"Sulla strage di via D’Amelio non si è indagato abbastanza a fondo"


AGI – Le indagini sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio del 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, “non possono ritenersi complete” perché “non risultano avere esplorato e approfondito dei temi investigativi di particolare interesse, alcuni dei quali già noti al momento della formulazione della richiesta di archiviazione, altri sopravvenuti e divenuti ‘fatti notori'”.

Questa la motivazione che ha spinto il gip del tribunale di Caltanissetta Graziella Luparello a respingere la richiesta di archiviazione, avviata dalla procura, dell’indagine contro ignoti sui presunti mandanti esterni e a sollecitare una nuova attività istruttoria, da completare nell’arco di 6 mesi, tra acquisizioni di documenti e interrogatori, “procedendo se necessario a nuove iscrizioni nel registro degli indagati”.

Obiettivo dei prossimi accertamenti è capire, una volta per tutte, se la strage di via D’Amelio, e quindi anche quella di Capaci, ha visto la partecipazione o meno di personaggio estranei a Cosa Nostra, eventualmente appartenenti a istituzioni deviate.

Si tratta di accertamenti di ampio respiro che dovranno approfondire, in particolare, il tema della “interazione tra associazioni mafiose, destra eversiva, servizi segreti e massoneria”, come emerge a più riprese dagli atti del processo per la strage alla stazione di Bologna (2 agosto 1980) e di quello alla cosiddetta “‘Ndrangheta stragista“, in corso a Reggio Calabria.

Nell’ambito di questo “mutuo soccorso stipulato tra mafia ed eversione di estrema destra” si colloca, anzitutto, l’omicidio del 6 gennaio 1980 a Palermo del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, “che aveva assunto un atteggiamento intransigente rispetto al fenomeno delle collusioni tra mafia e imprenditoria in materia di appalti pubblici” e che correva per la vicepresidenza nazionale del Partito.

Un delitto che ha visto la condanna dei mandanti mafiosi mentre dell’esecuzione dell’omicidio vennero imputati “e poi assolti con motivazione discutibile”, evidenzia il gip, alcuni esponenti della estrema destra eversiva appartenenti ai Nar. Della compenetrazione tra pista nera e pista mafiosa aveva parlato già Giovanni Falcone il 3 novembre del 1988 davanti alla Commissione parlamentare Antimafia, audizione desecretata addirittura solo nel 2019.

Per il gip Luparello merita, anzitutto, un approfondimento la figura di Paolo Bellini, esponente di Avanguardia Nazionale, indicato quale infiltrato nel biglietto di addio lasciato dal mafioso Antonino Gioè, coinvolto nella strage di Capaci e morto suicida in carcere (con modalità che il gip definisce “strane”, perché avvenuto nei 20 minuti in cui all’agente preposto alla sorveglianza fu ordinato di allontanarsi). Altro aspetto da valorizzare è “l’accertata partecipazione di Pietro Rampulla, appartenente al clan Santapola e neonazista di Ordine Nuovo, capeggiato da Pierluigi Concutelli, alla strage di Capaci nella veste di artificiere“.

E ancora: “Intersecando gli elementi offerti dalla sentenza di condanna di Bruno Contrada (già capo della Mobile di Palermo e numero 3 del Sisde, ndr) con quelli che emergono dalla sentenza sull’omicidio dell’agente Antonino Agostino (1989) si sostanzia la tesi che per un dato periodo storico, la Questura di Palermo e il Sisde potrebbero aver allevato, al loro interno, un nucleo operativo trasversale occulato, che potrebbe avere avuto un ruolo importante sia nella morte di Agostino e del poliziotto Emanuele Piazza (1990) sia nelle stragi di Capaci e via D’Amelio”.

Ma c’è altro su cui la procura di Caltanissetta dovrebbe lavorare e cioè la questione, di cui ha parlato in una intervista l’avvocato Fabio Repici, parte civile per conto della famiglia Borsellino, relativa a una intercettazione di una conversazione avvenuta tra poliziotti della ‘squadra Contrada’, da cui si ricaverebbe che Concutelli (che uccise a Roma nel 1976 il giudice Vittorio Occorsio che indagava sull’eversione di estrema destra) si addestrava al tiro in un poligono frequentato anche da poliziotti e mafiosi.

E Nino Agostino era diventato “il testimone scomodo della contiguità di alti funzionari della polizia e dei servizi sicurezza con i mafiosi del mandamento di Resuttana, cioé quello di Nino Madonia, il suo killer”. Ultimo livello investigativo “da sondare”, secondo il gip, è quello relativo alla eventuale presenza, nella filiera stragista, “di un anello, di carattere politico, individuabile in un personaggio o in un partito politico che potrebbe aver concorso a definire la strategia della tensione, allo scopo di legarsi, in un reciproco ‘do ut des’, a Cosa Nostra e attingere al bacino elettorale che, debitamente orientato dalla organizzazione mafiosa, era appartenuto a quella Dc con cui Toto Riina aveva chiuso ogni finestra di dialogo”.

Ecco perché, a parere del giudice, va approfondito anche il capitolo riguardante l’eredità politica raccolta da Forza Italia e la necessità, sollecitata da Riina, di appoggiare gli onorevoli Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, tirato in ballo in tante dichiarazioni processuali da Giuseppe Graviano che ha fatto riferimento alle cointeressenze economiche che la sua famiglia avrebbe poi avuto con il futuro premier. 

Source: agi