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Tra le donne, dall’apparente vivere quotidiano comune, che hanno contribuito a costruire la Storia di un territorio, troviamo Anna Antonacci, di adozione salentina, che coltivando progetti di speranza ha intrecciato la sua storia a quella della provincia di Terra d’Otranto.

Il nome della signorina Antonacci si lega alla fondazione dell’Istituto, sorto come piccolo nido per i bimbi ciechi nella città di Lecce, nella sede di palazzo Giaconìa, dal nome del prelato leccese Angelo Giaconìa, vescovo di Castro e vicario dell’Arcidiocesi di Otranto. Nel XVI secolo questi decise di realizzare la dimora nei pressi della chiesa di S. Maria degli Angeli e del convento dei padri minimi di S. Francesco di Paola, in piazza dei Peruzzi. Le fonti storiche relative alla signorile costruzione registrano l’avvicendarsi di numerosi proprietari esponenti della classe nobiliare salentina. Con Anna Antonacci, donna dalla forte ed attraente personalità, la sontuosa, frazionata dimora acquisita l’unità architettonica, diviene la sede dell’Istituto dei ciechi.

A raccontare di Anna e del suo determinato ‘fare’ concorre la biografia scritta dalla sorella minore Pia, vedova Martuscelli a cui fa da corollario la pubblicistica coeva. Nata a Tricarico ( Matera) il 26 novembre 1879, eredita saggezza e determinazione dai suoi genitori, il padre avvocato Saverio Antonacci e la madre Maria Rubino. All’età di sette anni, in terza classe elementare, contrae una grave infezione che le provoca la perdita visiva. Nonostante sia ancora una bambina, viene educata allo spirito di sacrificio e di rinunce dallo stesso padre.

Per sottrarsi all’angoscia e allo sconforto materno, Anna all’età di dodici anni ottiene di entrare nell’Istituto ‘Principe di Napoli’, fondato nel 1873 da Domenico Martuscelli, insegnante di scrittura ai ciechi. La ragazza si distingue per l’impegno e l’applicazione allo studio conseguendo, per quel tempo, risultati straordinari e, tra quelle mura, matura l’idea di fondare un istituto per il ricovero e l’istruzione di giovani ciechi. Appena ventenne, rientrata in famiglia coltiva il suo sogno di continuare l’opera di Domenico Martuscelli; dedica la sua vita al servizio dei fratelli “nell’ombra”, elevandoli alla dignità di cittadini della Patria, concetto a lei molto caro. Nell’autunno del 1905, in occasione di una visita a Lecce, individua la città come il luogo ove poter dare corpo al suo sogno. In Europa, frattanto, erano nate altre Fondazioni, in particolare nel 1906 a Berlino sorge la prima istituzione completamente a carico dello Stato.

Il 19 febbraio 1906, la granitica ventiseienne istituisce nella terra salentina un piccolo ricovero per bimbi ciechi; le prime alunne sono due bambine orfane. Il 2 luglio dello stesso anno costituisce la sezione maschile con tre alunni, sostenuta economicamente dalla famiglia, i cui componenti si impegnano anche nella gestione quotidiana dell’opera. Anna Antonacci si racconta con il suo stile di vita, proteso verso una nuova forma di emancipazione e di riscatto sociale, ove il grave handicap non può e non deve impedire la realizzazione del progetto, tenuto conto che la stessa dichiara nel 1906 che nella provincia di Lecce ‘vegetano’, non vivono, oltre mille ciechi, ai quali necessita il ricovero negli istituti per la loro educazione. Assertrice della istruzione del cieco e del suo collocamento nella società, perché non sia affranto sotto il peso di una esistenza ritenuta inutile, la donna propone un indirizzo nuovo di formazione per facilitare il contatto e la convivenza con i simili vedenti, in mezzo ai quali poter svolgere la sua attività.
Nella lettera inviata al Prefetto di Lecce esplicita le finalità dell’istituto che, eretto a convitto e privo di rendite patrimoniali e di altre risorse, si costituisce per educare ed istruire i ciechi e possibilmente, con eventuali risorse della pubblica e privata beneficenza , provvedere anche alla cura e mantenimento. Il numero degli assistiti aumenta di anno in anno, numerosi cercano di entrare nella Casa, alcuni inviano persino suppliche alla regina ed al re Vittorio Emanuele perché siano ricoverati. L’istituto deve essere ampliato ed Anna Antonacci si rivolge alla locale Prefettura, alle amministrazioni dei comuni e delle circoscrizioni di Terra d’Otranto.

La rigorosa povertà francescana segna lo scandire quotidiano dell’Istituto; Annina deve difendersi dall’opposizione di alcuni che non le riconoscono la capacità di dirigere tale istituzione, in quanto donna e deficitaria di vista. La caparbietà, il costante appello della donna rivolto alle amministrazioni pubbliche, alle associazioni laiche e religiose, i numerosi articoli che encomiano il suo operare sulle pagine dei giornali, hanno il sopravvento sulle incertezze e diffidenze. Anche il suo più strenuo oppositore, il medico oculista Gaetano Fiore, che a lungo aveva prestato la sua opera nell’Istituto F. Smaldone, preoccupato della nascita di una fondazione affine, diretta da una giovane donna “cieca persino”, si ricrede ed affianca Annina nell’opera e per il riconoscimento dell’Istituto dei Ciechi come Ente morale.

La bontà e la generosità dell’attività di Anna sono riconosciute dal pontefice Pio X e dal vescovo di Lecce, mons. Gennaro Trama, protettore e padre spirituale dell’Istituto. I progressivi risultati stimolano l’amministrazione pubblica locale ad intervenire economicamente a sostegno del gravoso carico dell’Antonacci. Nel 1907, Annina ottiene dal Comune di Lecce l’uso di Palazzo Giaconìa, con prospetto sulla piazzetta De Summa, una sede stabile e dignitosa che permette di separare la sezione maschile da quella femminile. Il 27 agosto 1910, il “Tribuno” pubblica l’incremento delle entrate ed il numero di ventotto convittori, posti sotto la cura del dottore Fiore, uomo “che tutto si spende per questo umanitario istituto”; i ragazzi sono istruiti ed educati ed apprendono un mestiere come la costruzione di persiane in legno, ceste, canestre, panieri in vimini e paglia, tavolinetti da lavoro e tutti i manufatti donneschi per la sezione femminile. La direttrice si propone di avviare un asilo su modello froebeliano, frequentato da bambini privi di vista e vedenti; rileva atteggiamenti di tristezza, timidezza ed isolamento, quali effetti derivanti dalla cecità, invalidante per i piccoli , a causa della loro sventura e dell’abbandono in cui sono tenuti ordinariamente dalle loro famiglie, ritiene che la convivenza con i vedenti della stessa età li avrebbe resi disinvolti, vivaci ed allegri. I vedenti, a loro volta, avrebbero sviluppato più precocemente il sentimento della pietà e della riflessione mentale accentuata nei bambini ciechi. L’esperimento produce ottimi risultati.

Gli anni della prima guerra mondiale incidono sulle risorse economiche, l’istituto è l’unico centro dopo quello di Napoli, in tutta l’Italia Meridionale, ma non può accogliere altri bisognosi, specialmente donne, il cui dormitorio risulta insufficiente; occorrono locali per scuole e laboratori ed il vano infermeria viene trasformato in aula. Utili allo scopo si rivelano lotterie, feste di beneficenza, concerti musicali per incrementare i magri introiti; partecipano alle rappresentazioni cantanti come il giovane Tito Schipa. La cronaca giornalistica pubblica le iniziative benefiche che richiamano personaggi politici, governativi, in molti visitano l’istituto ed esaltano le doti e la capacità dell’audace fondatrice. Le conseguenze del conflitto mondiale provocano la crescita esponenziale di casi di cecità: alcuni occhi totalmente spenti, altri accecati dalle granate nemiche.

La grave situazione matura il tempo per elaborare alcuni diritti fondamentali che riguardano soldati rimpatriati ciechi; ai lavori congressuali tenuti a Genova il 26 ottobre 1920 partecipa Anna Antonacci, tra le personalità dal volto nuovo, distintasi per la straordinaria levatura morale, per le competenze nel settore educativo e per l’impegno sociale. Con R.D. 17 febbraio 1921, l’Istituto viene riconosciuto Ente Morale. In Italia, il R.D. 31.12.1923 n.3126, facendo assumere al Ministero dell’Educazione Nazionale il controllo dei principali Istituti italiani per ciechi, si sostituisce con le sue previdenze e garanzie all’anacronistica beneficenza privata. Le battaglie di Anna Antonacci condivise con il tiflologo Augusto Romagnoli negli anni 1920-1925 producono una straordinaria e favorevole messe di norme, pietre miliari per l’istruzione dei disabili. Nel 1925 l’Ente, in quanto scolastico, passa alle dirette dipendenze del Ministero della Pubblica Istruzione.

Nel 1938, alla morte di “Annina”, l’Istituto viene intitolato a suo nome. Il busto in marmo di Anna Antonacci, realizzato dall’artista Raffaele Giurgola, collocato all’ingresso dell’Istituto, quasi a voler simboleggiare la via da lei segnata, tratteggia il suo volto, dalla fronte spaziosa e profondamente solcata, dal viso ovale, dall’espressione a volte truce, a volte sorridente.

Saggia sin dall’infanzia, forse nacque già direttrice del vagheggiato istituto. Con la sua intelligenza giunse ove l’occhio delle sue assistenti non sarebbe arrivato. Dal passo deciso e cadenzato, quasi volesse incidere l’orma di sé, emerge la sua marcata ed attraente personalità, serena e rasserenatrice, coraggiosa ed audace. Profuse tutta la sensibilità che racchiudeva in sé, a conforto di centinaia di bambini che ebbero in lei più che una madre. Fermamente convinta che una donna nelle sue condizioni non può nutrire progetti di famiglia, vi rinunciò per dare altro significato all’amore.
La missione di Annina fu quella di divenire la sorella per ogni persona cara, luce per i suoi ragazzi.

La sua esperienza, il suo impegno in un progetto filantropico ed assistenziale costituirono l’esempio ed il riferimento quando si volle elaborare una riforma sull’istruzione dei ciechi: “nella missione che io e le mie compagne di sventura e di lavoro ci siamo imposte, colla fondazione dell’istituto per i ciechi di questa provincia, noi miriamo a dimostrare con prove sempre più convincenti che il cieco è suscettibile di perfezionamento nel campo della pura intelligenza e nel campo del lavoro manuale, che il cieco può e deve essere educato in modo che basti a se stesso nella vita e che non sia più considerato soltanto come spettacolo di pietà e di commiserazione”.

di Giovanna Bino fonte@enciclopediadelledonne.it