Viaggio all’interno di Palazzo Ducale a Genova che ‘resiste’ al covid


AGI  – “Un giorno sono venuta a palazzo e ho trovato all’ingresso una signora in lacrime. Le ho chiesto cosa succedesse e mi ha raccontato che aveva perso il marito a causa del Covid. Poi ha aggiunto: “sono uscita oggi per la prima volta e sono venuta qui a palazzo’. Quando una persona ti dice questo, capisci che non c’è bisogno di altre spiegazioni: dare alle persone la bellezza è importante, è benessere”.

Sceglie questo aneddoto Serena Bertolucci, direttore della Fondazione per la Cultura di palazzo Ducale di Genova per fare con Agi un bilancio di questo 2020 contraddistinto dal Covid e dalle misure che, per limitare il contagio, hanno rinchiuso la cultura nei propri edifici, hanno sospeso gli eventi in presenza, hanno costretto un intero settore a salti mortali, ad invenzioni, a trasferire capolavori online, a riorganizzarsi per galleggiare e sopravvivere.

Al Ducale il 2020 finisce in pareggio di bilancio, senza avere dei contributi extra – dice Bertolucci – per noi il ristoro è stata poca cosa, qualche migliaia di euro. Ma al di là delle cifre, finisce così questo anno, con grande fierezza dei miei perché nessuno si è risparmiato e tutti hanno fatto tutto”.

Al Ducale nessuno è stato licenziato, ma si è utilizzata la cassa integrazione: “Abbiamo organizzato il lavoro in maniera molto coesa, anche mettendo in piedi una banca ore per chi non aveva più ferie. Abbiamo cercato di andare avanti tutti insieme – racconta Bertolucci – perché ci si salva tutti insieme. Anche ora, con la zona rossa per le festività natalizie, andiamo in cassa integrazione”.

Il direttore della Fondazione per la Cultura, che affianca il presidente di Palazzo Ducale Luca Bizzarri nella gestione del cuore culturale di Genova, è l’anima del palazzo: è il comandante di quel piccolo esercito laborioso che, pur nella difficoltà di due lockdown, la scorsa primavera e questo autunno-inverno, ha avuto un chiodo fisso: non spegnere la cultura.

“Abbiamo cominciato a ripensarci quando ancora il distanziamento non era diventato la quotidianità, con le ‘visite al metro’, come si fa con la pizza. Io mi sono messa a lavorare anche in biglietteria – racconta  – Abbiamo organizzato, da veri pazzi, “La mostra che non c’è”, ovvero quella carrellata online di pezzi straordinari – Rubens, Caravaggio, Van Dick – oggi lontani, esposti nei più importanti musei del mondo, che appartengono alla storia della città di Genova.

Poi “Cinque minuti con Monet”, ovvero la possibilità del visitatore di essere da solo, rispettando dunque il social distancing, in una stanza per 5 minuti a tu per tu con “Le Ninfee” del celebre pittore impressionista: questo ci ha dato un’esposizione mediatica grandissima.

Siamo stati sui 20mila visitatori circa, considerando la mostra di tre mesi, in minuti. Ci sono state giornate in cui abbiamo tenuto aperto fino alle 22. E’ una mostra che – sottolinea – senza scuole ha fatto il 15% under 14, un miracolo con la didattica sospesa”.

Monet è stata la mostra visitabile appena ai musei è stata data l’opportunità di riaprire: “Monet era una scelta ‘pop’ – confida Bertolucci – ti tira fuori da casa e, se hai necessità di riprendere il contatto col bello dopo mesi tra le pareti di casa, hai bisogno di una cosa che sia così, senza fronzoli, immediata”.

Non perdiamo l’occasione per ripensare la cultura

E così si è navigato a vista in questo 2020. Ora si guarda al futuro, sperando di non incappare in un iceberg: “Questo anno ci ha portato via tanto, è stato doloroso. Ma ci dà anche un’occasione – dice la presidente della Fondazione di Palazzo Ducale – Tutto il prezzo pagato, che è stato esagerato, ci dice che ripensare la cultura, come abbiamo sperimentato in questi mesi, serviva e non deve essere una occasione persa.

Il che significa che dobbiamo mettere fine alla “sindrome del Gollum” – ironizza  Bertolucci  – pensando alla cultura come al mio “tessoro”, al mio palazzo, alla mia mostra: la cultura vive di rete, con una visione. In secondo luogo dobbiamo esaltare e valorizzare la competenza: qui al Ducale ci siamo potuti permettere di andare avanti e di fare tanto perché tutti qui dentro sanno fare il proprio mestiere. Infine dobbiamo capire il valore della cultura, il suo peso specifico: ci manca oggi, manca tanto al nostro benessere, che non è turismo. Confondere le due cose è un errore: sono due realtà degnissime e importantissime, ma diverse”.

Ma anche le mostre, secondo Bertolucci, “non saranno più le stesse: c’è necessità di avere prodotti più accessibili, più comprensibili, specialmente dopo un anno in cui si è capito che il divario culturale è enorme, così come la disponibilità dei mezzi per accedere alla cultura”.

Il covid ci ha imposto il distanziamento e ha annullato le code. Un insegnamento che non va disperso, secondo Bertolucci che parla di “godimento dell’arte che deve essere puro. Dopo 40 minuti in coda, non si ha piacere a visitare un museo. Il museo invece deve essere accogliente, accessibile, comodo: devi essere a casa tua, per metterti nella posizione dell’ascolto e non sulla difensiva. Sono cose che abbiamo imparato, come il fatto che non c’è cultura alta o bassa: c’è cultura e basta. Semplificare non vuol dire banalizzare. Non sono una grande amante del virtuale, ma ci ha insegnato il linguaggio accessibile”.

Non solo: “gran parte della cultura dovrebbe essere gratuita, se uno se lo può permettere. Lo scorso anno per il Ducale è stato un anno fondamentale perché abbiamo avuto un guadagno importante che ci ha permesso di vivere e chiudere in pareggio quest’anno. Ma ci ha anche permesso di fare molti eventi gratuiti – sottolinea Bertolucci – Per una struttura sana è certo importante guardare all’economia di scala, fare in modo che il palazzo pesi sempre meno sulla collettività dal punto di vista economico. Ma al tempo stesso deve garantire alla collettività l’accessibilità e si può fare. Poi dobbiamo fare anche economia di scopo: investiamo soldi per costruire le persone”.

Mentre siamo a colloquio con il direttore della Fondazione per la Cultura, il Palazzo è vuoto: nessun visitatore che acquista i biglietti delle mostre come regalo di Natale, nessun preparativo per la notte di Capodanno. Così strano in un luogo che lo scorso anno ha ospitato un gran ultimo dell’anno in stile “anni Venti”.

Senza questa grossa fetta di incassi che da sempre contraddistingue il periodo natalizio, “sappiamo già che nel 2021 partiamo con un handicap – dice Bertolucci – Ma più di ogni cosa, oggi per noi sarebbe importante capire quando si apre, se la data del 15 gennaio è credibile. La vera difficoltà di questi tempi infatti è la programmazione: le mostre non si improvvisano, ma neanche i cicli di conferenze. Non abbiamo un orizzonte certo”.

Il direttore della Fondazione per la Cultura non è persona che si perde d’animo, però: “Apriamo comunque il libro delle favole e pensiamo di aprire davvero il 15 gennaio: “Michelangelo” proseguirà, poi avremo una ‘mostra sorpresa’ per l’estate che riguarderà anche i mezzi di informazione, prodotta dal Ducale. Poi ci sarà “Escher”, con le stanze di Escher ricostruite. Piranesi, per valorizzare le prigioni sempre in qualche modo legate ad Escher e, se riesco, ci saranno anche richiamo ad Harry Potter, perché il film del maghetto si è ripetutamente ispirato alle scale di Escher.

Tutto questo anche per avere un linguaggio comprensibile a tutti. A seguire avremo “Carosello”, con attenzione e riferimenti alle realtà genovesi, per parlare di storia industriale, riutilizzo. Mi piacerebbe far sì che i negozi diventassero sedi di mostra, esponendo magari storiche macchine del caffè, barattoli di crema da barba d’epoca: è un modo anche per avvicinarsi ai commercianti e sostenerli, dopo questo anno difficile – sottolinea – Poi avremo la “Magnum” con le visioni d’Italia: dato che abbiamo tutti riscoperto l’Italia, volevamo raccontare come era vista dai grandi fotografi.

E ancora un progetto su Pasolini, la mostra della Disney che arriverà dagli Usa e che abbiamo spostato al prossimo autunno. Insomma – conclude -il  programma è chiuso e stiamo lavorando al 2022, quando si celebreranno i 30 anni del Ducale”. Ma servono risposte e tempi certi.

“Si guarda al 2021 con voglia di fare, ma anche con un po’ di preoccupazione – dice Bertolucci – Perché se siamo un servizio essenziale, dobbiamo essere considerati come tali. Oggi credo che si sia perduto il senso della cultura, e qui, dopo questa pandemia, spero che arrivi lo scatto in avanti: abbiamo fatto confusione col turismo e ci siamo infilati nel loop della necessità dell’evento che non costruisce. Si è perso un po’ il senso e l’idea che cultura è lavoro per tanti. Se non diamo il peso giusto alla cultura, tutto il resto si sfarina: bisognerebbe che, non solo a parole, la cultura sia davvero un settore in cui investire, considerando vari indicatori, che non sono solo i numeri: è ciò che produci, la società che crei. I musei non sono numeri, ma hanno i numeri per fare le cose. Spero che questa sofferenza ci aiuti in questa riflessione”.

Poi Bertolucci avverte: “Credo che la cultura avesse bisogno di una scossa. Ma dobbiamo sfuggire all’idea di trasferirci sull’online, anche se è un mezzo strepitoso che in parte ha aiutato. Il tema è che noi siamo qui – conclude calpestando la pietra secolare del Ducale – con i piedi a terra, posati sul nostro patrimonio che è reale”.

Luci spente e niente pubblico ma nel museo c’è fermento

Luci spente, corridoi silenziosi se non per il ronzio che somiglia a quello di uno di quei macchinari presenti negli ospedali, quelli che tengono in vita i pazienti. E più o meno il principio è lo stesso, solo che il dispositivo è un termostato che regola temperatura e umidità degli ambienti, il paziente è un museo.

O meglio un palazzo, uno di quelli che affonda le sue radici alla fine del XIII secolo, che nel XVII secolo si veste di prestigio, che sopravvive, pur ferito gravemente, ad un violento incendio nel XVIII secolo, che subisce interventi, modifiche, restauri, che resiste in qualche modo a due guerre e che alla fine, grazie al sapiente intervento di Giovanni Spalla, a partire dal 1980 recupera il suo inestimabile valore.

Questo paziente, Palazzo Ducale, dal 1992, è il principale motore della cultura di Genova e, con il laborioso braccio della sua Fondazione, organizza mostre d’arte, rassegne, incontri, concerti ed eventi che nemmeno il Covid, pur accanendosi con violenza su un settore tanto prezioso quanto delicato come la cultura, ha saputo fermare.

Perché quelle luci spente sulle statue di Michelangelo Buonarroti che attualmente “riposano” nell’appartamento e nella cappella del Doge, quel silenzio rotto solo dal ronzio del termostato, quei visitatori che non si accalcano all’ingresso della mostra non rappresentano il segnale di una guerra persa, ma un momento di “tregua armata” con un finale tutto da scrivere.

In trincea restano 5 custodi

In “trincea”, tra le mura di palazzo Ducale, c’è un piccolo esercito compatto che sta difendendo il polo culturale come fosse Stalingrado. I soldati, appena 5, non imbracciano armi, non indossano uniformi: sono solo fedeli all’amore per questo edificio che hanno visto rinascere col grande restauro di fine anni Ottanta, che hanno visto crescere, svilupparsi, fino a diventare cuore pulsante della città.

Tra di loro Agi ha incontrato Ivano Rossi, 54 anni di cui una trentina al servizio del Ducale. Il suo ruolo è indefinibile perché Ivano, detto “Ivo”,  genovese doc e dal’89 a palazzo, quando ancora c’era il cantiere di restauro, è il “tuttofare” dell’edificio. Se insomma ci trovassimo in una “Batcaverna”, lui sarebbe Alfred Pennyworth, il maggiordomo/balia/assistente/coscienza di Bruce Wayne-Batman.

“Lo senti questo rumore? E’ lo strumento che regola l’umidità. Tutte le stanze lo hanno”, racconta all’Agi, mentre percorriamo insieme i corridoi, facendoci spiegare il suo delicato lavoro dietro le quinte, ancor più gravoso e indispensabile oggi che i musei di tutto il Paese sono chiusi. “Le carte, così come le stoffe hanno dei tempi di esposizione precisi. Non si può esporre un disegno per 6-7 mesi, perché la luce è estremamente dannosa – spiega passeggiando di fianco ai carteggi di Michelangelo, non come custode, ma come un attento primario farebbe durante il giro serale delle visite in ospedale, intento a sincerarsi delle condizioni del suo paziente – Avendo chiuso e mantenendo tutto al buio, permettiamo alla carta di riposare e, di conseguenza, potremo prolungare il tempo di esposizione e tenere più a lungo visitabile la mostra”.

Si soffre a vedere la bellezza maestosa del grande scultore senza spettatori, ma sebbene gli eventi in presenza siano sospesi, al Ducale si lavora paradossalmente di più. I cinque “angeli custodi” del palazzo infatti, stanno cercando di approfittare di questo “lockdown culturale” per tirare a lucido l’imponente struttura: “In condizioni di normalità non riusciamo a fare manutenzione ordinaria e straordinaria, perché l’edificio è aperto praticamente 365 giorni all’anno – racconta Ivano – Gli spazi, gli uffici, le sale sono sempre in funzione con eventi, conferenze.

Ora abbiamo potuto programmare una serie di lavori, ma la cosa più importante è continuare a mantenere le opere in benessere. Tutti i giorni, per due volte al giorno, ovvero mattina e sera – spiega Ivano – dobbiamo monitorare le mostre, controllare la temperatura delle sale che deve essere di 19°, con l’umidità sempre al 50%. Questo ci dà la garanzia che le opere siano ben conservate.

Nei saloni chiusi invece facciamo manutenzione alle macchine, agli impianti idrici, di riscaldamento e di condizionamento. Nel locale caldaie stiamo cambiando tanti pezzi, sostituendo tutto quello che è obsoleto.

E’ stranissimo fare a meno dei visitatori

E’ un modo anche per tenere in funzione il palazzo che è antichissimo e far sì che non si verifichino grossi danni”. Ivano non nasconde però che i visitatori sono una mancanza importante, non solo per una questione economica: “E’ stato stranissimo fare a meno dei visitatori – dice – Nel primo lockdown, quando tutto era chiuso, abbiamo ritenuto giusto ed etico continuare a venire: uno per volta si arrivava a Palazzo e da soli si gestiva tutto quello che normalmente fa la squadra. Ovviamente non si svolgevano lavori nelle sottocentrali e nel locale caldaia, però c’era tutto il resto della gestione.

In quel periodo avevamo ancora la mostra di Bansky e “Anni 20” che stavano andando molto molto bene. Mancava e manca l’afflusso delle persone perché è quel che, dopo una lunga giornata di lavoro, ti dice che le cose stanno funzionando. Ora è tutto online, in streaming – sottolinea – Ma guardare un quadro a poca distanza da esso, apprezzarne le sfumature, lasciarsi avvolgere dall’atmosfera che regala, ammirare i chiaroscuri di una statua, leggere un carteggio del XV secolo, ascoltare un concerto o seguire una conferenza nel salone del Maggior Consiglio, un pezzo di storia del palazzo, è molto diverso dallo stare in poltrona davanti al computer”.

Entrare negli spazi espositivi del Ducale è anche lasciarsi raccontare la bellezza attraverso la sua illuminazione e, anche per questo, si fa riferimento a Ivano e ai suoi colleghi: “Con loro mi occupo anche di illuminotecnica – racconta – Una delle cose più belle di questo lavoro. Ogni carta esposta, ad esempio, deve avere non un massimo di 50 lux. Ma anche un quadro, una statua, con un certo tipo di illuminazione può essere valorizzata al meglio. E poi per me è un’esperienza bellissima illuminare: ho dato luce a Picasso, Van Gogh, Chagall” elenca con un po’ di orgoglio.

Questa capacità concentrata a palazzo è un vanto per il Ducale che, per ogni aspetto – dalla cura dell’edificio alla perfetta riuscita dei suoi eventi – può contare sulle competenze dei suoi lavoratori, senza ricorrere ad aiuti esterni. Il palazzo sembra infatti un corpo autosufficiente, mantenuto vivo da coloro che lo abitano “quasi fosse una seconda casa”, dice Ivano, ma anche dalla sua intrinseca e straordinaria bellezza: perché quel che rende il Ducale un luogo che va oltre lo spazio espositivo è essere di per sé opera d’arte e, al tempo stesso, storia di Genova.

Non c’è angolo, dalle fondamenta alla Torre Grimaldina che non racconti fasti, miserie, quotidianità di una città tanto straordinaria quanto complessa come il capoluogo ligure. “Quando i visitatori mi domandano cosa non perdere assolutamente della visita a Palazzo, rispondo sempre la cappella del Doge perché è l’unica parte dell’edificio non distrutta ai tempi delle guerre. E’ l’unica rimasta completamente intatta.

Qui – racconta al centro della sala variopinta, affrescata da Giovanni Battista Carlone nel 1653 e che, dietro le figure sacre, in realtà celebra i fasti di Genova in un crescendo di decorazioni – non c’è un centimetro scoperto”.

Ma per Ivano restano straordinarie anche le prigioni, uno dei luoghi che più si farà fatica a riaprire al pubblico per via degli spazi angusti: qui vivevano in condizioni assai precarie soprattutto prigionieri politici, molti dei quali hanno lasciato tantissime tracce sui muri ben conservati di questa parte di palazzo: scritte, calchi di mani, proteste di innocenza, date, pitture.

Erano carceri di massima sicurezza, completamente blindate con griglie a prova di evasione. Ivano ne parla con affetto, come ha fatto per tutto il resto di quel palazzo che conosce come le sue tasche. Come un angolo della casa dove, insieme alla gloria di Genova, è cresciuto anche lui.

Vedi: Viaggio all’interno di Palazzo Ducale a Genova che ‘resiste’ al covid
Fonte: cronaca agi