Se ne va in lacrime, ma sportivamente pago. Assolutamente soddisfatto. Come nessun altro dei Fab Four può ancora essere.
Non Federer, all’inseguimento dell’ennesimo limite, non Rafa, all’inseguimento del rivale di sempre, non Djokovic, all’inseguimento della massima grandezza per la sua piccola Serbia.
Andy Murray annuncia il ritiro, a Wimbledon, se la sua anca destra martoriata gli darà tregua per altri sette mesi. Voleva decidere lui quando dire basta, ma il suo gioco vincente nasce da quel moto di sbracciate perpetue e quindi proprio dall’ancheggiare continuo, dalla ripetitività del gesto, dal tira e molla non più elastico dopo anni di usura. E il meccanismo ormai scricchiola troppo, fino a farlo gemere di dolore, dopo mezz’oretta appena.
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No, non poteva più resistere con quella spada di Damocle sulla testa, non poteva fingere, dopo l’operazione, la difficile ripresa, i drammatici tentativi di questi giorni e, soprattutto, il triste allenamento col “gemello” del maggio 1987, Novak Djokovic, agli Australian Open che gli ricordano quattro delle cinque finali perse a Melbourne (una con Federer), dopo battaglie inenarrabili, da moderni gladiatori della racchetta. Mentre al primo turno vede oggi con terrore il confronto con il troppo solido spagnolo Roberto Bautista Agut.
Ma che cosa può chiedere di più al tennis il ragazzo nato nella Scozia senza pedigree tennistico, peraltro figlio del paesino di Dunblane noto per l’eccidio di un pazzo nella scuola elementare – anche lui e il fratello si erano nascosti sotto una cattedra -, che è diventato addirittura Sir?
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Ha riportato la Gran Bretagna nell'Olimpo del tennis, ha sfatato il tabù dopo tre finali Slam perse, ha riscritto un suddito di sua maestà nell’albo d’oro dei Majors (agli Us Open 2012), dopo i fasti addirittura del 1936 di Fred Perry, ha vinto Wimbledon sia olimpico (2012) – davanti a 17.3 milioni di telespettatori di casa, finendo raffigurato in un francobollo ad hoc – che classico (2013), è salito al numero 1 del mondo (nel novembre 2016, quando è stato anche insignito come Cavaliere dalla regina), ha fatto il bis ai Giochi a Rio 2016 (primo tennista col doppio oro), ha firmato la coppa Davis 2015 (primo a siglare l’ideale 8-0 in singolare dalla rivoluzione del 1981), ha vinto 45 titoli Atp di singolare (almeno uno all’anno dal 2006 al 2017), disputando le finali in tutti e quattro gli Slam ha dimostrato di poter eccellere su tutte le superfici.
Andy Murray lascia il tennis a 31 anni, ventotto dopo che mamma Judy gli ha messo in mano una racchetta perché seguisse il fratello maggiore, Jamie. Salito anche lui al numero 1 del mondo, ma in doppio. Andy saluta a Melbourne, scoppiando in lacrime, perché, dopo 20 mesi di lotta con se stesso, proprio non riesce a superare la soglia del dolore: “Ho fatto tutto quello che potevo perché la mia anca stesse meglio, ma non ha sopportato i carichi. Sono messo meglio di sei mesi fa, ma sento sempre tanto dolore, è stata dura, qui a Melbourne giocherò, posso ancora giocare a un certo livello, ma non a quello che mi piace giocare. Ma il problema non è quello: è che mi fa troppo male. Già a metà dicembre ho informato il mio team che non ce la faccio a continuare così. Devo mettere un punto perché stavo giocando senza sapere quando il dolore si sarebbe arrestato. Vorrei arrivare fino a Wimbledon, che è dove vorrei interrompere la mia carriera, ma non so se sarò in grado di riuscirci. Ho preso in considerazione anche un’operazione alle anche più importante di quella dell’anno scorso, mi ricostruirei l’anca e avrei una migliore condizione di vita. Sarebbe bello fare le cose senza dolore, come infilare scarpe e calzini”.
Murray lascia un segno non solo in Gran Bretagna, ma anche come atleta e come campione, col suo gioco intelligente da fondocampo, la capacità di variare ritmo e angolazioni, basandosi su un rovescio a due mani delizioso e di un apparato difensivo di primissima qualità. Ha saputo scalare marcia, e a ritagliarsi uno spazio significativo nell’era Federer-Nadal-Djokovic, anche grazie all’apporto come coach dell’ex numero 1 del mondo Ivan Lendl, specificatamente nell’attitudine offensiva, nel dritto sempre più efficace e nella cattiveria agonistica.
Ma sarà ricordato anche per le qualità umane. Si è accompagnato da sempre a figure femminili molto forti: dalla madre, l’ex pro e insegnante di tennis, Judy, alla fidanzata storica, Kim (Sears) che è diventata sua moglie e gli ha dato due figlie, ad Amelie Mauresmo, l’ex pro, dichiaratamente omesessuale, che ha voluto e difeso come coach quando tutti la accusavano per i mancati risultati. E’ sempre stato femminista, difendendo i diritti delle colleghe sia per i premi da eguagliare agli uomini sia per la legittima aspirazione di una eguale esposizione sui principali campi dei tornei e sui media.
Ha sempre parlato chiaramente e duramente anche sul delicato tema del doping e sul caos di potere a causa dei troppi interessi al vertice del tennis. Ha guadagnato oltre 60 milioni di dollari di soli premi ufficiali, cifra che va almeno raddoppiata considerando sponsor e indotto. Ma di sicuro pagherebbe una gran fetta di quella montagna di quattrini per poter correre ancora libero e spensierato dietro la amatissima pallina gialla.
Vedi: Andy ha detto basta
Fonte: sport agi