di Ettore Minniti
In questi giorni di guerra tra la potente Russia e l’incolpevole Ucraina, mi ritorna in mente la voce di mio padre, Don Peppe, cadenzata ed emozionata, che mi narrava la vicenda storica, accaduta in Sicilia tra il dicembre del ’44 e il gennaio del ‘45.
Conservava in cantina, tra le vecchie cianfrusaglie e la polvere, i suoi vecchi scarponi. La punta rivolta all’insù, i tacchi scollati, le fibbie sostituite con logori lacci di corda, conservati come una reliquia e di cui non aveva mai voluto disfarsi. Con essi aveva attraversato, a piedi, tutta l’Italia: dai confini con la Francia, ove era giunta la notizia dello sbarco e della liberazione, alla Sicilia, senza mai fermarsi. Tra campi e orti, tra monti e fiumi, evitando tutte le divise possibili: tedesche o italiane che fossero.
Un giorno il postino gli recapitò una busta. Don Peppe rientrò in casa, si recò nello studio, prese il tagliacarte e con flemma aprì la busta. La lesse tutta di un fiato. La rilesse nuovamente, ma non riusciva a capire il suo contenuto. No! Si erano sbagliati. Non poteva essere. Quel giorno tutte le mamme del Sud versarono tante lacrime amare. Gli americani avevano sostituito i tedeschi ma il rapporto non era cambiato. La miseria e la fame erano in ogni porta, in ogni casa. Il grano prodotto non bastava a sfamarli. Era già triste e difficile vivere così, al limite della sopportazione umana. I giovani dovevano ripartire nuovamente per il fronte: erano stati richiamati alle armi, per servire la Patria e combattere, come nemici, formazioni militari appartenenti a una nazione con la quale sino a pochi giorni prima si era stipulata un’alleanza e un ‘Patto d’Acciaio’. Molti di loro erano appena tornati e non avevano fatto in tempo a deporre l’uniforme nell’armadio: dovevano ripartire, volenti o nolenti, se non volevano essere dichiarati disertori e subirne le conseguenze.
Aveva sentito delle voci in paese, ma non ci aveva fatto caso, pensava più a uno scherzo di cattivo gusto, che a un’amara verità. Le cartoline color rosa erano state fatte recapitare a coloro che, dovendo nuovamente servire la Patria, dovevano portare con sé: “… una coperta, un tegame, un cucchiaio, una forchetta!”. Un funesto richiamo alle armi:
«Il Ministero della Guerra ha ordinato il censimento dei militari appartenenti alle classi 1914, 1915, 1916, 1917, 1918, 1919, 1920, 1921, 1922, 1923, e del primo quadrimestre 1924 (nati dal 1° gennaio al 30 aprile) in atto in Sicilia. È fatto obbligo di presentarsi a tutti i militari di qualunque grado, arma e servizio del Regio Esercito, comunque in atto nel territorio della Provincia di Ragusa, in qualsiasi posizione essi si trovino (congedo illimitato, congedo provvisorio, riformati, licenze rinnovabili, licenze di convalescenza, prigionieri liberi sulla parola, sbandati, ecc.). La Commissione preposta al censimento funzionerà nei locali di ciascun Comune dalle ore sette alle ore sedici dei giorni che saranno comunicati dal Comune con apposito banditore ed avviso».
L’obbligo di leva era interpretato come un nuovo sopruso che privava nuovamente le famiglie dei propri cari e la terra di braccia giovani e forti. Si sentiva dire in giro che potevano essere inviati addirittura a combattere in Estremo Oriente per sostenere gli interessi anglo-americani.
Bisognava far qualcosa per fermare quello che a tutti sembrava un’ingiustizia. Tanti giovani avevano ripreso a studiare ed erano ritornati anch’essi all’Ateneo catanese. Gli adulti erano spossati da una guerra che aveva prodotto un’infinità di lutti e lasciato in giro tanta miseria. In città non vi erano forze sufficienti per organizzare un movimento di protesta che poteva far ravvedere le autorità. Tutti desideravano la pace e non la guerra, ma l’ordine era stato perentorio.
“Non eravamo carne da macello!”, mi diceva con le lacrime agli occhi, “La prima mobilitazione contro l’arruolamento obbligatorio è avuta ad Enna 11 dicembre, poi si organizzarono a Palermo, Messina e nei comuni delle province di Agrigento, Caltanissetta, Ragusa, Siracusa e Trapani! A Catania il 14 dicembre, i militari hanno aperto il fuoco contro un gruppo di studenti che stava manifestando, uccidendone uno. La reazione della popolazione e degli studenti è stata immediata. Sono insorti ed hanno appiccato il fuoco al Municipio e assaltato gli edifici pubblici. A Ragusa, una coraggiosa donna, incinta di cinque mesi, si è messa davanti ad un camion per impedire la coscrizione di alcuni giovani!”.
“Non si parte!”. Così insorsero i giovani di Comiso. Tanti loro coetanei erano già morti per una guerra che era anche la loro, in cui avevano creduto, ma della quale, alla luce di quanto era avvenuto, ne avrebbero fatto a meno!
Quello che poteva essere un’opinione o un pensiero di pochi, come se trasmesso con un tam – tam silenzioso, fece il giro della città. Tutti i giovani, e non solo loro, si ritrovarono in piazza, in una manifestazione spontanea, amichevole, fraterna, con lo slogan, prima sussurrato, poi scandito piano piano, poi gridato: “Non si parte!”. E tutti a gridarlo sempre più forte. Non era una ribellione contro l’ordine costituito, era solo un grido disperato di pace. Ancora una volta, dal nuovo governo Bonomi, dagli stessi Alleati, la Sicilia era stata considerata facile terra di conquista. Dopo i Vespri siciliani stava nascendo una nuova consapevolezza nella gente, nei giovani e in particolare negli studenti, che, scesi per la strada, gridavano il loro grido di pace tra i popoli
Il sindaco e il commissario di polizia si consultarono, ma le Autorità restarono a guardare e le forze dell’ordine non intervennero. La città fu tappezzata di manifesti.
“Siciliani! Proclamiamo la nostra libertà e chiediamo di essere lasciati soli. Siamo già stufi e non vogliamo sentire la solidarietà nazionale. Abbasso ogni eventuale chiamata alle armi e che nessuno si presenti, qualunque forza li spinga. Mostriamoci degni dei “Vespri Siciliani “, per la difesa della nostra sacrosanta libertà. “.
La protesta stava dilagando. A Modica Bassa vennero affissi diversi manifestini il cui testo così recitava: “Siciliani! Reclamiamo la nostra libertà e chiediamo di essere lasciati soli. Siamo già stufi e non vogliamo più sentire di solidarietà nazionale. Abbasso, dunque, ogni eventuale chiamata alle armi e che nessuno si presenti qualunque sia la forza che ci si opponga. Mostriamoci degni figli dei Vespri Siciliani per la difesa della nostra sacrosanta libertà”. A Vittoria circolavano foglietti scritti da un’unica mano, ma con testi diversi: “Fratelli, la guerra è micidiale. La guerra è inumana. La guerra è contro tutti e tutto! E andreste Voi a combattere per una guerra che poi non vi appartiene? Per una guerra voluta da coloro che vi hanno immerso nella sofferenza e nella disperazione? No! Parteciparvi significherebbe rinnegare la propria madre, il grido di vendetta dei nostri fratelli caduti contro chi ora ci ordina di aiutarli! No! Noi non combatteremo!”.
I più agitati passarono alle vie di fatto. A guardarli sembravano dei leoni, erano tutti ventenni. Il viso però era scarno, qualche ruga, per le lunghe traversie passate in guerra. Bloccarono la strada, quando il camion militare arrivò. Questo si fermò senza brusche frenate, come se tutto fosse previsto. I carabinieri di scorta non opposero resistenza e furono catturati, unitamente al loro prezioso carico di viveri. I carabinieri, nel pomeriggio, arrivarono in forze, ma con tanta forza i ‘non si parte’ opposero resistenza, respingendo ogni assalto. Il capitano dei carabinieri, di fronte a tanto incosciente ardore da parte di quegli sprovveduti, per evitare altro e inutile spargimento di sangue e dolore alle famiglie, con sagacia e saggezza, ordinò ai suoi la ritirata.
L’euforia era tanta che contagiò tutti i partecipanti a quella rivolta e tutti si diressero verso il vecchio convento ove era insediata la caserma dei carabinieri. L’assediarono. Per tutta la notte i carabinieri coraggiosamente resistettero, restando chiusi dentro. Purtroppo, tra i ‘non si parte’ c’erano alcuni sconsiderati che d’iniziativa salirono sul tetto del convento e lanciarono delle bombe a mano all’interno. Poco dopo passarono ad occupare il Commissariato di P.S. Occupare lo stabile fu un gioco da ragazzi, perché i poliziotti aprirono le porte senza battere ciglio. Il comitato ‘non di parte!’ fatto da giovani e studenti dal balcone del Municipio, che si affaccia sulla piazza principale del paese, proclamarono: “… la costituzione della Repubblica di Comiso, che sarà retta da un governo popolare, con tanto di comitato di salute pubblica, squadre per l’ordine interno e distribuzioni di viveri a prezzi di consorzio”.
Roma reagì immediatamente: “… ristabilire prontamente ordine provincia Ragusa stop Stroncare definitivamente sedizione che deve essere condotta a fondo senza alcuna incertezza stop “. Un reggimento intero, l’indomani, marciò in direzione di Comiso, per occuparlo manu militari. Era guidato da un generale, che aveva la fama di essere un duro e poco incline alla mediazione. Si registrarono così i primi bombardamenti. Le granate scoppiarono nel centro del paese causando solo danni e, per fortuna, niente vittime. Dopo una notte di lunghe discussioni, litigi e incomprensioni, il comitato decise di rivolgere il proprio appello al parroco del paese per trattare la resa ed evitare morti inutili. L’indomani una delegazione si diresse a Ragusa, per parlamentare con il Prefetto, al fine di evitare la carcerazione degli insorti, con la promessa che sarebbero state deposte tutte le armi e si sarebbe provveduto a sciogliere il comitato di liberazione.
La parola data ai rivoltosi era quella del prefetto di Ragusa, non quella data da Roma. A Roma avevano già deciso di dare un esempio a tutte le cittadine della Sicilia e dell’Italia. Ci furono degli arresti nei giorni avvenire.
I carabinieri caricarono a forza sul camion militare mio padre, Don Peppe, non prima di avergli letto un foglio ove c’era scritto: “In nome del popolo italiano la dichiariamo in arresto per insurrezione armata contro i poteri dello Stato “. Arruolato nel Genio Ferroviario, prestava servizio presso la stazione ferroviaria. Lo avevano accusato, ingiustamente, di aver tagliato i fili del telegrafo della tratta ferrata tra Comiso e Ragusa.
Fu detenuto nel carcere di Ustica, per diciotto mesi, fino al settembre del 1946, quando ottenne l’amnistia da parte del governo a seguito di referendum.
Questa vicenda, purtroppo, non si leggerà mai nei libri di storia.