Di Aldo Cazzullo
Programma del festival Supernova: dodici ore di musica «psytrance», con dj giapponesi e francesi, gli artisti brasiliani di «Universo Paralello» (si scrive così) insieme con i gruppi pop-punk israeliani, migliaia di ragazze e ragazzi arrivati per ballare, vestiti come i nostri figli e nipoti.
Attrezzatura lasciata sul campo dai miliziani di Hamas: coltelli, kalashnikov, granate, copie del Corano, abiti neri di terroristi venuti per uccidere.
Pare lo scenario di uno scontro di civiltà; a guardar meglio, è l’aggressione di un mondo a un altro.
Da una tragedia come quella del 7 ottobre scaturiscono sempre molte storie, e ognuna va raccontata: la laboriosità violata dei kibbutz, i soprusi inflitti ad anziani e invalidi, lo strazio dei parenti degli ostaggi. Ma il contrasto tra il rave party nel deserto e la «guerra santa» colpisce in modo particolare: come se una macchina del tempo avesse incrociato la postmodernità e il medioevo. Invece è accaduto nello stesso luogo, nello stesso momento. E le ragazze che ballavano avevano la stessa età, appartenevano alla stessa generazione dei terroristi che le hanno massacrate.
«Assaltare dal cielo una festa con centinaia di giovani pacifici, ucciderne bestialmente 260, rapirne altre centinaia non è un atto di guerra, è un crimine contro l’umanità e un atto che ogni essere umano dovrebbe condannare senza se e senza ma. Soprattutto chi ha a cuore le ragioni palestinesi» scrive su Instagram Enrico Mentana. Non si potrebbe rintuzzare meglio coloro che tentano di giustificare o relativizzare l’enormità di quello che è accaduto.
Resta da capire perché sia accaduto. E quello che accadrà ora.
La guerra arabo-israeliana ha radici secolari e si combatte dal 1948. Nei piani dell’Onu, la Striscia di Gaza doveva essere parte dello Stato palestinese. Fu invece occupata dall’Egitto (mentre la Giordania conquistava provvisoriamente Gerusalemme). Israele prese Gaza nel 1967. Nel 2005 Sharon impose il ritiro, i soldati israeliani dovettero trascinare via di peso coloni irriducibili. Gli estremisti di Hamas, appoggiati dall’Iran, assunsero il controllo della Striscia sottraendolo a Fatah, gli eredi di Arafat.
Con l’attacco di sabato, Hamas punta a due obiettivi. Presentarsi agli occhi di tutti i palestinesi come il vero nemico di Israele, con l’obiettivo di prendersi anche la Cisgiordania, oggi in parte controllata da Israele, in parte amministrata con mano sempre più malferma dal successore di Arafat, l’ottantottenne Abu Mazen, eletto nel gennaio 2005: ai giornalisti occidentali, tra cui il vostro cronista, disse che avrebbe portato la democrazia tra i palestinesi e la pace con Israele; non ha fatto né una cosa, né l’altra (non solo per colpa sua).
Il secondo obiettivo di Hamas è attirare Netanyahu e l’Idf (Israel Defense Forces, l’esercito israeliano) nella trappola infernale di Gaza. Difficilmente Netanyahu farà questo errore.
Netanyahu è un uomo di destra, ha vinto più di un’elezione assicurando che con lui non sarebbe nato uno Stato palestinese. È un duro: stava felicemente in America con suo fratello Iddo, medico e commediografo, quando il fratello maggiore Yoni cadde a Entebbe, unica vittima israeliana dell’operazione che liberò oltre cento ostaggi; Bibi e Iddo Netanyahu tornarono in patria e si arruolarono per vendicarlo.
Tuttavia Netanyahu non è uomo di guerra. Finora non ne ha scatenate, pur non avendo fatto molto per la pace, contando su uno status quo che all’evidenza non ha retto. Netanyahu non vuole riprendersi Gaza; vuole schiacciare Hamas; ma per farlo non potrà limitarsi a bombardare dal cielo, dovrà schierare i suoi carri, le sue truppe. Gaza riceve acqua, luce, gas, cibo da Israele, oltre ad aiuti dall’Occidente; anche l’embargo sarà un’arma di pressione.
Hamas non si farà scudo solo degli ostaggi israeliani, ma pure dei civili palestinesi. Come tutte le organizzazioni terroristiche, Hamas ha anche una base di consenso, ma di fatto tiene in scacco un intero popolo, come in contesti ovviamente diversi facevano l’Eta nei Paesi baschi o l’Ira nell’Irlanda del Nord. Hamas non ha solo spezzato con crudeltà vite innocenti; ha reso un pessimo servizio alla causa palestinese, rivelandosi senz’altro più sensibile agli interessi iraniani.
Quello che ha fatto Hamas ci fa inorridire; ma non stupisce chi conosce i campi profughi palestinesi, quelle terre desolate in cui all’ingresso sono appese chiavi che non aprono più nessuna serratura, memento di case perdute, di una catastrofe che non ha mai trovato la sua palingenesi. In quei campi ormai due generazioni sono nate e vissute senza nessun’altra aspirazione che far del male agli israeliani; senza che nessuno, neppure le potenze arabe, neppure l’Occidente, riuscisse a creare prospettive più alte. Un’educazione all’odio su cui si è innestata la mala pianta di un’ideologia orrenda, l’integralismo islamico.
Alla fine vincerà Israele, non solo perché ha armi più potenti, ma perché è una democrazia. I giornali di Tel Aviv e Gerusalemme in questi giorni sono pieni di critiche a Netanyahu e all’intelligence, che si sono fatti cogliere di sorpresa. Chi conosce Israele sa quanto siano forti sia lo spirito critico, sia la coesione interna: e la fonte di entrambe le attitudini è l’amor di patria.
Israele da sempre parla con i palestinesi, attraverso canali aperti e altri sotterranei. Questo è il momento della risposta all’attacco, che sarà certo dura. Ma è anche il momento di riannodare i fili con l’Autorità palestinese, che da Ramallah amministra la Cisgiordania: perché se ci fu un tempo in cui la crescita di Hamas servì anche a indebolire Arafat, oggi liberarsi di Hamas e delle nefaste influenze iraniane sulla regione è interesse di tutti gli uomini non rassegnati al disastro totale.
Fonte: Corriere