AGI – In un pomeriggio d’inverno di 30 anni fa l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (Urss) scompare dagli atlanti del mondo e dalla Storia.
La potenza a capo di uno dei due schieramenti del mondo bipolare cessa di esistere formalmente l’8 dicembre del 1991, quando i leader di Russia, Ucraina e Bielorussia firmano l’Accordo di Belavezha, anche noto come Accordo di Minsk, che sancisce la nascita della Comunità degli Stati indipendenti (Csi).
Due settimane dopo, la notte di Natale (il 25 dicembre 1991), la bandiera rossa viene ammainata sul Cremlino e l’ultimo segretario generale del Partito comunista dell’Unione sovietica (Pcus), Mikhail Gorbaciov si dimette dalla guida del Paese.
Quindici repubbliche, oltre 22 milioni di chilometri quadrati di territorio, più di 290 milioni di abitanti con 200 lingue e dialetti, l’Urss allora era il Paese più grande del mondo.
Il suo collasso, secondo alcuni analisti, inizia con le riforme introdotte da Gorbaciov – diventato segretario generale del Pcus a marzo del 1985 – varate per garantire più democrazia e prosperità economica.
‘Glasnost’ (trasparenza) e ‘Perestroika’ (ricostruzione) sono le parole d’ordine con cui Gorbaciov intende riformare il socialismo sovietico.
Nel 1988, annuncia l’allentamento del controllo militare dell’Urss sugli Stati satelliti. Nel 1989, dopo 10 anni di conflitto, ritira le truppe dall’Afghanistan e lo stesso anno, con il presidente Usa Geroge H.W. Bush, dichiara la fine della Guerra Fredda.
Tra il 1989 e il 1991, cadono tutti i regimi satelliti dell’Urss, crolla il Muro di Berlino, le tendenze centrifughe nell’ex impero diventano inarrestabili. Dal Baltico al Caucaso, i movimenti indipendentisti sconvolgono lo sconfinato territorio dell’Urss, l’immobile impero cede dopo quasi 70 anni di vita. Il sistema non regge e sei anni dopo l’ascesa al potere di Gorbaciov, l’Urss si sgretola per sempre.
A Mosca gli apparati dello Stato resistono. Nell’agosto del 1991, esponenti di spicco del Pcus, del governo e delle forze armate, scendono in piazza per rovesciare Gorbaciov e riprendere il potere.
Ma il tentativo di putsch fallisce in poco tempo, contrastato da massicce proteste popolari a Mosca e in altre città. Il futuro leader, Boris Eltsin, guida la resistenza e scalza di fatto Gorbaciov che lascia la carica di segretario del Pcus. La sera del 25 dicembre 1991, rassegnerà le dimissioni anche da presidente dell’Urss. La bandiera rossa con la falce e martello viene ammainata per l’ultima volta dalle mura del Cremlino.
La Russia riconquista una parvenza di democrazia, se non altro formale, ma il caos è enorme. L’economia del Paese è allo sbando, l’inflazione altissima, le finanze pubbliche allo sfascio. Eltsin promuove una ‘terapia shock’ fatta di privatizzazioni e liberalizzazioni che porta all’ascesa degli oligarchi.
La Russia entra nel libero mercato e lancia un drastico programma di privatizzazioni: il Paese trasforma in un Far West, interi pezzi dello Stato vengono svenduti, nascono enormi gruppi finanziari che spaziano dal gas al petrolio, in mani a pochissimi, mentre lo Stato non riesce più a pagare gli stipendi agli impiegati pubblici. Il Paese non è più alla portata dei suoi abitanti, i negozi si svuotano. L’esercito si sfalda.
La fine dell’Urss porta con sé non solo indipendenza e libertà, ma anche conflitti violenti. Tra il 1994 e il 1996 si combatte la prima guerra cecena, uno dei conflitti più sanguinosi della recente storia della Russia.
Grozny viene rasa al suolo dalle truppe di Mosca, in quello che viene considerato il più pesante bombardamento in Europa dai tempi della distruzione di Dresda, durante la Seconda Guerra mondiale.
Una seconda fase del conflitto per la riconquista del territorio controllato dai separatisti si combatterà a partire dall’agosto del 1999 e avrà come protagonista l’ex agente del Kgb e direttore dei servizi segreti, Valdimir Putin, che proprio gli oligarchi aiuteranno a salire al potere, salvo poi diventare – alcuni di loro – i suoi nemici giurati.
L’era Eltsin dura quasi un decennio ed è caratterizzata da un profondo scontro politico, economico e sociale. La società russa è dilaniata, il prestigio di un tempo, perduto. Eltsin appare pochissimo in pubblico, spesso ubriaco e influenzato dalla cosiddetta ‘Famiglia’, l’inner circle fatto da figlie, generi, amici e consiglieri con grande influenza e un’immunità di fatto. Il vuoto di potere sembra ingestibile e la guerra tra clan per la conquista del potere è senza quartiere.
La notte di Capodanno, il 31 dicembre 1999, il capo del Cremlino si dimette, lasciando il posto a Vladimir Putin. Inizia un’epoca nuova per la Russia. Il nuovo presidente restituisce al Paese l’orgoglio perduto e un posto d’onore nel parterre delle grandi potenze, attraverso la forte crescita economica dei primi anni di mandato dovuta anche agli introiti del gas, il recupero dell’orgoglio patriottico e imprese militari, come l’intervento in Siria e l’annessione della Crimea, che costringono l’Occidente a guardare a Mosca come un interlocutore imprescindibile sui grandi dossier.
Secondo molti analisti, nello spazio ex sovietico sono ancora in corso le scosse di assestamento del terremoto geopolitico e umanitario che è stata la dissoluzione dell’Urss.
A 30 anni dall’Accordo di Belaveza, proprio i tre Paesi firmatari – Russia, Bielorussia e Ucraina – hanno scelto strade diverse: i primi due sono in conflitto aperto con l’Occidente e il terzo ha optato per la direttiva euro-atlantica, allontanandosi sempre più da Mosca, e generando una crisi nel cuore dell’Europa, le cui contraddizioni e tensioni sono riemerse in queste settimane con gli allarmi di Washington su un possibile attacco russo a Kiev.
Source: agi