Sessant'anni fa il processo a Eichmann, il tecnocrate della Shoah


AGI – “Vi comunico che le nostre forze di sicurezza hanno rintracciato uno dei maggiori criminali nazisti di sempre: Adolf Eichmann“. Quando il premier israeliano Ben Gurion si rivolse alla Knesset per dare la notizia il mondo sembrò fermarsi. Perché era stata un’operazione leggendaria, quella messa a segno dal Mossad per assicurare alla giustizia il “tecnocrate della Shoah”, uno dei maggiori responsabili dell’orrore del Terzo Reich, l’uomo che aveva fatto funzionare l’imponente macchina di morte dello sterminio, colui che dopo la guerra era riuscito a fuggire in Argentina dandosi una nuova identità, Riccardo Klement, grazie alla quale sottrarsi al giudizio della storia, prim’ancora che al giudizio degli uomini.

Neanche dodici mesi dopo, ossia l’11 aprile 1961 a Gerusalemme partì il processo contro lo “SS-Obersturmbannfuehrer” Eichmann, l’uomo che aveva contribuito a progettare e organizzare sin nei minimi dettagli la deportazione e la “soluzione finale”.

Un processo che rappresenta un capitolo imprescindibile – per certi aspetti forse ancora più di Norimberga – nella difficilissima vicenda del rapporto del mondo libero con i crimini all’umanità perpetrati dalla Germania nazista. Perché Eichmann non solo incarna la “banalità del Male” – come codificato all’epoca dall'”inviata” d’eccezione Hannah Arendt – ovvero il burocrate apparentemente dimesso che con puntigliosa precisione contribuisce a realizzare e a far funzionare l’organizzazione dello sterminio hitleriano, ma anche il prototipo del tedesco che s’inscena come semplice ingranaggio di un meccanismo più grande di lui, dove altro non si poteva fare che “obbedire agli ordini”.

In realtà, al di là di ogni dubbio, Eichmann fu uno dei principali esecutori materiali della Shoah, in quanto coordinatore e responsabile della logistica delle deportazioni: per quanto non appartenesse all’èlite nazional-socialista, fu lui a organizzare materialmente i convogli ferroviari che trasportavano i deportati ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento nazisti.

Da parte sua, davanti ai giudici di Gerusalemme l’ex ufficiale delle Ss Otto Adolf Eichmann entrò perfettamente nella parte dell’oscuro burocrate. Colui che era stato accolto nello Stato ebraico con un’ondata emotiva immensa – fatta al tempo stesso di esultanza per l’arresto e di odio verso il responsabile dello sterminio di intere famiglie – l’imputato si presentò in maniera sommessa, come un funzionario privo di potere reale che non odiava affatto gli ebrei: fondamentalmente minimizzando le proprie responsabilità e limitandosi ad affermare, appunto, “di aver eseguito gli ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra”.

Sembrò che a Gerusalemme in quel 1961 si celebrasse il giudizio del Novecento spezzato in due dal nazismo, sembrò che alla sbarra ci fosse anche il tentativo dell’orrore di farla franca: alla fine, dopo esser riuscito a fuggire oltreoceano nel 1950 attraverso la cosiddetta ‘ratline‘ via Italia grazie ad alti esponenti della Chiesa e un lasciapassare della Croce rossa nonché una serie di false identità, e dopo aver passato, in seguito al suo spettacolare arresto, un anno in una cella di tre metri per quattro e visitato ogni giorno dal medico (il timore che potesse sottrarre al processo suicidandosi), eccolo sì, Eichmann, con il suo sguardo mite dietro un grosso vetro antiproiettile: e c’era tutto il mondo a guardare quando il procuratore israeliano Gideon Hauser elencò i 15 punti dell’accusa. Che comprendevano, tra gli altri, il crimine nei confronti del popolo ebraico (in 4 punti), i crimini contro l’umanità (in 7 punti), il crimine di guerra (1 punto).

Al processo, che ebbe una copertura mediatica senza precedenti, furono ascoltati 108 testimoni, compresi sopravvissuti ai campi di concentramento, esperti e storici, così come furono scandagliati oltre 1600 documenti. Dopo otto mesi – durante i quali l’imputato apparve sostanzialmente imperscrutabile – i giudici confermarono praticamente tutti i punti dell’accusala sentenza alla pena capitale arrivò il 15 dicembre di quello stesso anno. Di sicuro il processo ad Eichmann ha rappresentato uno spartiacque cruciale nella coscienza collettiva israeliana, al di là del numero infinito di film, libri, documentari che sono stati realizzati da allora. Non solo perché aprì la porta dell'”indicibile” – ossia il primo confronto a viso aperto con una rottura di civiltà di tali dimensioni – ma anche perché l’ex ufficiale delle Ss era stato obiettivamente tra coloro che avevano progettato sin nei dettagli il completo sterminio della popolazione ebraica in tutta Europa.

Eichmann era stato uno dei protagonisti della conferenza al Wannsee, tenutasi il 20 gennaio 1942 presso l’omonimo lago nei pressi di Berlino – “ideata” da Hitler in persona e organizzata su ordine di Hermann Goering – nella quale furono decise, in pratica, le modalità della “soluzione finale della questione ebraica”.

Pur essendo nei fatti già in atto, comprese le prime “esperienze” con le camere a gas, fu al Wannsee che la questione fu “sistematizzata”, messa nero su bianco e pianificata: vista l’impossibilità di trasportare ben 11 milioni di ebrei europei fuori dal continente, l’idea di fondo alla quale ci si volse – con grande agilità e un linguaggio ultra-burocratico – era quella dello “sterminio attraverso il lavoro”. Insomma, come lo stesso Eichmann ebbe a spiegare proprio alla sbarra del processo del 1961, “si parlò di uccisioni, di eliminazione e di sterminio”.

D’altronde, il ministro alla Propaganda Joseph Goebbels l’aveva già annotato nel suo diario: “Riguardo alla questione ebraica, il Fuehrer è deciso a fare piazza pulita. La guerra mondiale già c’è, la distruzione dell’ebraismo deve essere la necessaria conseguenza”.

Così durante la conferenza fu redatto il relativo Protocollo, in 30 copie (di cui è arrivata a noi esclusivamente una sola copia, come rivelò qualche anno fa la Zeit): ebbene, il testo di questo documento nella sua primissima stesura era stato redatto proprio da Eichmann. Ma nonostante la fuga in Argentina, il conto della storia alla fine raggiunse anche il burocrate dell’annientamento: il quale, dopo aver rifiutato l’ultimo pasto preferendo mezza bottiglia di vino rosso secco israeliano, morì per impiccagione pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì 31 maggio 1962. Si narra che le leve della corda furono tirate contemporaneamente da due persone: nessuno doveva sapere con certezza per quale mano fosse morto il condannato

Source: agiestero