Un ex poliziotto racconta come "anche tra i nostri agenti c'è razzismo"


AGI – “Dopo 16 anni in Polizia, me ne sono andato anche a causa del sentimento neofascista e razzista che la pervade”. Marco Romagnoli, 42 anni, avvocato da un anno dopo avere studiato per conseguire la laurea in Legge nell’ultimo periodo con la divisa, racconta all’AGI la sua esperienza.

Non ho mai assistito direttamente a episodi a sfondo razziale come quelli che stiamo vedendo in Usa – premette – perché se no li avrei denunciati, ma nei discorsi, negli atteggiamenti e nelle valutazioni di ogni giorno il razzismo si manifesta in continuazione. Per me, ragazzo di Falconara Marittina, provincia di Ancona, figlio di operai, la Polizia è stata la più grande delusione che potessi immaginare quando ci entrai a 20 anni, pieno di speranze su un’istituzione che, pensavo, avrebbe trattato tutti allo stesso modo”.

Romagnoli ha lavorato quasi sempre nel reparto della Polizia stradale di Milano “dove l’età media è molta bassa ed è considerato uno dei più tranquilli per il tipo di attività che si svolgono”. 

“Il 90 per cento delle persone che indossano la divisa e che ho incontrato hanno un’ideologia neofascista che nessuno nasconde – afferma -. Anzi:  dal saluto ‘Ciao camerati’ ai colleghi al mattino all’esibizione di tatuaggi o simboli sulla cintura  riferibili a quell’ideologia, è una continua ostentazione. Quando si parla di servizi da fare, è facile sentirsi suggerire: “Passa anche da quel posto, così dai fastidio a quei marocchini di m….”.

Gli atteggiamenti razzisti emergono in modo evidente quando si fanno i controlli in strada – prosegue -. Il cittadino comunitario viene affrontato con gentilezza, dandogli del ‘lei’, tutt’altro accade quando di fronte si ha un immigrato di colore. Su questo mi sono scontrato più volte coi colleghi. Nel primo caso, anche l’agente meno preparato si attiene a quello che è previsto dal codice. Saluta cordialmente, fa l’ispezione in auto, se perquisisce di sua iniziativa compila il verbale, negli altri casi tutto questo spesso non c’è. Buongiorno o buonasera non esiste come approccio, si chiedono subito i documenti e se la persona è irregolare una frase che ho sentito tante volte è: “Che cazzo sei venuto a fare in Italia?”. E se quello risponde che sta qui per lavorare partono commenti provocatori”.

Romagnoli sostiene che “per la mia esperienza di poliziotto e ora anche di avvocato, la maggior parte dei processi che si vedono tutti i giorni nelle direttissime per resistenza non hanno ragion d’essere. Il reato di resistenza viene contestato perché spesso parte lo schiaffo da parte del poliziotto quando l’immigrato, che magari sta da tanto in Italia e parla bene italiano, risponde alle provocazioni verbali difendendosi a parole. Capita che dopo lo schiaffo, l’immigrato reagisca e, come si legge sempre nei verbali, ‘spinge e scalcia cercando di allontanare l’operante’. Ma non è quasi mai lui a iniziare. Io in 16 anni sulla strada non ho mai visto un comunitario o un extracomunitario reagire alla Polizia. Mi sono capitati inseguimenti per centinaia di chilometri  e quando li raggiungi ti chiedono scusa e cercano di giustificarsi. Invece alcuni colleghi, dopo averli raggiunti, ci raccontavano di averli fatti ‘pentire’ con uno schiaffo quando l’atteggiamento giusto sarebbe stato invece ricordarsi che tu in quel momento rappresenti lo Stato e lo devi ammanettare secondo le procedure, delicatamente”.  

“In generale quando a essere fermata è una persona di colore ci si comporta con grande leggerezza. Ricordo una volta che in una stanza della caserma, dove erano in corso dei lavori di ristrutturazione, c’era per terra un secchio pieno della calce di cemento a cui un uomo di colore, fermato durante il servizio notturno, era legato con un gancio, utilizzato dagli operai. Certo non lo stavano torturando ma non era una modo di fare ortodosso, non si poteva vedere. Feci notare la cosa ai colleghi. In tanti ci erano passati vicino, era un servizio notturno, ma nessuno disse di nulla. Fosse stato un cittadino svizzero nessuno si sarebbe sognato di fare una cosa del genere. Un’altra volta, ho sentito dire da un collega questa frase, rivolta a un marocchino che stava fermando, presumibilmente musulmano: “Ti ammazzo e ti seppellisco dentro la pelle di porco”. Io in 16 anni non ho mai dovuto dare uno schiaffo o esplodere un colpo di pistola, eppure di arresti ne ho fatti molti. Nelle scuole di polizia l’istruzione che viene impartita, del resto,  è equilibrata e corretta. Quando mi guardo indietro penso: dovevano dirci queste cose ma sapevano poi che il sistema fosse diverso?”. 

Romagnoli parla anche della ‘tecnica’ col ginocchio sulla nuca che ha portato all’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto, sia nella sua esperienza in divisa che in quella con la toga: “Nei corsi di aggiornamento a Milano ci sono lezioni tecnico-operative tenute da un docente universitario di Scienze Motorie. Viene spiegato che quando si appoggia il ginocchio con tutto il peso del corpo sulla nuca ci si espone al rischio di provocargli delle lesioni. Questo viene detto come deterrente a usare questa tecnica, ma tra le possibili tecniche di bloccaggio di un individuo io non ho mai letto che c’è anche la possibilità di mettergli un ginocchio sulla nuca. Perché se ne parla allora? Qualche tempo fa a un mio assistito fermato in corso Buenos Aires è stata praticata questa mossa, sono in possesso di una foto che lo dimostra. Sul verbale è stato scritto che aveva fatto resistenza, ma, come detto, con questa contestazione di reato si può giustificare qualsiasi cosa. Forse sarebbe il caso di cambiare un sistema dove entri a 20 anni, ti fanno le visite psichiatriche e ti danno un’ arma che ti tolgono 40 anni dopo, senza mai averti mai più visitato in un lavoro che è a forte rischio di burn out”.

Di recente, Romagnoli ha fatto partire un’indagine da avvocato: “Ho denunciato alla Procura i carabinieri di Garbagnate per una perquisizione arbitraria ai danni di un algerino. L’ho fatto a titolo gratuito perché, conoscendo il sistema, non ho voluto farmi sfuggire l’occasione di mettere quello che chiamo il ‘granello’, un piccolo contributo per cercare di riparare a un’ingiustizia. Nella denuncia ho spiegato che questo ragazzo è stato fermato in strada e portato in caserma per essere identificato. E’ stato poi perquisito senza che ricorressero i requisiti di legge quando a perquisire è la polizia giudiziaria di sua iniziativa: presenza di droga, armi o flagranza di reato. Lo hanno denudato e gli hanno chiesto di accovacciarsi, dilatando le natiche. Gli hanno trovato le chiavi di casa, sono andati nel palazzo dove abitava e hanno provato la chiave su tutte le porte finché non hanno trovato la sua. Questo lo hanno scritto nel verbale, senza problemi. Alla fine dalla perquisizione domiciliare è saltato fuori un documento falso e l’hanno arrestato. È stato poi stato condannato a due anni di carcere. Un Italiano lo avrebbero mai fatto accovacciare?”.

Romagnoli dice di essere “convinto” della sua scelta di licenziarsi dalla Polizia: “Il rischio di assuefarsi in un contesto del genere è alto oltre a quello che ti sembri normale o addirittura giusto e inizi a chiederti se sei tu sbagliato. Mi ero laureato in Scienze Politiche per diventate commissario, ma intorno ai 35 anni ho capito che non era il posto per giusto per me. Per questo ho preso una seconda laurea e ora, come avvocato, voglio difendere chi non ha voce”.  

Contattato dall’AGI, Antonio Lanzilli, segretario della sigla sindacale Upl Sicurezza, nega le affermazioni di Romagnoli. “Da noi – dice – poco cambia se la persona fermata è bianca o nera. C’è sempre e comunque un’attenzione spasmodica alla sua incolumità. Nessun pregiudizio razzista, forse poteva esserci 30 anni fa. Anche parlare di sentimento neofascista è fuori dal mondo, non esiste una polizia più democratica della nostra che anzi ha il problema opposto di quella degli Usa dove la situazione è fuori controllo. In Italia scontiamo un deficit di eccessiva libertà della persona fermata che in parte viene risolto dall’introduzione del taser”. 

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Fonte: cronaca agi