del relativo cronoprogramma. A lume di naso, potrebbe non essere stata una buona idea quella di impiegare un anno e mezzo -sui cinque effettivamente disponibili- per cambiare il PNRR “di quelli di prima”, stralciando i progetti dei Comuni (che oggi scopriamo essere tra quelli ad uno stadio più avanzato di realizzazione)… Ma questo non è il momento per recriminazioni sul passato. Una cosa è infatti certa: il programma Next Generation EU toglie al Governo in carica in Italia ogni alibi derivante dai vincoli di bilancio dentro cui si sono mossi i Governi precedenti: il ciclo degli investimenti, che il programma nazionale di Industria 4.0 ha robustamente avviato-, consentendo alla parte più dinamica dell’apparato produttivo manifatturiero italiano di recuperare livelli di produttività da record mondiale-, può ora allargarsi al sistema infrastrutturale, invertendo il cattivo andamento pluridecennale della produttività totale dei fattori. A mancare, di qui al 2026, non saranno le risorse finanziarie. Ma il PNRR è un insieme di progetti di investimento e riforme. Se i primi ora ci sono, l’ossessione del brevissimo termine induce invece a trascurare le seconde, che si fanno oggi (anche pagando qualche prezzo sul terreno del consenso elettorale), perché producano i loro frutti domani. L’elenco è noto: riforma della contrattazione e robusta iniezione di democrazia economica; più istruzione e meno anticipi di pensione (Salvini e le sue quote sono stati un flagello); politiche attive per il lavoro, completando (e non certo abrogando) il Jobs Act; effettivo governo di immigrazione “buona“…

L’assunzione di un orizzonte di medio termine è anche la principale novità delle nuove regole del Patto europeo: i Paesi con elevato deficit e elevatissimo debito pubblici possono chiedere e ottenere di adottare piani di rientro più graduali (quindi, meno prociclici di quanto siano stati in passato), fino a sette anni. E debbono impegnarsi a conseguire non solo obiettivi di saldo, ma anche -e soprattutto- obiettivi specifici sull’evoluzione della spesa primaria. Entro il 20 settembre, il Governo dovrà presentare il Piano italiano. Che impegnerà il Paese per i prossimi sette anni, molto oltre il termine di questa legislatura. Un piano specifico per l’Italia, in 15 giorni? Con una regola sulla evoluzione della spesa per i prossimi sette anni? Impossibile: non siamo in grado nemmeno di scrivere nella Legge di bilancio che gli sgravi Irpef per lavoratori dipendenti saranno in vigore anche nel 2026…

Ora che siamo vicini al momento delle scelte, anche i più disincantati capiranno quanto sia stato grave l’errore di non lavorare alla programmazione di medio termine nei sei mesi che ci stanno alle spalle. Il tempo (colpevolmente) perduto non si può recuperare. Ma forse c’è ancora quello necessario per cambiare, se non le risposte, almeno le domande. Non più: “come si fa a mandare in pensione qualche mese prima la tal categoria di lavoratori?“, ma: “come si fa a far evolvere la spesa pubblica in modo tale che, tra sette anni, quello che spenderemo in istruzione sia molto di più di quello che spendiamo ogni anno per interessi sul debito?“.