Studiare la storia a scuola: questione di identità


di Giovanni Cominelli

La settimana scorsa il Ministro del MIM Giuseppe Valditara ha nominato una Commissione, con il compito di revisionare le “Indicazioni nazionali per il curricolo della Scuola d’infanzia e del Primo ciclo di istruzione”, un malloppo di 68 pag. in PdF, del 2012.

Ha presentato la Commissione con motivazioni semplici: ridurre, a vantaggio di una migliore qualità, la quantità di nozioni, che vengono somministrate quotidianamente ai nostri ragazzi mediante l’imbuto di Norimberga.

Quale coordinatrice della Commissione ministeriale è stata nominata Loredana Perla, docente di Didattica e Pedagogia speciale all’Università di Bari e, ultimamente, coautrice insieme a Galli della Loggia di un libretto intitolato “Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo”.

Il libro sostiene che ”se la scuola deve servire a formare buoni cittadini, per essere pedagogicamente efficace dovrebbe affrontare soprattutto quegli aspetti che agli occhi dei bambini e degli adolescenti rivestono una immediata familiarità e importanza: l’Italia, la sua storia, la sua geografia, la sua cultura. In una parola, la sua identità”.

Ora, molti pedagogisti, quando sentono questa parola, mettono mano alla pistola, solo ideologica, si intende, perché associano “identità” a razzismo, a rifiuto della diversità, a etnicismo, a intolleranza.

Leggi “identità”, ma pensi Meloni, anzi, peggio, Salvini. La storia, si dice, è innanzitutto umana, è fatta di molte culture, tutte legittime, tutte eguali. Sotto la superficie delle culture sta l’individuo universale, quale che sia il cielo sotto cui vagisce.

D’altronde le Indicazioni del 2012 parlano chiaro: “Il curricolo sarà articolato intorno ad alcuni snodi periodizzanti della vicenda umana quali: il processo di ominazione, la rivoluzione neolitica, la rivoluzione industriale e i processi di globalizzazione e di mondializzazione”.

Risultato, i nostri ragazzi sanno districarsi perfettamente tra le numerose specie di dinosauri e di ominidi, sanno leggere una tavoletta di Ebla, sanno leggere l’accadico e il sumero – assai meno in Italiano – ma ignorano chi sono i Micenei e non sanno che Milano è stata fondata dai Celti e che il nome del fiume Serio – in dialetto “Sère” – che nomina anche la Valle Seriana – è parente filologico stretto dei celtici Isère, Saar, Isar… Insomma, ignorano la storia e la civiltà del luogo dove sono nati, non conoscono la storia d’Italia.

Identità e storicità

Gli storici Francesco Remotti e Antonio Brusa hanno fatto notare la contraddizione che si creerebbe tra un curricolo di Storia identitario, imputato ai desideri di Ernesto Galli della Loggia e di Loredana Perla, e un curricolo cognitivo/scientifico, che, secondo le Indicazioni nazionali sarebbe l’unico in grado di garantire la comprensione della società, del quale tutti i cittadini devono essere dotati: “Trasformare la storia da disciplina di studio a strumento di rappresentanza delle diverse identità rischia di comprometterne il carattere scientifico e, conseguentemente, di diminuire l’efficacia formativa del curricolo”.

Qui la discussione fa un salto quantico: dall’orbita della didattica della Storia a quella psico-socio-antropologica. Come si costruisce l’identità di un individuo, gettato a caso nella storia del mondo? Come prende coscienza della propria “Geschichtlichkeit”? Non astraendosi dalla storia.

Tra identità e storicità non c’è contraddizione, poiché l’identità è un’autocostruzione del Sé, fatta con i materiali costituiti dai legami, dall’appartenenza, dalle relazioni, dal territorio, dalla comunità dove si è venuti al mondo. Cioè: l’identità è fatta di storia. Tuttavia non vi si riduce.

La libertà dell’individuo trascende ogni contingenza, ogni situazione determinata, non è mai totalmente assorbita dalla sua storicità. Questa trascendenza è il motore della storia umana.

Sì, la libertà accomuna tutti gli esseri della specie, è il lato universalistico dell’identità. Non è tuttavia necessario flirtare con la dialettica hegeliana per prendere atto che identità concreta e universalità dell’umano si tengono, che la trascendenza della libertà individuale regge solo se muove dall’immanenza dell’identità, che è la radice e la pedana da cui la libertà fa il salto verso l’Oltre.

Ne consegue che un individuo può/deve avere una Patria, senza che questa entri in conflitto con le Patrie altrui sotto gli altri cieli del pianeta. E che, dunque, per tornare all’orbita pedagogico-didattica, il bambino ha bisogno di rendersi conto del proprio ambiente, del proprio territorio, della propria patria, della propria storia per muovere verso il mondo, verso il pianeta.

Sì, certo, anche per tornare indietro fino a quei dinosauri, la cui scomparsa involontaria ha favorito l’insorgenza della nostra specie. Mai asteroide fu così provvidenziale! Ma oggi il rischio antropologico che corrono i nostri ragazzi è lo sradicamento da ogni appartenenza, e quindi il non sentirsi impegnati con niente e nessuno, perciò neppure verso di sé e quindi irresponsabili verso gli altri e verso di sé, free -floating in un universo virtuale fasullo.

Perché la sinistra pedagogica e politica diffida dell’identità e della Patria? Solo perché il Fascismo e il Nazismo ne hanno fatto un uso tragico e catastrofico? Forse perché è ancora condizionata dall’internazionalismo del Movimento operaio – proletarizzazione dell’Illuminismo settecentesco – che oggi si è trasformato in internazionalismo dei diritti e, per eterogenesi dei fini, in individualismo assoluto, sul quale si sta edificando una torre di Babele di diritti che si innalza verso il cielo, finché non rovinerà addosso a tutti noi, in una conflagrazione di conflitti individuali, sociali e nazionali.

Serve una Commissione di indagine sull’insegnamento della Storia

Che dire della Commissione ministeriale? Il palazzo di Viale Trastevere nasconde nei suoi sotterranei la necropoli di molte Commissioni. Se la Commissione appena istituita non volesse fare la stessa fine, dovrebbe funzionare come “Commissione di indagine sull’insegnamento della Storia nella Scuola italiana”.

Dovrebbe fare carotaggi in profondità nel sistema, andare ad ascoltare i Collegi dei docenti, i Consigli di classe, al Nord, al Centro, al Sud, dei vari ordini di scuole e dei vari indirizzi. Servirebbero, pertanto, mezzi di indagine scientifici, quantitativi e non solo chiacchiere qualitative, e pertanto studiosi e ricercatori di sociologia dell’istruzione piuttosto che pedagogisti e ideologi.

E nel mirino di questa inchiesta dovrebbero entrare anche le Case editrici, che scrivono nei loro libri di testo le reali Indicazioni nazionali, cioè i Programmi, assai più delle Commissioni ministeriali, assai più dei Ministri e assai più dei docenti.

Le Indicazioni, gli orientamenti ministeriali, i progetti di riforma passano attraverso tre spessi filtri: la burocrazia ministeriale centrale, regionale e provinciale, gli ottocentomila docenti, le decine di Case editrici. Nessun Ministro finora è mai andato a vedere quale rigagnolo arrivi dell’acqua versata dall’alto.

Eppure, prima di abbozzare riforme globali o riforme puntiformi, riguardino esse i contenuti dei saperi, gli ordinamenti o gli assetti di governance, sarebbe opportuna una conoscenza scientifica del sistema di istruzione. Sennò una Commissione a cosa serve?