AGI – Pare che il primo ad accorgersene, che era arrivato miracolosamente intatto in Italia contro ogni previsione ed ogni auspicio dei soliti filoamericani, fosse il Rossetto, che lavorava nel pioppeto del Ferotti. Volse l’occhio verso li fiume e vide luccicare qualche cosa.
Quindi era vero: che sarebbe sceso salvifico sulla Terra; che si sarebbe fatto parte del destino dell’Uomo; che si sarebbe manifestato, ma solo a aveva occhi per vedere.
Strana storia, quella dello Sputnik in Italia, perché se c’è stato qualcosa di sinceramente percepito come simbolo delle immense potenzialità della scienza umana, questa cosa non è mai stata l’Apollo sulla Luna o la penicillina di Fleming, ma questo strano oggetto dallo strano nome.
L’una cosa e l’altra, la forma e la denominazione, oggi assumono un peculiare carattere; quindi è bene soffermarci un attimo sulla faccenda.
L’Urss aveva grandi fisici, negli anni ’50, ed oggi ha degli eccellenti medici e biologi. Quindi nessun intento denigratorio da parte nostra: al contrario. Però fa specie che al vaccino che Mosca ora dà, ora promette ad amici o potenziali tali si attribuisca il nome di un congegno sferico con tante antenne, che immancabilmente richiama il virus butterato nella sua forma di corona.
Un esperto di marketing avrebbe evitato la gaffe. Come avrebbe evitato anche quel nome, se il vaccino fosse stato, come in effetti è, destinato anche alla Penisola.
“Sputnik”: d’accordo, in russo vuol dire compagno di viaggio e l’idea è seducente. Sa di uscita dall’emergenza. Ma in italiano il nome, con quella doppia consonante dentale-nasale nel bel mezzo, suona male.
Provate a soffermarvi sulla prima metà, e capirete che l’unico motivo per cui non storciamo letteralmente il naso nascosto sotto la mascherina è che, anglofoni come facciamo finta di essere, ormai diciamo “droplets” quando intendiamo sputacchi, quelli che volano nella parte bassa dell’etere anche una mezzora e ci portano il contagio.
Insomma, le sembianze sono quelle del virus, il nome richiama il suo principale vettore. L’esperto di marketing inorridirebbe.
Vittoria ineluttabile
E invece no: il nome funziona a dispetto di se stesso e della sfera di alluminio in cui è avvolto. Perché lo Sputnik è, era ed è stato almeno per una buona parte di noi il simbolo di una realtà alternativa.
Una narrazione tutt’altro che sovranista, anzi intrisa di internazionalismo. Ciononostante alternativa a tutto: al sentito dire, al conosciuto, al certo. Procediamo con ordine.
Era la notte tra il quattro e il cinque ottobre del 1957 quando Frank Donahue, marconista della stazione radioricevente di Riverhead a Long Island, captò uno strano messaggio. Beep-beep. Ai suoi superiori prese un colpo: ai superiori dei superiori, ai superiori dei superiori dei superiori fino ad Ike Eisenower, che sedeva alla Casa Bianca. I russi ci erano riusciti.
Avevano spedito una sonda nello spazio che ora li salutava con il suo marameo che voleva dire: ci avete sopra la testa, possiamo colpire quando vogliamo. Tutto il resto nacque da lì: la prima Distensione, il Muro di Berlino, il vertice di Vienna e la crisi dei Missili di Cuba.
Persino un Krusciov che andava in America per litigare di fronte ad una cucina componibile con un giovane Richard Nixon, e tornava anni dopo a togliersi la scarpa per picchiarla sul bancone delle Nazioni Unite. Persino l’Apollo sulla Luna, in fondo, nacque per reazione allo Sputnik.Come se fosse stato un vaccino che, per l’appunto, una reazione salutare provoca in un corpo indebolito.
Soprattutto fu la rivincita di quanti, in Italia ma non solo, giuravano e stragiuravano sull’ineluttabilità della vittoria del modello sovietico su quello decadente del capitalismo. Migliaia di discussioni venivano troncate con la provocazione “E allora, lo Sputnik?”. Milioni di manifesti vennero stampati per salutare il soprasso tecnologico. Decine di milioni di volte quel nome rimbalzò sui giornali, sulle radio e quelle che all’epoca erano le prime televisioni.
Sputnik, Sputnik, Sputnik. Non esiste solo l’Occidente, esiste una realtà, per l’appunto, alternativa. A Togliattigrad la Fiat fabbricava una berlina, e Sputnik la chiamava: molto meglio della Seicento.
L’Italia, che aveva al suo interno il partito comunista più sostanzioso ad ovest della Cortina di Ferro, a questa pressione era particolarmente sottoposta. Lo è in qualche modo anche oggi che, senza entrare nella quotidianità politica, la Russia non più Urss continua ad esercitare un qual certo fascino, anche se non più dalle parti delle Botteghe Oscure.
La cronaca di quegli anni e degli anni successivi ci racconta che, per lo stesso Cremlino, lo Sputnik divenne quasi una mania, un marchio da adattare ad ogni circostanza e ad ogni situazione. La sonda non rientrò a terra, bruciandosi nell’impatto con l’atmosfera. Lo Sputnik 2 fece lo stesso, ed aveva a bordo una cagnetta sacrificata nel nome della scienza, Laika. Lo Sputnik 3, poi il 4, il 5, il 6 fino ad arrivare (ma il computo è della Nasa) a 11. A bordo, di volta in volta, cani, topi, manichini e piante.
Ma Fidel Castro non lo vuole
Si sa chi vinse, alla fine, la corsa allo spazio, ma il nome restò come sinonimo di affermazione, e come tale hanno continuato a usarlo. Per dirne una: Bubka che si staccava da terra volando con l’asta, così lo ribattezzarono.
Ancora nel 1985 il Ferrini, prototipo profetico e immaginifico del leghista che guarda al Cremlino, dal salotto di Casa Arbore prevedeva centinaia di Sputnik in grado di annunciare la vittoria delle sinistre alle elezioni di quell’anno, che invece sarebbero finite come la corsa allo Spazio.
E Aldo Tortorella, della direzione del Pci, commentava di fronte a quattromila comunisti che occupavano gli spalti del Teatro Tenda di Roma: “Anche da Arbore ci sfottono. Prendono in giro un’immagine di noi comunisti che noi credevamo morta e sepolta, eppure fa ridere, compagni. E’ l’immagine del comunista di vecchio stampo che legge la rivista ‘Unione Sovietica’, e io vi giuro che non so neppure se esista o no”.
Si era così esaurita, con la citazione di una rivista, l’orbita propagandistico-spaziale del pallone di alluminio che nemmeno Yashin sarebbe riuscito a parare. A mo’ di dimostrazione, e per restare in tema di riviste: Gorbaciov ne battezzò una, guarda caso, Sputnik per propagandare il verbo della Perestrojka.
Honecker e Fidel Castro non la facevano nemmeno entrare a Cuba o nella Ddr, e tutti capirono allora come sarebbe andata a finire. Cioè che con l”89 un cosmonauta sovietico sarebbe rimasto mesi e mesi in orbita in attesa di rientrare, ma a terra le cose erano saltate anch’esse in aria e nessuno si voleva prendere la responsabilità di dirgli “scendi”.
Quanto a Gorbaciov, portò lo Sputnik vero a Milano nel 1990, in un estremo tentativo di salvare il salvabile con un viaggio nel paese dove più esso era stato amato. Venne esposto a Palazzo Reale, accanto a un Caravaggio dell’Ermitage, ma la cosa finì lì. Gli italiani erano ormai disillusi, e forse già lo erano dal giorno in cui il Rossetto che lavorava nel pioppeto del Ferotti aveva visto luccicare qualche cosa.
Corse ad avvertire, la cosa girò e sull’argine del Grande Fiume finirono a confrontarsi due squadre: entrambi volevano lo Sputnik caduto dal cielo. Si rischiava il morto, e allora Don Camillo disse a Peppone: “Te lo lascio”.
Peppone si chinò a terra, tirò e in mano gli restò un fondo di damigiana dipinto d’argento, con tanto di stella rossa. Ce l’aveva messa il figlio del Ferotti, insieme a Libero l’ultimogenito del Sindaco, per vedere se qualche tonto ci sarebbe cascato.
C’erano cascati in due.
Source: agi