di Luciano M. Fasano fonte@ perfondazione.eu/
È ben noto che definire il populismo è cosa assai difficile, come dimostrano la molteplicità di studi – sociologici, filosofici e politologici – su questo tema, che a seconda dei casi spesso enfatizzano anche aspetti diversi (Segatti, 2019). Una moltitudine di definizioni anche assai diverse fra loro, che si allineano in una lista spesso vertiginosa per la sua indeterminata lunghezza, producendo una sorta di bulimia classificatoria, che si è peraltro accentuata nel corso dell’ultimo decennio a seguito dell’incremento delle manifestazioni politiche riconducibili a questo fenomeno. Con ciò, una panoramica di questa ampiezza, per com’è possibile ritrovare nelle molteplici pubblicazioni dedicate al tema (Tarchi, 2019; Rovira-Kaltwasser, Taggart, Ochoa Espejo e Ostiguy, 2017) , è già di per se stessa motivo di una grande ambiguità di significati. Del resto, come hanno già avuto modo di sottolineare altri contributi, è l’essenza stessa del populismo, nella sua forma cangiante, flessibile, capace di adattarsi a situazioni diverse, a rendere assai difficile, se non impossibile, definire in maniera analiticamente e concettualmente univoca questo particolare fenomeno.
In ogni caso, minimo comun denominatore fra le diverse definizioni disponibili per il populismo è l’idea intuitivamente – non razionalmente – fondata, apoditticamente postulata e ipostatizzata della superiorità morale del popolo. Una superiorità che trova simbolicamente una sintesi assai efficace nello stilema, tipicamente populista, che è possibile ritrovare nella seguente frase di Eva Duarte Peron (1953): “Un giorno saggiamente disse Peron che, avendo percorso il paese da un capo all’altro e avendone conosciuto tutte le bellezze e le meraviglie alla fine ebbe ad incontrarsi con la sua più grande e alta bellezza, il popolo” (Bobbio, Matteucci e Pasquino, 1990; p. 833). In tal senso, possiamo generalmente ricondurre al populismo le diverse formule politiche, in particolare pratiche discorsive e retoriche, per le quali “fonte precipua di ispirazione e termine costante di riferimento è il popolo considerato come aggregato sociale omogeneo e come depositario esclusivo di valori positivi, specifici e permanenti”(Bobbio, Matteucci e Pasquino, 1990; p. 832).
La superiorità morale del popolo, che per l’appunto può considerarsi elemento costitutivo irrinunciabile del populismo può essere declinato, variabilmente combinato con altre caratteristiche salienti del fenomeno, sia in una prospettiva di destra che di sinistra. Fin dalle sue origini storiche, infatti, il populismo trovò declinazioni appropriate su entrambi i fronti della dialettica politica moderna. Dapprima – dal 1848, fino all’avvento del bolscevismo al potere con la Rivoluzione russa – nell’ambito della nascente tradizione dell’anarchismo e del socialismo russo, dove attecchì soprattutto sulla natura spontaneamente collettivista e socialista delle comuni dei contadini russi (l’obščina; Venturi, 1952 e 1972). Successivamente – dal 1891, con la nascita del People Party, nello stato americano dell’Ohio – nel solco dell’individualismo della nuova frontiera di stampo jeffersoniano, dove si affermò soprattutto fra i coloni e i piccoli contadini (farmers) degli stati del Middlewest e del Sud (Pollack, 1962 e Gennaro Lerda, 1981). Movimenti politici che, pur nascendo in contesti sociali ed economici diversi – la Russia pre-capitalistica e gli Stati Uniti proto-capitalistici – si contraddistinguevano entrambi per una sorta di “utopia regressiva”, ovvero un profondo attaccamento nei confronti di un mondo che stava tramontando, che non veniva declinata in una prospettiva coerentemente conservatrice, ma piuttosto come un rassicurante ancoraggio a quei valori e principi che avrebbero in una certa misura potuto attenuare le conseguenze più contraddittorie e conflittuali delle trasformazioni in atto. Anche se è a partire dall’esperienza americana che il fenomeno populista (associato in quel peculiare contesto al termine inglese “populism”) si arricchisce di significati particolari che rinviano in chiave demagogica a quell’atteggiamento ingenuo quanto velleitario per cui i grandi e inevitabili problemi che insorgono a seguito delle trasformazioni sociali possano essere risolti grazie all’amore per il popolo e la considerazione del senso comune che lo alimenta.
Anche in epoca recente, il populismo è solito manifestarsi come fenomeno politico sia di destra sia di sinistra. Vox e Podemos in Spagna ne sono un chiaro esempio a livello di un determinato paese. Ma non solo: siamo soliti ricondurre a un’ispirazione populista i comportamenti di partiti di destra, come la Lega (prima Lega Nord, poi Lega per Salvini Premier) in Italia, il Partito dei Pirati nei Paesi Bassi, Alternative for Deutchland in Germania, il Rassemblement National in Francia, ma anche di partiti di sinistra, oltre al già citato Podemos, il Movimento 5 Stelle (rispetto alla sua ultima evoluzione) in Italia, Syriza in Grecia, La France Insoumise in Francia. E ancora, proprio per questa sua straordinaria variabilità adattiva, il populismo può ritrovarsi anche in partiti e leader politici che apparentemente sembrano del tutto estranei a questo tipo di comportamenti. In questo senso, perciò, possiamo ritenere che il populismo sia in una certa misura un aspetto costitutivo ineliminabile della politica democratica. È noto che i due pilastri su cui si fonda ogni polity democratica sono, da un lato, quello del consenso popolare e, dall’altro, quello delle garanzie costituzionali. L’uno senza l’altro non sono in grado di rappresentare una democrazia, perché un regime democratico fonda le proprie condizioni di legittimazione sul principio della sovranità popolare. Ma talvolta l’uno, cioè il consenso popolare, può prendere il sopravvento sull’altro, che viene di conseguenza messo in secondo piano, quando non addirittura escluso. Nelle democrazie “illiberali”, come sono definite da Zakaria (2007), in cui si celebrano elezioni libere, competitive e corrette sebbene non vengano generalmente rispettati i diritti civili e la Rule of Law, così come nelle democrazie “delegate” secondo O’Donnell (1994), dove il potere esecutivo è di fatto sottratto al controllo di quello legislativo e giudiziario, accade proprio questo. Chi vince le elezioni si ritiene autorizzato a governare come meglio crede, soggiacendo ai soli rapporti di forza che si sono determinati nelle urne. È infatti tale il ruolo che il consenso popolare gioca nel definire costitutivamente – sebbene non dovrebbe avvenire in maniera esclusiva- una polity democratica, che il richiamo alla funzione di legittimazione democratica esercitato in via di principio dal “popolo” può talvolta assumere una valenza soverchiante. Ed è proprio in ciò che consiste la natura implicitamente populista della politica democratica: nella tentazione, sempre latente, di attribuire in ultima istanza al giudizio positivo di chi ci ha votato, in quanto popolo, la legittimazione incondizionata di ogni nostra iniziativa politica. È chiaro che il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo” del famoso discorso di Lincoln a Gettysburg (1863) non significa questo, ma il “cortocircuito” fra consenso popolare e legittimazione democratica esclusiva è sempre in agguato! Così come lo è la manipolazione in chiave strumentale del consenso elettorale come espressione incondizionata della volontà generale.
In virtù delle sue caratteristiche cangianti, oltre che della sua pervasiva latenza nel contesto della politica democratica, il populismo ben si presta a rappresentare un aspetto che può, variabilmente e a seconda delle circostanze, interessare anche organizzazioni politiche i cui tratti ideologici e culturali tendenzialmente contrastano con la stessa logica populista. Ciò si deve anzitutto al fatto che un comportamento populista, grazie all’ambiguità e versatilità che dal punto di vista culturale lo contraddistinguono, tende a presentarsi assumendo la forma di una scelta strategica contingente, configurando una sorta di manovra diversiva che un dato attore politico (partito o leader) può mettere in atto per cercare di gestire situazioni e scelte difficili, al fine di aggirare tali circostanze attraverso la ricerca di un più facile e meno impegnativo consenso. Il populismo, quindi, non lo si ritrova soltanto nei partiti populisti o neo-populisti strettamente intesi, ma poiché corrisponde a un tipo di comportamento strategico che può risultare particolarmente utile, ed elettoralmente efficace, in situazioni difficili, può in maniera congiunturale ritrovarsi anche in partiti politici che siamo abituati a considerare non populisti.
Un esempio in questo senso è rappresentato dal Partito comunista italiano, nel corso dell’ultima fase della segreteria di Enrico Berlinguer, dalla fine del governo di “solidarietà nazionale” fino alla battaglia per il referendum abrogativo sulla scala mobile. Un partito che, di per sé, presentava caratteristiche ideologiche, politiche e organizzative estranee ed alternative a una logica populista. Basti pensare al principio decisionale del “centralismo democratico” (per cui le decisioni vengono prese dal gruppo dirigente centrale e poi trasmesse per l’adozione all’intero partito) e alla “natura leninista” della forma partito (centrata sul criterio di responsabilità per il gruppo dirigente, con il corollario dell’unità necessaria di fronte alle scelte politiche di ordine strategico; Macaluso e Petruccioli, 2020 e Napolitano, 2005). Ma nemmeno il PCI è stato in grado di sottrarsi alla tentazione del populismo, che peraltro poteva essere chiaramente rintracciato anche nell’atteggiamento ideologico di molti intellettuali progressisti italiani. Va infatti ricordato come già alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, Asor Rosa evidenziasse la diffusione fra gli intellettuali di sinistra di una concezione del “popolo” che ingenuamente tendeva ad attribuirgli una valutazione positiva, sotto il profilo ideologico, storico, sociale o etico, secondo una logica orientata a trovare in una tale immagine ipostatizzata e mitizzata un possibile antidoto alla modernizzazione. Secondo Asor Rosa (1965), i principali limiti di un approccio populista di questo tipo, che in particolare traeva origine dalla cultura progressista nata dalla Resistenza, risiedevano nel condannare le condizioni delle classi subalterne nei termini di un’indistinta indignazione umanitaria che, facendo appello all’unità di tutte le forze popolari del paese, si esauriva in una denuncia dell’arretratezza socio-economica dell’Italia generica ben poco efficace dal punto di vista politico. Una concezione che tuttavia risultava in forte contrasto con il ruolo che il marxismo assegnava alla classe operaia nello sviluppo e nel superamento del capitalistico moderno. Questo tipo di populismo, come mise in luce Matteucci, risultava particolarmente attraente anche agli occhi di alcune componenti del mondo cattolico, che condividevano con la sinistra una visione manichea dei conflitti sociali e l’avversione verso il pluralismo della cultura liberale, accompagnate da un’evidente ostilità nei confronti del progresso e della modernità (Matteucci, 1976).
Il Partito comunista italiano sotto la guida di Enrico Berlinguer e nella fase storica che va dal colpo di stato in Cile (1973) ai governi di solidarietà nazionale (1976-79), che coincide anche con la costruzione della strategia del cosiddetto “Eurocomunismo” (1973-77), si trova al centro di scelte strategiche complicate e difficili, non prive di forti contraddizioni logiche e politiche. La straordinaria avanzata elettorale, la fine della spinta propulsiva esercitata dal comunismo sovietico, i rischi per la democrazia che si affacciano in diversi paesi, dal golpe cileno alla Grecia dei colonnelli, lo stragismo e la strategia della tensione in Italia, pongono i comunisti italiani dinnanzi a un impegnativo problema strategico: come consolidare il proprio ruolo nel gioco politico italiano evitando di mettere a repentaglio la tenuta delle istituzioni democratiche. La soluzione è individuata a livello nazionale nel “compromesso storico”, cioè nell’accordo di governo con la Democrazia cristiana, e in sede internazionale nell’ “Eurocomunismo”, cioè la rivendicazione, insieme ai partiti comunisti spagnolo e francese, di una maggiore autonomia rispetto all’Unione Sovietica. Ma con la fine degli anni Settanta questa prospettiva strategica va esaurendosi. E a quel punto il PCI si trova senza riferimenti, dovendo ripensare ex novo la sua funzione di grande partito di massa e di principale forza di opposizione. È così che si creano le condizioni per alimentare quel culto dell’alterità comunista che, a partire dall’affermazione della cosiddetta “questione morale”, relegherà il PCI nel ruolo di un’opposizione irriducibile e intransigente, quanto sterile e inefficace, per quasi tutta la durata degli anni Ottanta, portandolo ad assecondare una lettura della politica italiana e dei suoi protagonisti improntata a una logica che presenta chiare componenti populiste.
Ma come maturano le condizioni di questa svolta populista? Quali caratteristiche ideologiche, culturali e politiche dei comunisti italiani favoriscono l’affermarsi di una strategia che strizza l’occhio al populismo? Cosa permetterà il consolidarsi di questo atteggiamento nelle fila della sinistra italiana, al punto che ancora oggi in molti sui settori risulta assai controverso riconoscersi in una prospettiva riformista in grado di assumersi compiutamente una matura responsabilità di governo, senza ritenere di aver tradito gli ideali più profondi della propria tradizione politica?
Negli anni che seguono il colpo di stato in Cile del 1973 il Partito comunista italiano inizia una lenta ma costante marcia di avvicinamento all’area di governo. Tra il 1975 e il 1976 le elezioni regionali prima e quelle politiche poi segnano una significativa avanzata dei comunisti, che passano dal 27% al 34% circa. Ciò rappresenta il presupposto più evidente e concreto della crescente legittimazione democratica di quel partito, sebbene esso fosse ancora vittima della cosiddetta “conventio ad excludendum”, che per ragioni prevalentemente legate alla collocazione internazionale ne interdiceva la possibilità di essere considerato un affidabile partner di governo. Si impone perciò, con una rilevanza fino a quel momento inedita, il problema di come gestire tale avanzata elettorale e in prospettiva nuove legittime ambizioni rispetto all’ingresso nell’esecutivo. Sebbene quanto accaduto in Cile lasciava chiaramente presagire che un ingresso del PCI al governo potesse da un lato alimentare le preoccupazioni dell’amministrazione americana e delle cancellerie dei paesi europei membri del Patto atlantico, e dall’altro scatenare la reazione dei settori più conservatori del paese, così da mettere a rischio la stessa tenuta della ancora giovane democrazia nostrana. Non dobbiamo peraltro dimenticare come la politica italiana, già dalla strage di piazza Fontana del 1969, fosse gravemente condizionata da episodi di violenza terroristica, da un lato da parte dell’estremismo neo-fascista e dall’altro da parte dell’estremismo di sinistra, che nel corso del tempo avevano finito con alimentare una logica di opposti estremismi, oltre che una risposta eversiva da parte di alcuni settori dello stato, a cominciare dagli apparati deviati dei servizi segreti, nota con il nome di “strategia della tensione”.
In questo clima difficile e incandescente, è comprensibile che l’approdo al governo del PCI per via democratica, attraverso il consenso popolare, potesse presentarsi come un evento in grado di innescare diverse reazioni, in sede nazionale e internazionale, suscettibili di ripercussioni anche sulle istituzioni democratiche repubblicane. È in questo quadro politico che si afferma la strategia della “solidarietà nazionale”, annunciata dalla pubblicazione di tre successivi articoli di Enrico Berlinguer su “Rinascita” nell’autunno 1973 [“Rinascita”, n. 38 del 28 settembre 1973: “Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni – Necessaria una riflessione attenta sul quadro mondiale”; “Rinascita”, n. 39 del 5 ottobre 1973: “Via democratica e violenza reazionaria – Riflessione sull’Italia dopo i fatti del Cile”; “Rinascita”, n. 40 del 12 ottobre 1973: “Alleanze sociali e schieramenti politici – Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”; cfr. Berlinguer, 2014]. La cauta ma costante marcia di avvicinamento del Partito comunista italiano all’area governativa prende così la forma di un’alleanza privilegiata con la DC, nella prospettiva di una più ampia unità delle forze democratiche che lo stesso Berlinguer riprende come ispirazione dalla via italiana al socialismo di togliattiana memoria. In un intervento commemorativo di Togliatti del marzo 1973, ossia ben prima del golpe cileno, Berlinguer afferma infatti che la lezione unitaria togliattiana conserva intatta la sua validità, riprendendo la formula utilizza da Togliatti stesso, in occasione del X Congresso del PCI (1962): “La nostra politica di unità proletaria, di unità delle masse popolari comuniste, socialiste, cattoliche, di unità del movimento democratico, di unità nazionale, non era necessaria soltanto per far fronte a tentativi di rinascita fascista, per garantire semplicemente la difesa dall’attacco reazionario. Era necessaria e giustificata per rendere possibile la costruzione di un ordinamento democratico di tipo nuovo, ossia per compiere una radicale opera di rinnovamento della vita nazionale, della sua struttura economica e politica” (Berlinguer, 1975; p. 572). È peraltro il rapporto con la Democrazia cristiana che dovrebbe garantire gli interlocutori internazionali – a cominciare da Washington – circa le conseguenze non destabilizzanti dell’ingresso dei comunisti al governo. Quella opzione strategica avrà poi modo di concretizzarsi, fra il 1976 e il 1979, con il governo Andreotti Ter (1976-78) che vide l’astensione del PCI, e il governo Andreotti Quater (1978-79), con l’appoggio esterno dei comunisti.
Sul piano internazionale, la strategia del compromesso storico si inquadra nella più generale prospettiva dell’“Eurocomunismo”, che proprio nella metà degli anni Settanta aveva indotto i partiti comunisti italiano, spagnolo e francese a ricercare una specifica via continentale – alternativa a quella ortodossa sovietica – per approdare a un socialismo compatibile con istituzioni rappresentative della democrazia liberale, all’interno di un quadro di distensione legato a un nuovo ruolo internazionale dell’Europa. La piega ormai presa dalla guerra del Vietnam, che si concluderà nel 1975 con la caduta di Saigon e la sconfitta militare degli americani, stava lasciando intendere che il quadro internazionale potesse modificarsi in direzione di un deciso allentamento dell’ordine bipolare che vedeva protagonisti USA e URSS, che avrebbe potuto determinare le condizioni per un nuovo ruolo internazionale dei paesi europei, con evidenti ripercussioni anche rispetto ai rapporti fra i partiti comunisti dell’Europa occidentale e il PCUS. Ciò avrebbe permesso a quei partiti di riconoscersi in questo nuovo equilibrio internazionale meno polarizzato, senza mettere in discussione l’appartenenza alla sfera di influenza atlantica e al tempo stesso rimarcando una maggiore indipendenza nei confronti dell’Unione Sovietica. I protagonisti francesi (PCF) e spagnoli (PCE) dell’“Eurocomunismo” in quegli anni erano meno forti dei cugini socialisti dei rispettivi paesi (PS e PSOE), mentre in Italia i rapporti di forza fra comunisti e socialisti risultavano nettamente a favore dei primi. Ciò rendeva l’iniziativa del PCI più foriera di conseguenze a livello internazionale di quanto in realtà non lo fossero quelle dei comunisti francesi e spagnoli. Anche se l’autorevolezza dell’Unione Sovietica agli occhi dei partiti comunisti europei aveva subito le prime incrinature già alla fine degli anni Sessanta, quando l’intervento militare per porre termine alla Primavera di Praga aveva procurato la dura condanna di molti settori intellettuali e politici della sinistra occidentale, ripercuotendosi duramente anche nel dibattito interno ai partiti comunisti, che proprio a seguito dei fatti della Cecoslovacchia sperimentarono, come già era accaduto nel 1956 per l’Ungheria, divisioni e abbandoni.
Sul piano nazionale, invece, l’ingresso nell’area di governo del PCI a seguito di un rapporto di intesa con la DC equivale a una sorta di istituzionalizzazione di quel “consociativismo occulto” (nel confronto politico e parlamentare pubblico) ma “stabile” (nell’attività di policy making e rispetto a tutti i provvedimenti legislativi di maggiore rilievo) che fin dalla fase costituente aveva rappresentato la configurazione compiuta della nostra costituzione materiale. DC e PCI erano i due partiti a integrazione di massa che incarnavano le principali tradizioni politiche all’origine dell’esperienza repubblicana, di conseguenza il “compromesso storico” corrisponde al definitivo compimento di quella visione di democrazia progressiva incarnata dall’accordo fra comunisti e democristiani che già aveva avuto modo di delinearsi in sede costituente. Un’intesa che, grazie alle mutate condizioni storiche, può a questo punto rinnovarsi, passando dall’accordo sulle regole della convivenza democratica che aveva contraddistinto la fase costituente all’accordo sulla possibilità di rinnovamento della struttura economica e sociale del paese come orizzonte di riferimento nella gestione condivisa del governo. Tuttavia l’intesa con la DC non è considerata dai comunisti come il primo passo sulla strada di una compiuta democrazia dell’alternanza di stampo anglosassone, ma come la costruzione di un’alleanza fra le principali forze popolari del paese per la realizzazione di un regime di giustizia sociale più avanzata. In questo senso, il rapporto con la DC in una prospettiva di governo deve intendersi come la condizione di possibilità per progredire in direzione di quelle “riforme di struttura” che, nella visione dei comunisti, avrebbero comunque permesso di perseguire la lotta al capitalismo nell’ambito delle istituzioni democratiche. Di qui il carattere “storico” del compromesso, che avrebbe per l’appunto permesso di “istituzionalizzare” il legame consociativo che già caratterizzava i rapporti fra DC e PCI in un’accordo politico e di governo alla luce del sole, grazie al quale sarebbe stato riconosciuto anche maggiore spazio a quel cattolicesimo popolare e democratico di origini dossettiane da tempo in sintonia con i comunisti (Addario e Fasano, 2019). Ciò avrebbe inoltre favorito un allentamento delle forti tensioni sociali che in quel momento attraversavano la società italiana, alimentando nella logica degli opposti estremisti un terrorismo sia rosso che nero prossimo a radicalizzarsi in un conflitto potenzialmente eversivo per le istituzioni democratiche del paese (come avrebbe peraltro dimostrato il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978).
La strategia dell’ “Eurocomunismo” sul piano internazionale e quella del “compromesso storico” sul piano nazionale identificano perciò il vero e unico sbocco possibile per una forza politica, come il PCI, che vive la contraddizione di rappresentare una parte consistente del paese, essendo al tempo stesso anche il partito comunista più grande del mondo occidentale, senza però potersi proporre come alternativa legittima alla guida di un governo democratico. Un partito in cui si saldano la critica del sistema capitalistico e della democrazia liberale, che per ragioni di carattere ideologico il PCI avrebbe voluto superare, e la necessità di ritagliarsi un ruolo in grado di influenzare direttamente (e “allo scoperto”) l’indirizzo politico del paese interpretando i bisogni delle masse che rappresentava. All’interno di questa irriducibile contraddizione, nell’orizzonte del bipolarismo internazionale in cui si contrapponevano USA e URSS, la via del compromesso storico appare pertanto come l’approdo necessario, conseguente, inevitabile per conferire una funzione politica di rilievo a un partito comunista nel contesto di una liberal-democrazia occidentale, al di là dell’esercizio di una semplice funzione di opposizione in una logica di mera testimonianza. Ciò che peraltro consente al PCI di conservare quell’ambiguità di fondo ereditata dal “consociativismo occulto” per cui il rapporto con la DC in una prospettiva di governo può anche intendersi come condizione di possibilità per progredire in direzione di quelle “riforme di struttura” che, nella visione dei comunisti, avrebbero permesso di continuare a perseguire la lotta al capitalismo nell’ambito delle istituzioni democratiche.