Schlein, lavoro è centrale. Ma Jobs Act torna ad agitare Pd


Priorità al lavoro: nel giorno in cui a Palermo si registra una nuova strage di operai, Elly Schlein cerca di tenere dritta la barra del Partito Democratico, ribadendo uno dei punti cardine del programma elettorale per le europee. I dem, assieme alle altre opposizioni, hanno depositato le firme per la legge di iniziativa popolare sul salario minimo. Un modo per mettere all’angolo la destra dopo che la maggioranza ha affissato la proposta di legge unitaria sullo stesso tema. “Quando l’abbiamo portata in Parlamento hanno deciso con la maggioranza di svuotarla e non farla passare. Oggi chiediamo ai cittadini di firmarla per riportarla in Parlamento con la loro forza e vediamo se Giorgia Meloni avrà il coraggio di voltare le spalle anche questa volta. Io penso di no”, dice la segretaria Pd a Perugia, dove ha incontrato oggi i lavoratori di una azienda a Marsciano. Le notizie che arrivano da Casteldaccia, in provincia di Palermo, costringono tuttavia a puntare i fari su un altro tema che riguarda il lavoro. Non basta la solidarietà, dice Schlein, “servono investimenti in prevenzione, formazione e assunzioni del personale incaricato di fare i controlli nelle aziende”. Insomma, “occorre essere conseguenti con l’articolo 1 della Costituzione che dice che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro”. Intanto, però, il partito torna a discutere e a dividersi sul Jobs Act. A riaprire il tema, nervo scoperto dei dem, è il referendum promosso dalla Cgil che prevede, tra le altre cose, di tornare all’articolo 18. La segretaria ha annunciato ieri, alla festa dell’Unità di Forlì, che firmerà per il referendum, senza tuttavia indicare la linea al partito, lasciando libertà ai singoli dirigenti di agire secondo coscienza. Una linea apprezzata dai più, ma che fa riemergere i malumori in quegli esponenti che la riforma del lavoro, con Matteo Renzi segretario, l’avevano sostenuta e votata. Il sindaco di Bergamo e candidato alle europee, Giorgio Gori, annuncia che non firmerà per abolire il Jobs Act perchè “sarebbe incoerente” con la sua storia e perché “il Jobs Act non ha aumentato la precarietà, anzi l’ha fatta diminuire”. Al di là del merito, tra chi è contro il referendum della Cgil viene sollevato un problema di tempistica: con la campagna per le europee in corso e le due battaglie dem, salario minimo e sanità, in attesa di entrare nel vivo in parlamento era necessario aprire un nuovo fronte? La domanda viene sollevata da più parti, non solo fra la minoranza dem.
“Un passo indietro rispetto all’approccio unitario che si è stabilito”, lo definisce un alto esponente della minoranza interna. Tanto più che si tratta di una cosa che risale ormai a nove anni fa, come fa notare il senatore Alessandro Alfieri, esponente che siede in segreteria Pd come responsabile Riforme: “In questo momento tutte le nostre forze devono essere concentrate sulla sfida delle elezioni europee. La Cgil poteva scegliere un momento diverso per presentare i quesiti referendari, anche perché molti aspetti del Jobs Act sono stati corretti negli anni, altri sono rimasti inapplicati e altri ancora si sono dimostrati essere aspetti innovativi”, dice Alfieri in un colloquio con l’AGI. “Io sono sempre dell’avviso che bisogna guardare avanti, al futuro, concentrandoci sulla legge di iniziativa popolare sul salario minimo e sulla battaglia per la difesa della sanità pubblica. Quindi, non firmerò per il passato. Pur rispettando la scelta di chi lo farà. Preferisco firmare per il futuro e per ciò che unisce tutta la comunità democratica”, conclude Alfieri. Per Andrea Orlando, “i parlamentari, avendo altri strumenti, possono anche esimersi dal firmare per un referendum”. In ogni caso, aggiunge, “credo che sia utile che ci sia una pressione perché, e non serviva arrivare fin qui, è la Corte Costituzionale che da anni pone una serie di questioni che tra l’altro i referendum in qualche modo affrontano e che il legislatore doveva già risolvere”. Stefano Bonaccini, presidente dem e riferimento dell’area di minoranza Energia Popolare, non si scompone e sottolinea che non c’è, sul Jobs Act, una linea ‘dettata’ dal Nazareno. Al contrario: “Chi vuole, nel Partito democratico, può firmare il referendum di una grande organizzazione come la Cigl, ma noi dobbiamo stare sulle battaglie che si stanno facendo in Parlamento, sulle quali peraltro – lo dico anche a Renzi – le opposizioni possono trovare, potrebbero trovare unità finalmente per introdurre novità importanti”. Il riferimento a Renzi non è casuale. Il ‘padre’ del Jobs Act, infatti, ha difeso la sua creatura chiedendo ai riformisti dem cosa stiano ancora a fare nel Pd. Ma, soprattutto, ha ricordato con nome e cognome quanti nel Pd hanno sostenuto il Jobs Act, includendo Bonaccini che “ha coordinato la campagna elettorale nel 2013, dove abbiamo lanciato il Jobs Act”. In realtà, dal 2013 Bonaccini ha fatto passi avanti in direzione del superamento del Jobs Act, arrivando a dire durante la campagna congressuale: “Reintrodurre l’articolo 18? Assolutamente sì, toglierlo è stato un errore”. (AGI)
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