AGI – “Quando penso a tutto il trauma e il dolore che ho dovuto vivere a causa della guerra, credo che solo le azioni che ho compiuto mi hanno fatto sentire che ne è valsa la pena”. Sono passati 10 anni dall’inizio della guerra in Siria. Ne parliamo con Zaina Erhaim, giornalista siriana e femminista, che ha insegnato a centinaia di donne a raccontare il conflitto, aiutandole nella loro condizione e che ogni giorno continua a informare sul suo Paese anche attraverso il suo account Twitter @zainaerhaim. Erhaim è ospite di Internazionale a Ferrara, il festival del settimanale, sabato 13 marzo alle 18 in diretta streaming sulla pagina facebook della rivista.
Nel 2013, sei tornata in Siria per aiutare a documentare la rivolta in corso. Quando e perché hai preso questa decisione?
In realtà non ho mai programmato di lasciare la Siria: nel 2010 ho ottenuto una borsa di studio in giornalismo a Londra, la mia intenzione era di andare tornare. Mentre cominciava la rivolta e alcuni dei miei amici più cari venivano arrestati, ho trovato un lavoro con la BBC. Ma dopo un anno, mentre i ribelli detenevano la Siria settentrionale ho deciso di tornare, non appena sono stata in grado che potesse sostenere mia madre, sfollata in Turchia. Tornare indietro non è stata una decisione difficile da prendere, rimanerci lo è stato.
In precedenti interviste hai detto che quello che succede in Siria non è un guerra civile, ci aiuti a comprendere il tuo punto di vista?
Prima dell’intervento russo e dell’ISIS, era una chiara guerra alle persone, non tra le persone. Se ci sono milizie che vengono organizzate, armate e spinte a combattere persone appartenenti ad una setta diversa, non può essere una guerra civile. Ci sono stati sicuramente molti incidenti settari in tutta la Siria, in cui le vittime di ogni parte hanno perso la ragione e con essa tutto quello in cui credevano, incluso il desiderio di avere vendetta. Le voci moderate sono le prime ad essere oppresse, e questo ha spinto il confronto verso la violenza ed estremismo. E con gli incidenti di Capitol Hill abbiamo visto cosa possono fare il populismo e le politiche di annunci personali provocatori anche nei Paesi più democratici come gli Stati Uniti.
In che senso?
Non è mia intenzione fare un vero confronto, perché i membri di QAnon non sono stati bombardati con barili esplosivi mentre dormivano, i loro figli non sono stati soffocati con armi chimiche e sicuramente non sanno cosa significhi essere uccisi sotto tortura nella prigione del governo per aver osato rivendicare i tuoi diritti umani fondamentali. A mio parere personale, e non sono un’esperta in termini legali, abbiamo vissuto nel 2011 una rivolta che il regime ha trasformato in una guerra. Infine ha smesso anche di essere una guerra interna e si è trasformata in una ovvia “guerra per procura”. Adesso eserciti stranieri, jihadisti e forze aeree di altri Paesi sembrano comandare in Siria e i siriani non sono nemmeno invitati ai colloqui sul loro futuro.
In questi anni hai formato centinaia di citizen journalist sul campo, in buona parte donne
Ero l’unica giornalista professionista nelle aree tenute dai ribelli, quindi mi sono sentita in dovere di trasferire la conoscenza e l’esperienza che ho acquisito lavorando alla BBC. Quando ero in Siria, mi sono resa conto che ai miei corsi di giornalismo non partecipavano donne perché allora non potevano lavorare in pubblico. Così ho invitato le donne interessate a diventare citizen journalists ad alcuni corsi di formazione e sono rimasta sorpresa che si presentassero per lo più casalinghe. Dato che i corsi di formazione erano molto pratici e alla prevedevano la produzione di un servizio ho continuato a essere la loro mentore e ho facilitato la pubblicazione dei loro pezzi.
Puoi raccontarci il valore di questa esperienza?
Il successo è stato che alcune delle donne che ho formato hanno deciso di passare la formazione ad altre donne. Quando possibile le ho aiutate a connettersi con organi di stampa in cerca di giornalisti in Siria. Quando radio Fresh è stata fondata a Edlib, contava più di 35 giornaliste donne che lavoravano, tutte formate da me e dalle prime giornaliste che ho formato. E tutte sono diventate capofamiglia e vivevano di giornalismo. Se io non fossi stata una donna, vivendo dall’interno le situazioni e con il background che ho, questo non sarebbe successo, poiché queste donne non erano neanche in grado di viaggiare nei Paesi vicini per essere formate. Quando penso a tutto il trauma e il dolore che ho dovuto vivere a causa della guerra, credo che solo queste azioni che ho compiuto mi hanno fatto sentire che ne è valsa la pena.
Questo è servito anche a mutare la concezione delle donne nel proprio paese?
Come femminista vedo sicuramente gli effetti della società patriarcale in cui viviamo, specialmente durante la guerra in cui il sessismo e l’estremismo colpivano maggiormente le donne. Le loro storie sono state messe da parte o raccontate in un modo tradizionale di stereotipi, riferendosi a loro esclusivamente come “la grande madre dell’eroe, la sorella di un detenuto e così via”, donne che hanno infranto tali tabù, ruoli di genere, hanno parlato o sfidato il I ruoli patriarcali erano raramente presenti, per non parlare delle difficoltà extra che devono affrontare per quello che sono.
Secondo te esiste un confine da non oltrepassare nel raccontare le atrocità della guerra?
In qualità di sostenitrice della libertà di espressione e di siriana cresciuta nel regime comunista, credo che non dovrebbero esserci confini per coprire la guerra, ma soltanto le norme etiche e un profondo rispetto autentico dei diritti umani. Molte storie non sono state raccontate da una parte o dall’altra temendo che avrebbero “danneggiato” la parte in cui si trovano. Per me, e soprattutto in questo momento, vedo che per ottenere una qualsiasi possibilità di pace o riconciliazione dovremmo tutti smetterla di farlo. Io ho iniziato scrivendo le testimonianze che entrambe le parti non approvano, perché sfidano la dimensione a due della guerra (buono contro cattivo), e cercano di allontanarsi dai grandi slogan, avvicinandosi di più alle vite umane delle persone.
Quali sono i limiti della narrazione che i media occidentali hanno fatto dei conflitti siriani?
Le narrazioni tradizionali hanno sicuramente aiutato a stereotipare noi siriani e a trasformarci in una mostruosa ondata di rifugiati che insidia i confini dell’Ue. Ma se e come abbiano influenzato i siriani rimasti nel Paese non lo so. Milioni di siriani difficilmente accedono a Internet, non parlano altre lingue, quindi i media che li hanno influenzati, immagino, saranno stati i canali televisivi arabi e non quelli internazionali.
A 10 anni dall’inizio dei conflitti la situazione sul campo è molto cambiata, mentre quella dei civili è sempre più drammatica, quali sono le prospettive per il popolo siriano?
Non ho il diritto di parlare delle prospettive del popolo siriano, quello che so è che noi, come tutti gli altri, vogliamo giustizia da tutti coloro che hanno commesso crimini, da ogni parte. Questo sicuramente sarà un enorme passo verso la pace. Vogliamo tornare a vivere con dignità, per godere dei nostri diritti fondamentali nelle nostre case, costruendo una vita sicura per i nostri figli, senza paura, in una terra libera a cui apparteniamo.
Source: agi