di Gianni De Iuliis
«Principio delle cose che sono è l’illimitato… donde le cose che sono hanno la generazione, e là hanno anche il dissolvimento secondo la necessità. Infatti esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo» (Simplicio citando Anassimandro).
Simplicio sembra quasi volerci dire che Anassimandro sia stato il primo a usare la parola archè in senso filosofico, con la valenza di principio.
Anassimandro visse a Mileto. Oltre che filosofo fu uomo politico e astronomo. Egli fu il primo autore in Grecia di scritti filosofici: la sua opera principale, Intorno alla natura, tratta di questioni cosmologiche.
Individuò l’archè nell’àpeiron, cioè in un principio infinito e indeterminato da cui tutto si originava e in cui tutto confluiva per dissolversi, alla fine di un ciclo definito da una legge necessaria.
Il termine àpeiron deriva dal greco antico ἄπειρος (àpeiros) o ἀπείρων (ápeiron), composto da ἀ- (a-) privativo (non) e πεῖραρ (peirar), «limite» o «fine». Quindi il significato letterale è «senza fine», «senza limiti», «illimitato», «infinito», «indefinito».
Quindi Anassimandro non individua l’archè in un elemento fisico, come per esempio l’acqua in Talete, ma in qualcosa di indefinito, immortale, indistruttibile e quindi divino. L’àpeiron è materia indefinita e infinita in cui tutti gli elementi coesistono indistintamente.
(6. Continua)