di Alessandro Maran
Non che l’autore pensi che si tratti un risultato probabile, tuttavia, in un articolo su The New York Review of Books, l’ex consigliere per la politica estera dell’amministrazione Obama, Ben Rhodes, a proposito della guerra tra Israele e Hamas e di come potrebbe procedere verso una soluzione duratura, delinea lo scenario più ottimista.
Rhodes scrive: “Una campagna molto mirata contro la leadership e la forza di Hamas potrebbe essere accompagnata da uno sforzo storico per garantire sostegno e risorse arabe significative ad una leadership palestinese alternativa e una Gaza ricostruita. La leadership militare e politica di Israele potrebbe considerare il rispetto delle leggi di guerra come un obiettivo centrale invece che un intralcio tattico, evitando castighi collettivi e rispettando le zone di sicurezza per i civili. Il confine meridionale di Gaza potrebbe diventare un canale per il sostegno umanitario ai civili palestinesi piuttosto che un modo per espellerli permanentemente in Egitto. Lo scopo della guerra stessa potrebbe essere quello di una pace israelo-palestinese duratura invece che la sconfitta militare delle aspirazioni palestinesi all’indipendenza nazionale. Le passate decisioni del Primo Ministro Netanyahu e la natura del suo attuale governo Fabio pensare che queste non siano probabilmente le strade che Israele intende seguire, ma ciò non significa che dovremmo arrenderci all’idea che non ci siano alternative all’uso schiacciante e implacabile della forza. Ci sono sempre delle alternative, proprio come ce ne sono state per gli Stati Uniti dopo l’11 settembre” ( https://www.nybooks.com/…/18/gaza-the-cost-of-escalation/).
Si tratta di uno scenario difficile da realizzare per diverse ragioni, tra cui il pessimo stato della politica palestinese.
Se combatte Hamas a Gaza e vince, nel lungo periodo Israele avrà quattro opzioni su cosa fare con Gaza, tutte molto difficili, scrive The Economist: occupare Gaza, eliminare Hamas e poi andarsene, restituire il controllo di Gaza all’Autorità Palestinese con sede in Cisgiordania, oppure “mettere insieme una sorta di amministrazione alternativa, composta da personalità locali che lavorano a stretto contatto con Israele ed Egitto” ( https://www.economist.com/…/israels-four-unpalatable…).
Consegnare Gaza all’Autorità Palestinese andrebbe bene per Israele, scrive l’Economist, ma il leader dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas sarebbe probabilmente riluttante e “Gaza sarebbe quasi certamente ostile alla polizia palestinese inviata per metterla in sicurezza”. I paesi arabi poi non sembrano affatto desiderosi di governare il territorio.
Si ritiene che sia stato il fallimento del processo di pace post-1993 a screditare l’Autorità Palestinese tra i palestinesi, ma Ghaith al-Omari, membro del The Washington Institute for Near East Policy, scrive su The Atlantic che l’Autorità Palestinese ha commesso parecchi errori: “Ha governato sulla base modello del regime di Hosni Mubarak in Egitto e di Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia, un modello il cui autoritarismo corrotto ha prodotto una reazione a livello regionale durante la Primavera Araba. Gli impieghi pubblici erano favori politici da distribuire ai sostenitori; i fondi pubblici, molti dei quali provenienti da aiuti internazionali, erano semplici mezzi per l’arricchimento dei funzionari. L’efficienza, la capacità di risposta al pubblico e la fornitura di servizi erano tutti cose secondarie, di poca importanza. I palestinesi sono rimasti delusi dall’Autorità Palestinese e dal governo stesso” ( https://www.theatlantic.com/…/palestinian…/675695/).
Col risultato che la causa palestinese ha preso a scivolare, come scrive lo scrittore algerino Kamel Daoud su Le Point (il suo editoriale appare oggi, tradotto, su Il Foglio), “verso il senso sbagliato della storia” al punto che l’offensiva sanguinosa di Hamas è la conferma di un odioso “messianismo antiebraico”.
Secondo Daoud quella che stiamo vivendo con le immagini di Hamas “è la più terribile delle sconfitte”: “Ecco, in realtà, la ‘causa palestinese’ definitivamente islamizzata, confessionalizzata, diventata una speranza demente di fine del mondo piuttosto che un desiderio di avere un paese vivibile accanto al paese dell’altro. Eccola questa ‘causa’, trasformata, altrove, in uno strumento per nascondere i fallimenti autoctoni nei paesi detti arabi. Eccola ornata di barbarie legittima in nome della legge del taglione, eccola disumanizzata con la scusa della vendetta”.
“La causa palestinese – prosegue Daoud – è appena stata talebanizzata. Era sacra, ora, invece, scivola verso il senso sbagliato della Storia. La ‘causa’ si perde, è persa, quantomeno dal punto di vista dell’umanità. Ciò che aveva rappresentato un dossier di decolonizzazione appare attualmente come una questione di messianismo religioso, di fabbricazione della fine del mondo per trovare sollievo dal dovere di vivere, di esclusione dell’umanità (è umano colui che è palestinese, musulmano, non gli altri), di giudeofobia grossolana e odiosa. La scuola, la miseria culturale, l’autoghettizzazione, l’islamismo che ha il monopolio della libertà d’espressione nei paesi arabi: le sconfitte hanno fabbricato un’opinione monolitica dannosa, sterile, che non permetterà mai la pace, la liberazione, la vittoria, ma esclusivamente la fuga in avanti, il delirio, la vendetta e la teoria del complotto” ( https://www.lepoint.fr/…/kamel-daoud-une-defaite-pour… ).
Resta il fatto, conclude l’Economist, che “non esiste una soluzione duratura solo per Gaza. Nonostante la spaccatura interna che perdura, i palestinesi continuano a considerarsi parte di un sistema politico più ampio. … L’unico modo per riportare una pace duratura a Gaza è attraverso una più ampia soluzione del conflitto israelo-palestinese”.
Fonte: Fondazione PER