di Danilo Di Matteo
In seguito al crollo del Muro di Berlino, nel 1989, il campo della sinistra riformista assunse due posizioni dissimili. Alcuni, lungo il solco del pensiero di Ralf Dahrendorf, ritennero che l’implosione dei Paesi del cosiddetto socialismo reale avrebbe comportato anche la fine della socialdemocrazia occidentale e che il confronto, da lì in avanti, sarebbe stato tra destra liberale e sinistra liberale. Per altri, come Giorgio Napolitano, si trattava di accelerare l’approdo socialdemocratico del grosso della sinistra e, in Italia, del Pci. Entrambe le prospettive si sarebbero rivelate parziali, incomplete. Negli anni successivi, infatti, il confronto non si svolse affatto tra liberali di sinistra, più attenti alla globalizzazione dei diritti, e di destra, preoccupati soprattutto di globalizzare i mercati. Emersero piuttosto forze, pulsioni, spinte demagogiche, populiste o variamente sovraniste, volte a contrastare la stessa distinzione classica tra destra e sinistra o a riaffermare le ragioni di una destra illiberale. D’altro canto, gli stessi soggetti socialdemocratici incontrarono difficoltà crescenti e ai successi, provvisori, della Terza via britannica o del “Nuovo centro” tedesco seguirono disfatte o battute d’arresto, nel quadro più generale della crisi dell’“utopia concreta” socialdemocratica del dopoguerra. Si pensi, per dirne una, alla fine ingloriosa dei socialisti francesi.
Napolitano, in realtà, aveva coniugato l’orizzonte della socialdemocrazia con quello volto all’affermazione di un’Europa federale, nel solco di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Alcuni osservatori, addirittura, provarono a interpretare in chiave psicologica il suo slancio europeista: venuto meno il mito dell’Unione sovietica, affermavano, egli l’avrebbe sostituito con quello dell’Unione europea. Non di un’ossessione si trattava, in verità, e neppure di un’idealizzazione: era una lettura corretta della situazione, una comprensione anticipatrice degli eventi, una visione fondata sui fatti. Le socialdemocrazie e i laburismi, sia quelli più innovatori sia quelli conservatori, perdevano in quanto non riuscivano a trascendere la scala nazionale. Nonostante le suggestioni e le chimere dell’Ulivo mondiale, non nasceva alcun vero, grande soggetto liberalsocialista propriamente europeo. Ciascuno continuava a coltivare il proprio orticello, come era già accaduto durante la Grande guerra, ma in un mondo ormai globale. E ancor oggi manca una forza europea, articolata nei vari contesti nazionali e regionali, un vero grande soggetto socialista, liberale, democratico, riformista, federale e di popolo, che si ponga come erede delle socialdemocrazie nazionali. Ecco dov’è lo scacco. Ed ecco la lezione feconda di Napolitano alla mia generazione: oggi la socialdemocrazia o è europea o non è. Non vi è un demos europeo, ma la politica e il riformismo di popolo dovrebbero superare tale limite; almeno provarci. Altrimenti quella che è comunque una strettoia diviene un vicolo cieco. Occorre sfidare le contraddizioni, le strettoie, appunto, le aporie per dare anima e corpo allo spazio europeo.
Un’altra lezione, poi, Napolitano consegna alla mia generazione e alle successive. Non ci si può dare un’identità limitandosi al prefisso ex o post. Non ha molto senso definirmi ex comunista o post-comunista, pur di definirmi. Piuttosto ha senso porsi, ad esempio, come eredi del Pci lavorando per un approdo socialista democratico e liberale. Per un approdo autentico.