di Tommaso Monacelli
I progressi nella lotta all’inflazione sono evidenti, ma non bastano. La Bce non ha alzato i tassi nell’ultima riunione. Ma fermarsi adesso, alla probabile vigilia di un nuovo incremento dei prezzi dell’energia, potrebbe rivelarsi la scommessa sbagliata.
I motivi della decisione
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha deciso di mantenere invariati i tre tassi di interesse chiave della politica monetaria. La decisione non è del tutto banale ed è il risultato di due forze contrastanti.
Da un lato, si ritiene che l’inflazione resterà troppo elevata per troppo tempo e che le pressioni sui prezzi interni siano comunque forti, soprattutto per una intensa dinamica salariale. Allo stesso tempo, si nota che l’inflazione è diminuita notevolmente a settembre, al 4,3 per cento rispetto al 5,3 di agosto. I passati aumenti dei tassi di interesse si riflettono oggi con decisione sulle condizioni finanziarie per imprese e famiglie, frenando sempre più la domanda e quindi contribuendo a spingere verso il basso l’inflazione.
La Bce si trova in mezzo al guado. I progressi nella lotta all’inflazione sono evidenti. Ma certamente non sono sufficienti. Il punto centrale è capire se avranno successo le due principali scommesse che la Banca centrale sta facendo.
La prima scommessa, oggi, è che l’incremento dei tassi di interesse cumulato nel passato (quindi il livello attuale dei tassi) sia in grado di esercitare una contrazione della domanda di beni e una restrizione della domanda del credito sufficienti a riportare l’inflazione definitivamente sotto controllo (cioè al target del 2 per cento).
Il concetto chiave da tenere a mente è che la politica monetaria produce effetti sull’inflazione con molto ritardo. La frenata dei prezzi a cui assistiamo oggi è quindi causata dagli incrementi dei tassi di interesse attuati ieri. La Bce decide quindi di fermarsi in mezzo al guado e osservare quanto la restrizione monetaria attuata finora sia sufficiente per riportare l’inflazione all’obiettivo del 2 per cento. Quantificare i ritardi nella trasmissione della politica monetaria sui prezzi è però molto difficile. Le stime di cui la letteratura scientifica dispone indicano che un dato aumento dei tassi di interesse produce i propri effetti sull’inflazione in un intervallo molto ampio, che va dai 9 ai 24 mesi: una indicazione molto incerta.
La scelta di farsi guidare dai dati
La seconda scommessa della Bce è di continuare a farsi guidare nelle proprie decisioni dai dati, in una modalità molto meccanica: osservare l’evoluzione della realtà riassunta dai numeri e poi agire, decisione dopo decisione. La presidente Christine Lagarde ha ribadito con forza che la Bce è “data dependent” e che questo non è il momento per una politica monetaria basata su “forward guidance”, cioè su una anticipazione oggi del piano decisionale che si attuerà in futuro.
Questa posizione sembra oramai essere il marchio distintivo della Bce di Lagarde. “Non è il tempo per la forward guidance, è il tempo della data dependence”: nella conferenza stampa di accompagnamento alla decisione di policy queste parole sono emerse quasi come un motto.
Per chi studia in modo scientifico la teoria della politica monetaria si tratta di una posizione non facile da giustificare. Molta della letteratura degli ultimi 15 anni sul tema ha infatti posto l’accento sulla rilevanza e sui vantaggi, ai fini di una migliore lotta all’inflazione, del prendere impegni sulle proprie mosse future, invece di lasciarsi guidare passo per passo dai dati guardando l’economia dallo specchietto retrovisore. Prendere oggi impegni sulle proprie azioni future permette una gestione ottimale delle aspettative di inflazione, un motore fondamentale dell’inflazione corrente. Secondo molta parte della letteratura, dunque, e in una grande varietà di casi, la “forward guidance” è superiore alla “data dependence”, e non il contrario, come ribadito con forza dalla Bce.
Nel quadro attuale non è per niente difficile prevedere che il deteriorarsi della situazione geopolitica in Medio Oriente causerà un incremento dei prezzi dell’energia, petrolio innanzitutto. Questo causerà uno shock inflattivo dal lato dell’offerta molto più rapido della capacità della politica monetaria di reagire. Quindi, considerando i due aspetti: (i) i ritardi lunghi e incerti con cui le decisioni di politica monetaria si trasmettono all’inflazione; e (ii) la necessità di orientare le aspettative di inflazione, non è per niente scontato che la decisione ottimale di oggi fosse quella di fermarsi. Soprattutto non è chiaro perché, ferma in mezzo al guado, la Bce non cerchi di far capire, con lo sguardo rivolto in avanti, in che direzione procederà da qui in poi. Il quadro a breve e medio termine sembra deteriorarsi. Un nuovo shock di offerta è in arrivo. Rimanere fermi in mezzo al guado è la ricetta migliore per una nuova fiammata inflazionistica tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024. Perché dunque non agire in anticipo?
Fonte: la Voce