Non è la Chiesa Cattolica l’unica comunità cristiana in cui qualcuno va sussurrando una parola d’altri tempi: scisma. Se Papa Francesco deve misurarsi con alcuni fedeli americani quantomai riottosi e bellicosi, mossi da singulti indipendentisti, anche la Chiesa Ortodossa vive in questi mesi giornate difficili quali non se ne conoscevano da tempo. Meglio: da secoli. E rischia una lacerante spaccatura che la riporterebbe, ad essere generosi, all’anno di grazia 1686. Tempi in cui Mosca stentava ad essere riconosciuta come la Terza Roma, il suo impero era ancora tutto da fondare o quasi e la sua chiesa era sì autocefala, ma piccola e di scarso peso in mezzo all’altra dozzina di sorelle che compongono il cerchio angelico delle comunità orientali.
Complice il grande gioco tra le nazioni, la questione della Crimea e magari qualche gelosia mai risolta con il tempo, Mosca rischia oggi di perdere di nuovo il suo pezzo più forte: la chiesa dell’Ucraina, dove sempre più forti si fanno le pulsioni ad uscire da uno stato di minorità che risale, per l’appunto, al tardo XVII secolo.
Una prospettiva che nessun russo sarebbe disposto ad accettare.
Il fatto è che l’annessione della Crimea da parte di Putin, legittima o meno che sia stata, e l’occupazione di parte dell’Ucraina orientale, sono ferite che bruciano nelle menti e nei cuori dei timorati credenti ucraini, che da qualche anno si chiedono se Dio debba per forza stare dalla parte dei russi. O almeno come mai i russi debbano pretendere di guidare anche le cose spirituali, oltre alle terrene. È vero: loro stessi per la maggior parte sono membri della Chiesa Ortodossa che aderisce al Patriarcato di Mosca, mentre il gregge del Patriarcato di Kiev è ben meno numeroso. Ma da quando, per l’appunto, è scoppiata la crisi della Crimea in molti hanno preso ad identificare il primo con il Cremlino, anche per il fatto che il patriarca Cirillo II è ben amico personale di Vladimir Putin.
Così, quando ha giudicato che i tempi fossero maturi, il presidente ucraino Petro Poroshenko si è rivolto al titolare del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, perché benedicesse la nascita di una chiesa ortodossa nazionale ucraina. Bartolomeo II, sia detto per inciso, non è una comparsa da quattro soldi, in ogni questione che attiene le Chiese d’Oriente. La sua figura non è paragonabile, per poteri, a quella del Vescovo di Roma per i cattolici, ma la sua autorevolezza di primus inter pares in Oriente è grande. Risale ai tempi in cui Costantino, cesaropapista della prima ora ed abituato a presiedere lui di persona i concili ecumenici, fondò la sua capitale sulle strade di Bisanzio, facendone la Seconda Roma. Oggi il suo seguito di fedeli non è grande cosa, e Roma si è trasferita a Mosca dopo la conquista maomettana di Costantinopoli, ma la sua centralità è fuori discussione.
O meglio, lo è finché rispetta il ruolo della chiesa di Mosca. Quando Bartolomeo e Poroshenko si sono incontrati, infatti, Cirillo II ha fatto subito sapere che uno che gli è pari non ha diritto di andarsi ad immischiare nei suoi affari, per non dire pensare di poter togliergli dalle competenze territoriali uno dei paesi più grandi e popolosi d’Europa. Bartolomeo ha risposto mandando in Ucraina due vescovi delle chiese ortodosse americane che appartengono alla comunione di Costantinopoli.
La rabbia di Cirillo è divenuta allora evidente. Ha dato disposizione di smettere di pregare per Bartolomeo nelle funzioni religiose, ha fatto sapere che i vescovi e i sacerdoti sotto la sua autorità non celebreranno più l’Eucarestia con i loro confratelli che obbediscono alla comunione con Costantinopoli, ha minacciato esplicitamente la rottura della comunione con quest’ultima. In questo modo i fedeli di un patriarcato non potranno nemmeno ricevere i sacramenti dai pope dell’altro. E chi, tra i 12 patriarcati ortodossi rimanenti, sceglierà per l’uno non potrà sperare nella comprensione dell’altro.
In altre parole: divisione più che profonda, persino traumatica e senza precedenti. Come se non bastasse, Cirillo è andato alla televisione russa a rinfacciare a Costantinopoli ed al suo patriarca secoli (sì: secoli) di tradimenti e infingardaggini, a partire da quella perpetrata nel 1920 quando un predecessore di Bartolomeo attraverso alcuni suoi pope flirtavano nientemeno che con i bolscevichi senza Dio. Mentre a Mosca i veri fedeli subivano le persecuzioni.
La risposta di Bartolomeo si è limitata a ricordare che non molto tempo fa, nel 1991, quando l’Ucraina otteneva un’indipendenza dalla Russia sospirata per centinaia di anni, praticamente tutti i vescovi ortodossi del paese erano d’accordo con la separazione dai russi. Quanto ai secoli, nel 1686 è vero che il patriarca di Costantinopoli dava il suo assenso al passaggio dell’Ucraina sotto l’autorità di Mosca, ma le condizioni che vennero poste allora non furono mai rispettate.
Controrisposta da Mosca: ormai è cosa fatta, non vale più recriminare.
E allora non c’è da stupirsi se, l’11 settembre, a Kiev sia sbarcato un tal Sam Brownback, incaricato speciale dell’amministrazione Trump per la diffusione della libertà religiosa. Brownback ha avuto cura di vedersi con Poroshenko, che non si è fatto sfuggire l’occasione per elencare una giaculatoria di lamentele su come, in Crimea e nei territori occupati da Putin, gli ortodossi di tutte le comunità meno che quella aderente al Patriarcato di Mosca siano soggetti a persecuzioni.
Mentre Poroshenko parlava, Brownback annuiva e assentiva.
Forse non si tratta di secoli, e nemmeno di privilegi lontani nel tempo: la chiave della principale crisi tra le chiese ortodosse è da cercare oltreoceano. Proprio come per i cattolici di Papa Francesco.
Vedi: Aria di scisma nella Chiesa Ortodossa, gli ucraini vogliono l’indipendenza da Mosca
Fonte: estero agi –