Il governo ha approvato una manovra per il 2025 da poco più di 28 miliardi. Per una parte verrebbe finanziata in deficit. Ma il problema sono le coperture previste: se si escludono l’utilizzo del fondo per la delega fiscale e i tagli a regioni ed enti locali, non provengono da entrate permanenti.
Inizia l’iter del Documento programmatico di bilancio
Il 15 ottobre il governo ha approvato il Documento programmatico di bilancio (Dpb)che, come previsto dal “semestre europeo”, deve essere spedito entro quella data a Bruxelles per un giudizio da parte delle istituzioni europee. Il Dpb si inserisce nella cornice macroeconomica già anticipata dal Piano strutturale di medio termine e offre qualche dettaglio in più su come il governo intende perseguire gli obiettivi con la manovra per il 2025, anche se alcuni aspetti non sono ancora pienamente definiti e per diventare legge la manovra dovrà comunque essere discussa e approvata in Parlamento.
Il quadro macroeconomico
Sul piano macroeconomico, la manovra conferma l’obiettivo programmatico di portare il deficit al 3,3 per cento del Pil nel 2025, mezzo punto in meno del valore stimato per il 2024, in un percorso che dovrebbe condurre il deficit complessivo al 2,8 per cento nel 2026, così consentendo al paese di uscire dalla “procedura di infrazione per deficit eccessivo” lanciata dalla Commissione a giugno.
Si tratta di un anticipo rispetto a quanto richiesto dalla stessa Commissione ed è un impegno da salutare positivamente. Dato il suo alto debito, l’Italia si trova in una situazione quasi da “austerità espansiva”: manovre espansive ma non considerate credibili dai mercati rischiano di far aumentare la percezione di rischio del paese, dunque lo spread, e tramite questo, gli interessi pagati sia dal settore pubblico che da quello privato. Viceversa, manovre restrittive, come l’attuale, che però rafforzano la credibilità del paese, tramite gli effetti positivi sui tassi di interesse possono avere anche effetti espansivi. Il fatto che lo spread si stia riducendo mostra come i mercati (e le agenzie di rating) abbiano accolto con favore gli impegni assunti dal governo.
Al di là di questo commento generale positivo, la manovra presenta gli usuali aspetti discutibili delle manovre fiscali italiane, soprattutto sul lato delle coperture.
La manovra
Sul piano dei contenuti, si tratta per il 2025 di una manovra da 28,3 miliardi, con coperture per 19,4 miliardi. Il resto verrebbe finanziato in deficit, cioè dalla differenza tra il deficit a legislazione vigente, 2,9 per cento del Pil (che però non considera molte spese finanziate solo per il 2024), e il 3,3 per cento del programmatico. Il piatto forte della manovra è infatti rappresentato dalla conferma delle politiche finanziate solo per il 2024, la riforma Irpef a tre aliquote e l’intervento sul costo del lavoro dei dipendenti a basso reddito, che però sembra verrà rivisto per evitare il “salto” attuale a 35mila euro lordi. Da soli, idue interventi costano 17,4 miliardi, oltre il 60 per cento della spesa ulteriore prevista dalla manovra per il 2025. Il resto serve per rifinanziare e rafforzare una pletora di misure, in larga misura già previste, e un maggior finanziamento per la sanità per 4,5 miliardi dal 2025 al 2027. Tuttavia, l’incremento per il 2025 è pari a 900 milioni. Nel 2026, invece, la spesa sanitarie aumenterebbe di 3,4 miliardi. Quest’ultimo intervento, che dovrebbe mantenere più o meno invariata la spesa sanitaria sul Pil nel 2025-2026 (attorno al 6,3-6,5 per cento), risponde all’impegno assunto dal governo nel Piano strutturale di medio termine di far crescere questo capitolo più della spesa netta complessiva (che deve salire solo dell’1,3 per cento nel 2025 e dell’1,6 per cento nel 2026, cioè meno della crescita stimata per il Pil nominale).
Le coperture
Le coperture, come tradizione nella finanza pubblica italiana, rappresentano la parte più discutibile della manovra. Dei 19,4 miliardi non finanziati da extra-deficit, 5,6 miliardi arrivano dall’utilizzo del fondo per la delega fiscale. I residui 11,8 miliardi da un insieme di interventi che, in teoria, per sostenere una maggior spesa permanente (come la riforma Irpef o la riduzione del costo del lavoro) dovrebbero essere a loro volta tali: a parte gli 800 milioni di tagli a regioni ed enti locali, appaiono invece quanto di più aleatorio si possa immaginare.
In particolare, la necessità politica dell’attuale governo di poter dire di “non aver aumentato le tasse” ha dato nuove ali alla fantasia sempre fervida del legislatore contabile.
Infatti, 3,8 miliardi arrivano da un meccanismo che equivale a un anticipo di imposta pagato da banche e assicurazioni che dovrà essere restituito tra il 2027 e il 2029 (i “sacrifici” annunciati dal ministro Giorgetti). Da un punto di vista economico, si tratta a tutti gli effetti di un prestito (a tasso zero) graziosamente concesso dal sistema bancario e assicurativo al governo italiano, anche se contabilmente verrà registrato come maggiori entrate fiscali. Le entrate ovviamente diminuiranno in modo corrispondente dal 2027 al 2029: non si possono certo considerare permanenti.
Altri 2,4 miliardi arrivano da tagli (in percentuali uguali per tutti) ai fondi dei ministeri, nonostante che l’esperienza del passato sui tagli lineari (l’opposto di una spending review accurata) sia tutt’altro che positiva, sia per l’effettiva capacità di condurre ai risparmi previsti che per gli effetti sulla funzionalità della pubblica amministrazione. Infine, i residui 6,7 miliardi dovrebbero arrivare da altri interventi non ancora ben specificati su entrate (per 3,2 miliardi) e spese (per 3,5 miliardi). Tra i primi, ci dovrebbe essere una revisione del sistema di detrazioni fiscali per ridurre la possibilità per i redditi più alti di detrarre dall’Irpef le spese (incluse quelle sanitarie e gli interessi sul mutuo, a proposito di non aumentare le tasse). Tra i secondi, vedremo.
Ben poco di strutturale, insomma, il che preoccupa anche perché, come già notato altrove, l’intero percorso ulteriore di consolidamento delle finanze pubbliche si basa sull’ipotesi che l’inaspettato incremento delle entrate stimato per il 2024 si mantenga e si rafforzi nei prossimi anni.
Se davvero il governo vuole rendere permanenti gli interventi su costo del lavoro, riforma fiscale, spesa sanitaria, le misure per la bassa natalità, le agevolazioni afferenti alla legge Sabatini, la proroga della Zes (Zona economica speciale) per il Mezzogiorno e altro ancora, dovrà trovare nuove risorse in futuro.
Fonte: La Vove