Di Daiana De Luca (Responsabile Comunicazione Confedercontribuenti)
Il 19 Luglio di ventotto anni fa era, come oggi, una Domenica consueta… Di una inconsueta estate.
La Sicilia, solo 57 giorni prima, era stata infatti squarciata dal tritolo in quel di Capaci, causando, come in autostrada, una profonda voragine colma di paura e rabbia. Il 23 Maggio la Mafia aveva deciso di ribadire, ancora una volta, la sua prepotenza, nel modo più vile di imporsi: la violenza.
Con la morte del Dott. Giovanni Falcone, della moglie, la Dott.ssa Francesca Morbillo, e degli agenti della scorta, tutti… Grandi, bambini, civili, rappresentanti delle istituzioni, capirono che qualcosa in Sicilia, da allora, sarebbe cambiato per sempre: il modo di contemplare il fenomeno mafioso. Ricordo ancora le parole della vedova Schifani, ai funerali di Stato organizzati per commemorare i “morti” di Capaci (uso le virgolette perchè le idee di legalità del Giudice Antimafia e di chi credeva in lui vivono oggi più forti e consapevoli che mai nella gente); straziata dal dolore, in lacrime, Rosaria Costa chiedeva, dal pulpito, ai mafiosi presenti di inginocchiarsi e convertirsi: gli chiedeva di cambiare…
Ricordo una inquadratura televisiva del volto contrito di Paolo Borsellino, toga sulle spalle ed espressione rassegnata: quello sguardo spento non lo dimenticherò mai. La Palermo della gente semplice, dei giovani dagli ideali onesti e dei ragazzi di strada con la voglia di cambiare il mondo, era lì in quella piazza piovosa e stracolma di persone che gridavano “Fuori la Mafia da Palermo, fuori la Mafia dallo Stato”. Qualcosa nelle coscienze stava già cambiando…
Nel mio piccolo paese di Mafia non si parlava, e purtroppo non si parla neanche adesso; c’era un famoso modo di dire che “chi si fa gli affari suoi campa cent’anni”… Io, devo ammettere, sono sempre stata curiosa e chiacchierona e cercavo risposte ai miei dubbi di bambina (avevo sette anni appena)… Le cercavo nei telegiornali, negli approfondimenti giornalistici, nel conforto dei miei genitori… La mafia è la causa e la legalità il rimedio. La Mafia è la causa delle infrastrutture incomplete e pericolose, della corruzione, della collusione; la mafia è la causa della disperazione, del dolore che affligge questa terra martoriata e sfruttata da chi, invece, dovrebbe solo amarla; la mafia è la causa della bocca che non parla, degli occhi che non vedono e delle orecchie che non sentono; è causa della meritocrazia che non riesce a farsi spazio. La mafia è oppressione.
Mi sono più volte chiesta come Paolo Borsellino abbia vissuto quei 57 giorni che lo separavano dalla sua morte… Voi no? Ho sempre provato ad immaginare quali sentimenti provasse la notte (che si sa… é di notte che i pensieri diventano indomabili). Già, perché se Giovanni Falcone la morte per mano della mafia era una mera possibilità, per Paolo Borsellino, dopo l’uccisione dell’amico e collega, era diventata una certezza.
“A Palermo è arrivato il tritolo per me”… Chissà come si vive con questo pensiero pervasivo!? Eppure il Giudice continuò il suo lavoro assiduo, costante ed ininterrotto… Aveva poco tempo e lo sapeva. “Paolo era appoggiato ad una colonna del Chiostro della Chiesa di San Francesco, era appena finita la messa del trigesimo di Giovanni, mi disse:”State calmi perchè sto cercando di arrivare. State tranquilli, ci riusciremo” ( testimonianza di Maria Falcone, sorella del Giudice Giovanni).
Pare che il Dott. Borsellino avesse implorato, in quei giorni, di essere ascoltato dalla Procura di Caltanissetta “per dare il suo contributo, ancora una volta, alla lotta alla mafia (ndr), eppure non se ne trovo’ il tempo”. Mentre scrivo mi pervade una sensazione di estrema solitudine… E chissà che proprio la solitudine non fosse il sentimento dominante nel Giudice Antimafia in quegli opprimenti 57 giorni.
Poche ore prima della sua morte, Paolo Borsellino aveva cercato di rispondere ad una lettera che gli era stata inviata da una studentessa di un liceo veneto:”Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale”.
Quella Domenica di caldo e sole di ventotto anni fa ha cambiato l’approccio alla vita di tantissime persone, me compresa. Una nuova paurosa esplosione spezzava il silenzio di quell’afoso pomeriggio palermitano ed il frastuono echeggio’ fino a Catania (in senso figurato, s’intende), scombussolando le giovani e meno giovani esistenze che da quel momento in poi decisero di non restare più indifferenti al fenomeno mafioso. Come Borsellino, i siciliani onesti decisero di sovvertire un comune modo di agire, rifiutandosi di piegarsi alla logica del “Santi in Paradiso”. Il Dottore Caponnetto, magistrato, giunto in via D’Amelio pochi minuti dopo la Strage, scolvolto dall’accaduto, così commentava:”È finito tutto”. Quel che il Dottor Caponnetto mai poteva immaginare è che da quel momento storico in avanti, di Mafia si parebbe parlato ‘ tra i giovani, sempre più incessantemente, e tra i giovani nascesse quel “movimento culturale” uguale e opposto a Cosa Nostra: la rivincita sociale dei giovani della “legalità”.
Nel 2013, prima di laurearmi in Giurisprudenza all’ università di Catania, mi recai a Palermo, in via D’Amelio, e li scrissi un biglietto che adagiai sulla base dell’albero che ricorda quella strage così vile… “Più del tritolo hanno fatto l’inerzia le omissioni e la negligenza”.