Trump e la fetta di torta di TikTok


AGI – La fetta. La torta. Eccolo, il bagliore del ricordo, quel sapore di latte e biscotto che riaccende in un lampo le copertine dell’America disegnata da Joseph Christian Leyendecker, uno che con la matita e i colori (ri)faceva l’immaginario, l’artista che il grande Norman Rockwell prese come fonte di ispirazione e cercò di imitare, un tripudio grafico, con le nonne, le mamme, i bambini, le cicogne. E una fetta di torta. Semplice, americano.

L’ultima pensata di Trump fa parte del copione non ci posso credere perché è un’idea semplice, americana (fare soldi), ma piazzata come un macigno sulla strada di un affare complicato: se Microsoft acquista TikTok, il governo deve avere una fetta dell’incasso (“a substantial portion”, ha usato questa frase) perché la Casa Bianca ha operato nell’antica veste di sensale (con la Colt posata sul tavolo). E dunque l’esito finale del “deal” nella testa di The Donald è il seguente: io l’ho reso possibile e io decido come apparecchiare il tavolo.

Quattro punti da tenere a mente

La cosa nel videogame della Casa Bianca ha un livello di difficoltà alto, perché il problema non è il New York Times che scrive che Trump ha l’impulso a comportarsi come il “Ceo d’America” (cosa vera più o meno per tutti i presidenti in varie fasi dei loro mandati), ma il Wall Street Journal che ricorda un paio di fatti che l’amministrazione deve annotare sul taccuino:

1. È vero, come afferma Trump, che la vendita non sarebbe oggi sul tavolo senza l’intervento del governo e naturalmente l’amministrazione ha un’alternativa, lo shutdown di TikTok, la chiusura dell’entità cinese che raccoglie dati sugli americani;

2. È vero che in caso di salvataggi e operazioni d’emergenza il governo ha ottenuto i suoi benefici economici (pensate agli interventi durante la Grande Crisi del 2008), ma il compenso al Tesoro per la vendita di TikTok a Microsoft sarebbe un caso senza precedenti;

3. Trump spesso mischia la finanza con la politica, gli usi e costumi delle aziende con gli interessi dell’amministrazione, il flusso di denaro (che conta, sia chiaro) con le relazioni internazionali: il caso della spesa dei paesi alleati nella Nato, il pagamento del muro al confine sollecitato al Messico, la Cina che dovrebbe sanare pronta cassa lo squilibrio della bilancia commerciale (che in realtà è soprattutto figlio del declino storico della manifattura sul suolo degli Stati Uniti) e risarcire i contribuenti per i danni causati dal coronavirus, sono tutti esempi della  “dottrina Trump”;

4. Il riconoscimento di una quota dell’affare Microsoft-TikTok costituirebbe un precedente pericoloso per la libertà dei negoziati tra imprese, sarebbe una sorta di tassa sugli investimenti esteri e sulle aziende americane che per poter operare sono soggette ad autorizzazioni del governo (per esempio, il settore minerario, le licenze per le telecomunicazioni e i trasporti, etc.).

Sono pratiche da stato dirigista, da economia venezuelana, non da paese-guida del libero mercato.

La Dottrina Trump

Trump voleva chiudere TikTok, poi ha detto sì alla vendita, è probabile che dimentichi in fretta (tante sono le sue distrazioni, non stupirebbe) anche l’idea di passare all’incasso dell’assegno, ma il tema fa lampeggiare tutte le spie rosse nella sala comando della corazzata della business community americana. Microsoft e ByteDance hanno tempo fino al 15 settembre per chiudere la transazione, fino alla firma, tutto è possibile e bisogna tener conto delle future mosse di una sagoma per ora silente: Xi Jinping. A Pechino, com’è logico, non l’hanno presa benissimo, parlano le seconde file del partito, oggi il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin, ha definito così l’iniziativa della Casa Bianca: “Totale bullismo”.

Sul tavolo del risiko tra Stati Uniti e Cina resta il fatto che la Casa Bianca poteva bandire TikTok dagli Stati Uniti e The Donald ha aperto la porta della cessione, dunque via i cinesi di ByteDance con un assegno miliardario e dentro Microsoft che conquista 100 milioni di utenti negli Stati Uniti, un’occasione unica per ridisegnare la mappa globale dei social network, far venire il mal di testa a Mark Zuckerberg e ai fondatori di Google che finora hanno sbagliato il percorso di tutte le gite fuori porta dal monopolio del motore di ricerca. Basta dare un’occhiata alla copertina dell’edizione americana dell’Economist, dedicata alla crisi dell’età di mezzo di Google.

Il bivio di Mountain View

A Mountain View sono giunti a un bivio, il nuovo ordine del coronavirus non è solo un problema di Trump, ma dell’intera Corporate America. L’elemento positivo di questa storia è che il sì a Microsoft è arrivato a sorpresa, con un giro di giostra improvviso, una telefonata tra il ceo di Microsoft, Satya Nadella, e il presidente americano. Trump e Bill Gates si detestano (Gates lo ha fiocinato qualche giorno fa sulla gestione della crisi del coronavirus), ma la mossa ha una logica industriale forte, è un colpo che cambierà la mappa delle Big Tech.

È sempre il Wall Street Journal a ricordare l’evoluzione da velociraptor di Microsoft: in sei anni Nadella ha comprato la software house di Minecraft (2,5 miliardi), LinkedIn (26 miliardi), la piattaforma di programmazione collaborativa GitHub (7,5 miliardi), il fieno i cascina di centinaia di milioni di utenti, un’impresa nuova, contemporanea. C’era una volta Windows (e c’è ancora) ma oggi c’è soprattutto un gigante del cloud computing che sta per lanciare una sfida a Facebook, la scalata alla montagna del social newtwork.

In un mondo dominato dall’oligopolio, i repubblicani hanno detto a Trump che questo fa bene alla concorrenza, è un esempio di “America First” – contro la Cina, nel momento in cui si diffonde il “virus cinese” (Trump dixit) – da sventolare in campagna elettorale. Questa è la vera fetta di torta sulla tavola di Trump, per le casse del Tesoro non cambia niente.

La campagna elettorale si nutre di occasioni, procede per tutti in modo erratico, irregolare. Trump è ovunque in maniera spesso confusa, cerca di beccare e schiacciare tutte le palle che s’aggirano sulla sua parte del campo da gioco. Joe Biden ha scelto un’altra strategia, si è immerso sott’acqua, non si fa beccare quasi mai dal sonar, di fatto lascia che siano il coronavirus e la crisi economica a logorare Trump.

America 2016 fu il colpo di un outsider, un imprevisto; America 2020 è uno scenario inedito con un uomo che è pre-visto, come il suo sfidante, Joe Biden, uno che è stato senatore del Delaware senza sosta dal 1973 al 2009 e vicepresidente con Barack Obama dal 2009 al 2017. Nessuno dei due candidati appare in perfetta sintonia con l’orologio della storia. Trump lo era nel 2016, senza alcun dubbio, ma oggi?

Nelle pagine di “White” – elettrico libro-diario-confessione, un gioiello letterario  – Bret Easton Ellis ricorda che Trump faceva già Trump negli anni Ottanta: “Avevo fatto di Donald Trump l’eroe di Patrick Bateman in “American Psycho” e condotto ricerche su diversi suoi modi odiosi di fare business, sul modo disinvolto e sfacciato che aveva di mentire, su come aveva fatto di Roy Cohn il suo mentore, sui sospetti di razzismo che non dovevano necessariamente essere fuori luogo in un uomo della sua età e appartenenza demografica.(…) Quei giovanotti, i tizi di Wall Street con cui ero uscito per le ricerche iniziali, erano affascinati da lui. Trump era una figura di riferimento, cosa che mi turbò nel 1987, nel 1988 e nel 1989, ed è il motivo per cui è citato più di 40 volte nel romanzo. È lui l’ossessione di Bateman, il papà che non ha mai avuto, l’uomo che vorrebbe essere”.

La nuova partita a poker

Letteratura? Niente è più profetico dell’arte del romanzo. E della nostra grande sorella, la televisione. Quando conduceva lo show Apprentice (dal 2004 al 2017, fu un grande successo che lo lanciò come figura perfetta per la presidenza di un’America in fase distopica) Trump licenziava come un fulmine i concorrenti (“You’re Fired!”), il suo carattere da Mangiafuoco era “esposto”, visibile sullo scaffale del centro commerciale America.

Quando è arrivato alla Casa Bianca, Trump ha continuato a vestire i panni del tagliatore di teste di ministri, aiutanti di campo, caddies della politica; pur avendo scritto un libro sull’arte del “deal”, dallo Studio Ovale ha fatto partire una tempesta di porte girevoli e tavoli rovesciati, una rissa da saloon (dove naturalmente si spara anche sul pianista), un dentro e fuori buono per un film di Mel Brooks; in un’estate pazza (che ora ci sembrerebbe quasi “normale”) ha incrociato i missili di Kim jong-un sul Pacifico e ha ingaggiato una quasi-guerra sul tema del chi aveva “il pulsante più grosso” (tutto vero), poi una notte deve averci ripensato, è andato a fare una passeggiata al confine tra le Coree con il dittatore più scafato del mondo (Kim s’è fatto l’atomica per non fare la fine di Gheddafi e Saddam) ma dopo un po’ di tira e molla diplomatico ha di nuovo appiccato il fuoco al suo caratteraccio e con “l’amico Kim” ci ha litigato; ora tiene aperta una partita a poker tra gli imperi del container con il glaciale gambler Xi Jinping, un tipo che ha lo sguardo affilato di quello che sta al tavolo in una bisca di Macao e ha un altro mazzo di carte nella manica.

Tempestato dalla pioggia di asteroidi del coronavirus , rovinato dai sondaggi (come nel 2016, per questo occorre prudenza nel darlo per sconfitto), con l’ombra di una catena di fallimenti di piccole e grandi aziende alle porte, tenuto ancora in vita da Joe Biden a cui hanno consigliato di comparire sulla scena il meno possibile, Trump ha rimescolato la squadra della campagna elettorale e ripreso il suo gioco ad alto voltaggio, crea un nemico al giorno (e i nemici non gli mancano), fa il piccolo chimico sull’erba con la nitroglicerina e la racchetta in mano, attende l’occasione per mettere a segno il match point. Mancano ancora molti giorni al voto del 3 novembre, il problema è che il tempo oscilla come un pendolo tra il troppo e il troppo poco, la fetta di torta della Casa Bianca è là sul tavolo, una tentazione e un memento, l’orologio dell’America anche per lui fa TikTok.

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Fonte: estero agi