La più famosa tra le pittrici del seicento fu vittima di uno stupro, denunciò l’aggressore e impose nelle principali corti europee le sue doti di artista, attività allora appannaggio degli uomini
Di Alessandra Pagano
«Ritroverà l’animo di Cesare nell’anima di una donna!», assicurava a uno dei suoi committenti in una lettera del 1649 Artemisia Gentileschi. Prima di quattro fratelli, era nata a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio Gentileschi e da Prudenzia Montone. Il padre era un pittore di origine pisana che si era trasferito a Roma circa venti anni prima. Della madre, invece, non sappiamo nulla se non che morì nel 1605 all’età di trent’anni.
Da quel momento Artemisia dovette occuparsi della casa e dei fratelli minori perché il padre non si risposò più. Nella bottega paterna, che era annessa alla casa famigliare, Artemisia scoprì fin dall’infanzia la sua vocazione per l’arte. In un primo momento Orazio aveva insistito affinché la figlia prendesse i voti, ma alla fine aveva accettato il sogno di Artemisia di diventare una “pittora”, come lei stessa si definiva. A quel tempo, però, per una donna era impensabile seguire un percorso di formazione presso la bottega di qualche maestro, senza contare che il genitore consentiva alla figlia di uscire al massimo per andare in chiesa.
La sua formazione pertanto avvenne nello studio paterno. Artemisia, infatti, trascorreva quasi tutto il tempo in casa, dove le era consentito esercitarsi nel dipingere, spesso sotto lo sguardo della dirimpettaia Tuzia, che aveva il compito di sorvegliarla quando il padre o i fratelli non c’erano. Per fortuna, la casa era frequentata assiduamente da altri pittori, amici e colleghi del padre. Tra questi vi era Pietro Rinaldi, che le fece da padrino al battesimo. All’inizio del 1611 Orazio fu incaricato di affrescare una loggetta del palazzo del cardinale Scipione Borghese a Monte Cavallo. Il mecenate gli affiancò il trentenne Agostino Tassi detto “lo Smargiasso”, che dopo alcuni soggiorni in Liguria e in Toscana, dove forse era stato anche in galera, si era da poco trasferito a Roma. Tra i due nacque subito un’amicizia, per cui Orazio, che era quasi sempre fuori casa e non poteva più seguire lo studio della figlia, chiese al collega di tenere delle lezioni di prospettiva ad Artemisia, ormai diciottenne. Agostino iniziò dunque a frequentare i Gentileschi finendo per infatuarsi della ragazza.
La violenza di Agostino Tassi
Un giorno, l’uomo allontanò Tuzia da casa e, come gli stessi atti del processo confermano, violentò Artemisia. Successivamente, per quietarla, le prospettò il matrimonio riparatore. Per quasi un anno la ragazza aspettò le nozze acconsentendo ad avere rapporti con lui.
Arrivati però a marzo del 1612, improvvisamente Orazio denunciò Tassi alle autorità. Probabilmente i Gentileschi avevano compreso che il matrimonio non sarebbe mai avvenuto, o forse avevano scoperto che Tassi in passato era stato arrestato più volte per vari crimini (era stato addirittura accusato di aver ucciso la prima moglie e di aver avuto una relazione con la cognata). Iniziò quindi il processo.
All’epoca la violenza sessuale non era considerata un reato contro la donna, ma contro l’onore familiare (l’ordinamento rimase tale fino al 1996). Inoltre per avere giustizia la vittima era tenuta a dimostrare di aver sempre avuto una condotta casta e integerrima. Per tutta la durata del processo Artemisia ribadì sia la violenza sia l’inganno della promessa nuziale, mentre Agostino l’accusò di essere una donna di malaffare e assicurò di non aver mai avuto rapporti con lei. Ad aggravare le cose ci si misero anche altri testimoni, che affermarono che la pittrice si intratteneva con altri uomini ed era «fin troppo libera».
Ad esempio, ci fu chi affermò che era solita affacciarsi alle finestre di casa, cosa non consona a una donna “perbene”. Artemisia, che già veniva guardata con diffidenza perché si occupava di pittura, da quel momento venne considerata una donna licenziosa e piena di amanti. Come se non bastasse, per verificare che la sua deposizione fosse attendibile, fu costretta a sottoporsi a visite ginecologiche da parte di due levatrici, nonché, come era previsto, alla tortura dei cosiddetti “sibilli”. Questa tecnica consisteva nel porre delle cordicelle tra le dita delle mani congiunte e nell’azionare successivamente un bastone che, girando, stringeva le falangi fino a stritolarle. Ovviamente si trattava di una pratica non solo dolorosa, ma pericolosissima soprattutto per un artista, dato che si rischiava di compromettere la funzionalità delle dita. Mentre veniva torturata, si rivolse allo Smargiasso gridando: «Questo è l’anello che tu mi dai, e queste sono le promesse!».
Il processo terminò nel mese di settembre: Tassi venne ritenuto colpevole. La sentenza prevedeva cinque anni di lavori forzati o l’esilio. Tassi scelse quest’ultimo, anche se, forse grazie ad amicizie influenti, riuscì a rientrare a Roma dopo qualche tempo, riallacciando addirittura i rapporti con Orazio. Il 29 novembre 1612, circa un mese dopo la fine del processo, Artemisia sposò il fiorentino Pierantonio Stiattesi, un pittore mediocre con cui ebbe quattro figli. Furono nozze volute dal padre e celebrate per mettere a tacere lo scandalo. Artemisia ne approfittò per lasciare Roma e affrontare in modo indipendente il resto della vita.
Una nuova vita
La coppia si trasferì a Firenze preceduta da una lettera di Orazio indirizzata alla granduchessa di Toscana Cristina Lorena nel tentativo di introdurre la figlia presso la corte medicea. Orazio non esitò a elogiare Artemisia: «Mi ritrovo una figlia femmina con altri tre maschi e questa femmina, avendola drizzata nella professione di pittura, in tre anni si è talmente appraticata che posso dire che oggi non ci sia pari a lei». Più che la lettera del padre, però, è probabile che le fosse d’aiuto l’influenza dello zio, fratellastro del padre, Aurelio Lomi, pittore molto apprezzato alla corte di Firenze. A ogni modo, in poco tempo Artemisia riuscì a entrare nella cerchia del granduca Cosimo II. Questi anni furono fondamentali per il suo futuro: imparò a scrivere (fino ad allora sapeva solo leggere) e iniziò a frequentare nobili e intellettuali come Galileo Galilei, con cui intrattenne una corrispondenza epistolare, e Michelangelo il Giovane, bisnipote del Buonarroti, che il 24 agosto 1615 le commissionò l’Allegoria dell’inclinazione per la volta della casa di famiglia. Artemisia dipinse un nudo di donna così realistico (secondo alcuni si tratterebbe di un autoritratto) che più tardi l’uomo fu costretto a farlo coprire con dei panneggi.
Giaele e Siera. Il dipinto ritrae il momento in cui Giaele sta per uccidere con un picchetto da tenda il generale cananeo sconfitto dal popolo d’Israele. 1620. Szépművészeti Múzeum, Budapest
Foto: Scala, Firenze
Nel giro di pochissimo tempo la sua fama crebbe a dismisura, tanto che in una lettera del segretario di Cosimo II viene definita «un’artista ormai molto conosciuta a Firenze». Il 19 luglio 1616 fu la prima donna a essere ammessa nell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze fondata da Giorgio Vasari nel 1563. Vi rimase iscritta fino al 1620, quando chiese al granduca il permesso di trascorrere del tempo a Roma per sistemare alcune questioni familiari. Il marito Pierantonio guardava di buon occhio l’ascesa di Artemisia che, in pratica, provvedeva al sostentamento della famiglia nonché a saldare i numerosi debiti da lui contratti.
Il vero amore di Artemisia però non fu di certo il marito, bensì il nobile fiorentino Francesco Maria Maringhi. La forte passione tra i due è testimoniata da un ricco carteggio rinvenuto qualche anno fa. In esso, curiosamente compaiono anche diverse lettere dello Stiattesi a Maringhi in cui lo informa di vari fatti di vita quotidiana al posto della moglie, dimostrando di accettare la relazione tra i due. Non si sa per quale ragione il marito non solo non seguì Artemisia quando questa rientrò a Roma, ma a un certo punto addirittura scomparve dalla sua vita. Il rapporto con Maringhi, invece, seppur tra alti e bassi (pare che nel frattempo ebbe anche relazione con il musicista inglese Nicholas Lanier), l’accompagnò per molti anni. A Roma le chiacchiere sul suo conto sembravano apparentemente dimenticate. I salotti si contendevano la sua presenza e fu anche invitata a far parte dell’Accademia dei Desiosi, prestigiosa istituzione che raccoglieva i più importati intellettuali romani. Qualche tempo dopo Orazio si trasferì in Inghilterra, mentre la figlia intraprese un viaggio nel nord Italia. Poi, intorno al 1630, decise di andare a Napoli, che agli inizi del XVII secolo era una delle città più grandi di Europa, meta di mercanti e pittori in cerca di committenze. Qui ricevette nuovi importanti incarichi, tra cui quelli di Filippo IV di Spagna.
Nel 1637 Carlo I di Inghilterra la invitò presso la sua corte. Giuntavi l’anno dopo, si ricongiunse con il padre, che stava lavorando alla decorazione del soffitto della Queen’s House a Greenwich. I due probabilmente ripresero a collaborare fino alla morte dell’uomo, avvenuta nel 1639. Negli anni londinesi Artemisia dipinse una delle sue opere più famose, l’Autoritratto in veste di Pittura.
Tornata a Napoli, vi rimase fino alla morte, avvenuta tra il 1652 e il 1653. Dopo aver dato in sposa una delle figlie iniziò a trovarsi in difficoltà economiche e accettò di lavorare per don Antonio Ruffo, un collezionista di Messina che le aveva commissionato alcune opere. I problemi economici, però, non diminuirono e a volte fu anche costretta a svendere le sue opere.
Trascorse gli ultimi anni senza tentare nuove sperimentazioni artistiche e assillata dalla necessità di fronte alle spese. Artemisia non si liberò mai del tutto della fama di donna licenziosa. L’opinione pubblica non le aveva mai perdonato il suo essere libera ed emancipata. Alla sua morte, per esempio, due contemporanei – Giovan Francesco Loredano e Pietro Michele – le dedicarono epitaffi oltraggiosi. Uno di questi recitava: «Col dipinger la faccia a questo, e a quello / nel mondo m’acquistai merto infinito / nell’intagliar le corna a mio marito / lasciai il pennello e presi lo scalpello». Dopo la sua morte, la sua figura venne rapidamente dimenticata. Il Baglione, per esempio, in Le vite de’ pittori, scultori et architetti (1642) ne fece solo un breve cenno in calce alla biografia del padre, mentre altri biografi successivi neppure la nominarono. La riscoperta della sua figura sarebbe arrivata solo nel 1916, grazie allo storico dell’arte Roberto Longhi, che inquadrò il suo personaggio nell’ambito del caravaggismo. Successivamente, però, le sue vicende private hanno spesso rischiato di prevalere sulla conoscenza dell’attività di pittrice, la cui qualità può essere paragonata a quella di Caravaggio.
Fonte: storicang.it/