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Artemisia Gentileschi, vita e opere della grande artista del Seicento

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Artemisia Gentileschi, grande pittrice del Seicento, figlia di Orazio Gentileschi, è una delle artiste più apprezzate dal pubblico: ecco la sua vita, il suo stile, le opere principali.

Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, dopo il 1653), figlia del pittore di origini toscane Orazio Gentileschi (Pisa, 1563 – Londra, 1639), a sua volta famoso pittore amico di Caravaggio, fu una grande artista in grado di rivelare il proprio talento e di riuscire a imporsi in una società tendenzialmente chiusa, in cui le donne non avevano molte possibilità di emergere. Nota è triste vicenda della violenza subita, che secondo alcune letture, in particolare quelle di stampo femminista, si sarebbe riversata nella sua arte, divenuta molto brutale proprio a causa dei suoi trascorsi.

Artemisia si mosse in ambito caravaggesco ma propose un’arte molto originale, con capolavori di grande realismo e spesso anche di spiccata sensualità.

Artemisia era primogenita nonché unica figlia femmina di Orazio Gentileschi, e si dimostrò fin da piccola dotata di grandissimo talento, e il padre cercò d’incoraggiare questo talento precoce insegnandole tutti i rudimenti del mestiere: tuttavia, anche se Orazio fece di tutto per far sì che il talento di Artemisia si esprimesse nel migliore dei modi, il rapporto tra i due fu segnato da alti e bassi, fu tutt’altro che facile e idilliaco (anzi: lo si potrebbe definire come un rapporto conflittuale, data l’intraprendenza e l’orgoglio della ragazza che necessariamente finirono per dar luogo a scontri col padre: nondimeno, inevitabile era il legame che univa i due, anche e soprattutto sul piano artistico, tanto che a volte per gli storici dell’arte è difficile stabilire a chi appartenga un dipinto, poiché in certi momenti la loro maniera è del tutto simile.

L’episodio più noto della vita di Artemisia Gentileschi è quello della violenza subita all’età di diciotto anni non ancora compiuti per mano di Agostino Tassi (Ponzano Romano, 1580 – Roma, 1644), pittore di buon livello, amico di Orazio Gentileschi e suo collaboratore: allo stupro seguì un processo, e gli atti del processo ci sono arrivati nella loro interezza, condizione che ci ha consentito non soltanto di capire andò la vicenda, ma, attraverso le testimonianze e gli interrogatori, è possibile anche ricavare molti particolari sulla vita degli artisti coinvolti (per esempio grazie ad alcuni testimoni è stato possibile ricostruire in modo più dettagliato il rapporto tra Orazio e Artemisia Gentileschi). Agostino Tassi era un pittore di indiscusso talento ma dalla condotta non proprio esemplare e con alcuni precedenti penali. L’artista si era invaghito della figlia dell’amico, e secondo quanto racconta la stessa Artemisia, il giorno 9 maggio 1611 la ragazza subì una violenza sessuale da parte del pittore (peraltro durante il processo Artemisia racconta la violenza con grande crudezza e grande dovizia di particolari). Lo stupro all’epoca era un reato, e nel caso specifico era tanto più grave per il fatto che Artemisia era stata deflorata durante la violenza, ma purtroppo, secondo la mentalità dell’epoca, lo stupro era anche considerato infamante per la donna che lo subiva: tuttavia, il disonore poteva essere in parte riparato con un matrimonio. Così, inizialmente Agostino Tassi promise ad Artemisia di sposarla (anche se c’è chi ipotizza che la promessa avesse lo scopo di evitare la condanna). Artemisia credette quindi alle promesse di Agostino e tra i due nacque una relazione che durò alcuni mesi, fino a quando si scoprì che in realtà Agostino Tassi era già sposato. Tassi fu dunque denunciato da Orazio Gentileschi, e il processo durò da marzo a novembre 1612 (Artemisia dovette subire anche torture perché, purtroppo, la giustizia del tempo riteneva che durante la tortura gli interrogati dicessero la verità), e la vicenda si concluse con una condanna nei confronti di Agostino Tassi, costretto a scegliere tra cinque anni di lavori forzati sulle galere pontificie ed esilio da Roma. Il pittore scelse l’esilio, anche se poi, qualche anno più tardi, riuscì a tornare a Roma perché era un pittore noto e godeva dell’appoggio dei potenti. In seguito al processo Orazio Gentileschi organizzò per la figlia un matrimonio con un giovane pittore fiorentino di scarso livello, Pierantonio Stiattesi, di nove anni più anziano rispetto ad Artemisia, con il quale la giovane si trasferì a Firenze chiudendo la parentesi più dolorosa della sua vita. Simon Vouet, Ritratto di Artemisia Gentileschi (1623 circa; olio su tela, 90 x 71 cm; Pisa, Palazzo Blu)

 

Vita di Artemisia Gentileschi

Artemisia Gentileschi asce a Roma l’8 luglio dal grande pittore Orazio Gentileschi e da Prudenzia Montoni. Attorno al 1606 inizia il suo apprendistato artistico nella bottega del padre. All’incirca nel 1610 esegue la sua prima opera nota, Susanna e i vecchioni, attualmente conservata a Pommersfelden in Germania. La tela, pur essendo firmata e datata, è oggetto di discussioni in quanto la ragazza potrebbe essere stata aiutata in maniera decisiva da Orazio. Nel 1611 Artemisia subisce violenza per mano del pittore Agostino Tassi, collega del padre. L’anno seguente si apre il processo contro Agostino Tassi, che sul finire dell’anno sarà condannato a passare cinque anni nelle galere pontificie o in alternativa all’esilio perpetuo da Roma. Tassi sceglie l’esilio ma qualche anno dopo riuscirà a rientrare a Roma. Nel mese di novembre, Artemisia sposa Pierantonio Stiattesi, artista fiorentino di modesta entità. Nel 1614, la giovane si trasferisce a Firenze dove gode della protezione del granduca Cosimo II de’ Medici e della moglie di questi, Cristina di Lorena. Intorno al 1615 esegue l’Allegoria dell’Inclinazione di Casa Buonarroti per l’amico Michelangelo Buonarroti il Giovane, e la Conversione della Maddalena di Palazzo Pitti. Nel 1616 viene ammessa all’Accademia del Disegno di Firenze, dove rimane iscritta fino al 1620, anno in cui lascia Firenze e torna a Roma.

Nel 1622 esegue il Ritratto di gonfaloniere conservato a Bologna, a Palazzo d’Accursio. Nel 1627 si trasferisce a Venezia e nel 1630 si registra un suo nuovo trasferimento, questa volta a Napoli, dove nello stesso anno esegue l’Annunciazione oggi conservata presso il Museo Nazionale di Capodimonte. Diventa una delle personalità artistiche più importanti della città partenopea benché esprima più volte il desiderio di tornare a Roma. All’incirca nello stesso anno esegue il famoso Autoritratto in veste di pittura.

Nel 1635 esegue alcune opere per la cattedrale di Pozzuoli e l’anno seguente, nel 1636, si trasferisce a Londra raggiungendo il padre Orazio che era stato chiamato in Inghilterra da re Carlo I su suggerimento del duca di Buckingham. Assieme al padre lavora al Trionfo della Pace e delle Arti per la Queen’s House di Greenwich (oggi è conservato a Londra presso la Marlborough House). Nel 1639 Orazio muore a Londra e Artemisia, che gli era stata vicino nei suoi ultimi giorni, fa ritorno a Napoli: non si muove più dalla città campana per il resto dei suoi giorni. Tuttavia, sugli ultimi anni della sua attività si sa molto poco. Nel 1649 esegue alcune opere per Antonio Ruffo, collezionista d’arte siciliano tra i suoi migliori committenti durante il soggiorno napoletano. Dopo il 1653 l’artista scompare a Napoli, ma non conosciamo la data esatta della morte.

Lo stile e le opere principali di Artemisia Gentileschi

Le opere più famose di Artemisia Gentileschi sono quelle che la ragazza dipinse nella prima parte della sua carriera. La prima opera a lei riferibile, Susanna e i Vecchioni, è particolarmente controversa perché non sappiamo con esattezza quando fu realizzata (c’è chi dice che sia un’opera del 1610 e chi invece la considera un’opera posteriore, c’è chi la attribuisce alla sola Artemisia e chi invece la considera frutto di una collaborazione tra padre e figlia). È difficile fare luce completa su questo dipinto, benché presenti un’iscrizione che porta la firma di Artemisia Gentileschi e la data 1610: c’è chi sostiene che questo sia stato un espediente utilizzato dal padre, che avrebbe antidatato il dipinto per far vedere quanto la figlia fosse brava già in giovane età. Da quest’opera risulta evidente la misura in cui la giovane risente della lezione del padre, ma già fin dai primi anni tenta comunque di affrancarsi da Orazio, proponendo una personale lettura del fatto biblico, in particolare accentuando l’aspetto doloroso della storia, con Susanna che si dispera e si ritrae inorridita (si osservi il realismo della sua espressione). Un’opera giovanile ma molto interessante, perché riesce a coinvolgere emotivamente e riesce a comunicare tutto il senso di disgusto e allo stesso tempo tutta la preoccupazione e tutto lo sdegno della protagonista. Se questa è una rappresentazione di una vicenda triste, di una violazione, la Giuditta che decapita Oloferne è stata interpretata dalla critica femminista come la vendetta della giovane nei confronti di colui che l’ha violata. Di questa opera esistono due versioni, una realizzata intorno al 1612 e conservata al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, e l’altra, analoga ma con i personaggi abbigliati in modo più sontuoso, conservata a Firenze agli Uffizi (la lversione fiorentina le fu commissionata da Cosimo II de’ Medici quando la giovane si trasferì a Firenze e nei vestiti infatti riflette il gusto fiorentino dell’epoca). Se la Susanna era un’opera già molto forte, questa lo è ancora di più: è un’opera brutale, che dimostra una incredibile carica di violenza, con una Giuditta che si accanisce sul rivale per tagliargli la testa. Si noti il sangue che sgorga abbondante sul materasso, e nella versione fiorentina si possono vedere anche gli schizzi del sangue dalla ferita, e si noti anche il dettaglio dell’ancella, che secondo il racconto biblico non partecipò all’uccisione, e qui invece, per la prima volta, è raffigurata mentre aiuta Giuditta a tenere Oloferne fermo e immobile; infine, altro particolare che colpisce in maniera molto forte l’osservatore è l’espressione di Oloferne. È un dipinto di chiaro influsso caravaggesco (riprende l’omologo dipinto di Caravaggio conservato oggi a Roma, tanto che è ipotizzabile che Artemisia abbia conosciuto l’opera di Caravaggio: tuttavia, rispetto al dipinto di quest’ultimo quello di Artemisia è molto più violento.

Lo stile di Artemisia cambierà radicalmente nel corso della carriera: nel periodo fiorentino si fa molto più elegante e meno violento, per arrivare poi agli anni di Venezia, quando la maniera di Artemisia si avvicina a quella dei grandi maestri che operarono in laguna, come il Tintoretto e il Veronese. Particolarmente esemplificativo è il dipinto Ester e Assuero: un dipinto che ben coniuga la formazione di ambito caravaggesco della pittrice con la teatralità e la sontuosità delle rappresentazioni veneziane che avevano per tema vicende tratte dalla Bibbia. E questo è forse uno dei dipinti più fastosi di Artemisia Gentileschi, basti osservare le ricche vesti dei personaggi, l’abito dorato di Ester, la sua corona, le fini decorazioni delle maniche bianche, la fascia blu, la veste di Assuero (una veste seicentesca con le maniche a sbuffo bianche e verdi), il cappello con la piuma, i bellissimi stivali, il trono decorato.

Nella produzione di Artemisia abbondano anche gli autoritratti, come il ritratto in veste di pittura, un capolavoro che risale al 1630 circa ed è conservato a Londra, a Kensington Palace. È un dipinto molto originale, perché Artemisia si ritrae di tre quarti mentre sta lavorando: in genere i pittori si ritraevano frontalmente o di profilo, e soprattutto si ritraevano in posa, e lei decide invece di rompere con la tradizione, dipingendosi con i suoi strumenti di lavoro tra le mani, i pennelli e la tavolozza, mentre sta eseguendo un dipinto. Per rappresentarsi in questa posa aveva dovuto ricorrere a un gioco di specchi e il risultato di questa raffigurazione colpisce l’osservatore, che non si aspetterebbe un autoritratto in questi termini, molto realistico, con l’artista che ha le maniche rimboccate fino al gomito. Nell’autoritratto, Artemisia, in quanto allegoria della Pittura, reca al collo una catena d’oro con un ciondolo a forma di maschera: per comprendere il perché di alcuni attributi dobbiamo far riferimento all’Iconologia di Cesare Ripa, trattato in cui vengono descritti gli attributi che i poeti i pittori e gli scultori dovevano utilizzare per rappresentare tutti i concetti astratti (come le virtù e i vizi), e tra questi concetti figurava anche quello della pittura che, secondo Cesare Ripa, doveva essere rappresentata come una donna bella, dai capelli neri, con una catena d’oro dalla quale pendesse un ciondolo a forma di maschera, con il pennello in una mano e la tavolozza in un’altra, nonché la veste cangiante. La maschera, come spiega lo stesso Cesare Ripa, è simbolo di imitazione, e l’imitazione è “congiunta con la pittura inseparabilmente”, come scriveva Ripa. Su Artemisia ti suggeriamo anche di leggere la recensione della mostra tenutasi a Roma, a Palazzo Braschi, tra il 2016 e il 2017.

 

Dove vedere le opere di Artemisia Gentileschi

Il catalogo di Artemisia non è molto ampio: sono pochi i suoi dipinti noti. Opere di Artemisia Gentileschi si trovano nei principali musei italiani. Gli Uffizi conservano la seconda versione della Giuditta che decapita Oloferne, mentre, sempre a Firenze, Palazzo Pitti ospita due importanti opere del periodo fiorentino, ovvero la Conversione della Maddalena e la Giuditta con l’ancella, e Casa Buonarroti conserva l’Allegoria dell’inclinazione, eseguita per il luogo che ancor oggi la ospita. A Pisa, nella raccolta di Palazzo Blu,si può ammirare Clio, raffigurazione della musa della storia, mentre le collezioni di Palazzo d’Accursio a Bologna ospitano lo splendido Ritratto di gonfaloniere. A Roma sue opere si trovano alla Galleria Spada (la Santa Cecilia e la giovanile Madonna col Bambino), mentre per conoscere l’Artemisia del periodo napoletano è d’obbligo vedere i dipinti eseguiti per la Cattedrale di Pozzuoli tra il 1636 e il 1637 (il San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, i Santi Procolo e Nicea, l’Adorazione dei Magi).

All’estero, la collezione Graf von Schönborn di Pommersfelden conserva la prima opera riferibile ad Artemisia Gentileschi, ovvero Susanna e i vecchioni: Altre sue opere si trovano al Museo di Belle Arti di Budapest (Giaele e Sisara del 1620), al Detroit Institute of Arts (Giuditta con l’ancella del 1625-1627), al Metropolitan di New York (Ester e Assuero del 1628-1635 circa), al Prado di Madrid (la Nascita del Battista del 1633-1635 circa), al Kensington Palace di Lonra (Autoritratto in veste di pittura, 1638-1639) e, sempre a Londra, a Marlborough House (Allegoria della pace e delle arti sotto la corona inglese, 1638-1639, opera realizzata assieme a Orazio Gentileschi). Di recente sono comparse sul mercato tre opere di Artemisia, acquistate da altrettanti musei stranieri: un Autoritratto come santa Caterina d’Alessandria entrato a far parte delle raccolte della National Gallery di Londra, una Lucrezia, comprata nel 2021 dal Getty Museum di Los Angeles, e una Santa Caterina d’Alessandria che è stata invece acquisita dal Nationalmuseum di Stoccolma.

 

Fonte: finestresullarte.info/