Scendere dal Colle


Da Einaudi a Mattarella Quando finisce un settennato

“Resto convinto che la disponibilità richiestami nell’aprile 2013, in un momento di grave sbandamento, sia risultata un passaggio determinante per dare un governo all’italia. Ma è positivo che ora si torni alla normalità costituzionale” ( Napolitano)
Sette presidenti e le loro parole di commiato: negli ultimi messaggi di fine anno, nella sottolineatura di un’eccezione ( le dimissioni o il prolungamento del mandato), nel ricordo del proprio ruolo al servizio del paese
Palazzo del Quirinale, 31 dicembre 1954
L’alba del nuovo anno trova la nostra Patria vieppiù impegnata nella vasta opera di perfezionamento e di sviluppo del comune patrimonio di beni morali e materiali. Se nell’anno che lasciamo dietro a noi, accanto a segnalate consolazioni, prima fra tutte quella arrecataci dalla restituzione di Trieste, ci sono state riservate nuove prove crudeli ( a voi specialmente ricorre qui il mio pensiero, o popolazioni del Salernitano così duramente percosse dalla sciagura) non può non confortarci il sano equilibrio riaffermato dal nostro popolo sia nella buona che nell’avversa fortuna. Perché, nelle alterne vicende della Patria, gli Italiani hanno ancora una volta dimostrato di saper temprare le loro volontà e tendere le loro energie volte alla elevazione della vita nazionale.
E’ dunque con animo fiducioso che ci apprestiamo ad accogliere l’anno che viene; fieri delle fatiche compiute, decisi a sanare quelle che siano state le manchevolezze del passato, consapevoli dei doveri che ci attendono, sostenuti sempre dal pensiero che l’attività quotidiana di ognuno di noi — anche la più oscura purché inspirata a rettitudine — non si esaurisce in se stessa, ma concorre al bene comune, cooperando ad assicurare al nostro Paese il posto che gli spetta nel consorzio dei popoli amanti della libertà e solleciti del civile progresso.
A voi che, nel calore degli affetti più teneri, in quest’ora suscitatrice di memorie e di proponimenti, volgete il pensiero a un più felice domani, giunga il mio augurio che Iddio voglia concedere alle vostre case e all’italia nostra tutta un nuovo anno fecondo di serenità e di elette soddisfazioni.
Luigi Einaudi
Palazzo del Quirinale, 31 dicembre 1970
Italiani, il 1970 ha visto il riassestamento, non privo di difficoltà e di travagli, della crisi del 1969, determinata dalle lotte sindacali per una più equa ripartizione del reddito nazionale. (…)
Sul piano politico permane la tensione determinata da una diversa sensibilità dei vari partiti in ordine al problema della tutela delle libertà democratiche. Tale sensibilità è in rapporto non soltanto con la presa di coscienza di ciò che la libertà rappresenta per lo sviluppo del paese, ma anche con la presa di coscienza dell’ur – genza di alcune riforme e precisamente quelle della casa, della sanità e della scuola, necessarie per dare alla libertà il suo pieno significato. (…)
Anche quest’anno ho cercato di tracciare uno schematico bilancio del ’ 70 e di suggerire le grandi linee di un esame di coscienza collettiva, considerando soprattutto ciò che deve essere fatto nell’immediato futuro.
Questo è l’ultimo discorso di fine d’anno che io rivolgo a voi nel corso del mio settennato, che avrà termine il 29 dicembre 1971. Per il 1972 un altro Presidente della Repubblica, eletto dal Parlamento e dai rappresentanti delle Regioni, si rivolgerà a voi con lo stesso animo con cui mi rivolgo io. Vorrei a questo proposito accennare all’assurdità di coloro che vedono nel trapasso di poteri da uno ad un altro Presidente e nel periodo che lo precede non sappiamo quali complicazioni e quali inconvenienti per il Paese. Sia ben chiaro invece che nulla è più limpido, nulla più democratico nella Repubblica, che l’elezione di un nuovo Presidente. Questa è l’essenza vera delle istituzioni democratiche che hanno come fondamento un’unica sovranità, quella del popolo, sovranità di cui legittimi interpreti sono i parlamentari.
In questa visione delle cose si sostanziano gli auguri che cordialmente rivolgo a tutti voi e a ciascuno di voi; auguri di serenità, di gioia o di conforto, in una parola auguri di bene.
Che il nuovo anno sia portatore di tutto questo per voi, per le vostre famiglie e per quella grande e alta realtà che tutti ci trascende e insieme ci comprende: la nostra cara Patria, l’italia.
Nel nome di questa sacra realtà colgo l’occasione in questo mio ultimo messaggio di fine d’anno per esprimere la mia infinita gratitudine al popolo italiano che mi ha illuminato con la sua bontà, mi ha sorretto con la sua cordiale simpatia, mi ha guidato con il suo amore per la giustizia.
Viva la Repubblica! Viva l’italia!
Giuseppe Saragat
Palazzo del Quirinale, 31 dicembre 1971
Italiani, il tradizionale incontro di Fine d’anno tra il Capo dello Stato e voi quest’anno coincide con l’ele – zione del sesto Presidente della Repubblica. Il passaggio dell’alto Ufficio da Giuseppe Saragat – che ha servito fedelmente la Repubblica – a chi ha avuto l’onore di succedergli, rappresenta un atto di alto significato democratico. Gli uomini si avvicendano nei posti di responsabilità, la Patria resta realtà perenne.
Mi è caro inviarvi un saluto e un augurio. Un augurio a ciascuna famiglia, raccolta nel calore del Capodanno, perché questo sentimento di concordia, di unità, di felicità possa accompagnarvi per tutto il 1972. Un augurio agli italiani come comunità nazionale, perché il 1972 possa vedere convogliate tutte le aspirazioni, tutte le ansie, tutte le inquietudini nella strada maestra segnata dalla Costituzione. Sicché, senza che ciascuno rinunci a quella parte legittima delle proprie aspettative, si possa realizzare quella ripresa e si possano superare i momenti difficili, si possa soprattutto mettere in essere quel complesso di condizioni che renda possibile di risolvere i più urgenti problemi italiani, preminente tra i quali è quello della piena occupazione e della giusta retribuzione ai lavoratori.
Al nuovo anno ciascuno di noi chiede qualcosa di meglio per sé, per i familiari, per gli amici. Noi riuniamo, mettiamo insieme questi sentimenti, formuliamo un augurio unico per il nostro Paese: possa l’italia per la laboriosità, per la concordia dei suoi figli, per il senso di responsabilità degli uomini chiamati ai posti più impegnativi, realizzare nel ‘ 72 una fase nuova, incisiva nella strada del progresso e del benessere.
Buon Anno, Italiani!
Giovanni Leone
Palazzo del Quirinale, 15 giugno 1978
Nel momento in cui mi accingo a firmare l’atto di dimissioni dalla carica di presidente della Repubblica, sento il dovere di rivolgermi direttamente a voi, cittadini italiani, per dissipare sensazioni che un avvenimento senza precedenti nella storia della nostra Repubblica potrebbe provocare. Il proposito di dimettermi aveva già formato oggetto della mia attenzione, e l’avrei messo in atto da qualche tempo se non mi avessero trattenuto la considerazione che le dimissioni di un Presidente della Repubblica non sono mai un fatto che lo riguardi esclusivamente come persona. Esse possono creare in un momento improprio gravi turbative, possono incidere sull’equili – brio generale, possono avere riflessi anche sull’aspetto esterno di un Paese.
Se oggi mi sono deciso a compiere questo passo è perché ritengo assolutamente preminente, su quello personale, l’interesse delle istituzioni. Infatti, finché le insinuazioni, i dubbi, le accuse, hanno formato oggetto di attacchi giornalistici non suffragati da alcuna circostanza, ho potuto far pesare sulla bilancia la necessità di non drammatizzare, imponendomi un riserbo che mi è stato rimproverato come silenzio, che mi è costato amarezza e che risponde forse a tempi sorpassati. Ma nel momento in cui la campagna diffamatoria sembra aver intaccato la fiducia delle forze politiche, la mia scelta non poteva essere che questa.
Credo tuttavia che oggi abbia io il dovere di dirvi e voi come cittadini italiani abbiate il diritto di essere da me rassicurati, che per sei anni e mezzo avete avuto come Presidente della Repubblica un uomo onesto, che ritiene di aver servito il Paese con correttezza costituzionale e con dignità morale. Penso anche che il ricordo del mio servizio politico come prova di dedizione al Paese rappresenti per me e per voi garanzia di integrità. Sia quando giovane costituente detti il mio contributo al nascere della Carta Costituzionale, alla quale ho sempre ispirato la mia condotta, sia quando chiamato in momenti difficili ad assumere la carica di Presidente del Consiglio lasciai l’alto seggio di Presidente della Camera, al quale avevo avuto l’onore di essere chiamato. Anche oggi non vi è in me rimpianto di lasciare questa carica che, credetemi, è stata fonte di poche soddisfazioni, di molte preoccupazioni e anche di amarezze, ma rimpianto grave sarebbe quello di lasciare in voi un’ombra di sospetto sulla suprema istituzione della Repubblica.
Sono certo che la verità finirà per illuminare presente e passato e sconfessare un metodo che se mettesse radici diverrebbe strumento fin troppo comodo per determinare la sorte degli uomini e le vicende della politica. A voi e al nostro Paese auguro progresso e giustizia nel vivere civile.
Giovanni Leone
Palazzo del Quirinale, 31 dicembre 1991
Care Cittadine e cari Cittadini! è tradizione del nostro Paese che il Presidente della Repubblica, alla fine del vecchio ed alla vigilia del nuovo anno, rivolga un messaggio alla Nazione. Ma di tradizione pur sempre si tratta e non di legge imperativa: e ad essa, per seri motivi, è legittimo, anzi può essere, come nel caso presente, puranco doveroso, derogare!
Nei tempi attuali e nel delicato momento presente, il mio messaggio, il messaggio del Capo dello Stato, rappresentante dell’unità Nazionale, non potrebbe e non dovrebbe giammai essere un evento soltanto formale, quasi un mero rito di circostanza.
Non certo mancanza di coraggio o peggio resa verso le intimidazioni, ma il dovere sommo, e direi quasi disperato, della prudenza sembra consigliare di non dire, in questa solenne e serena circostanza, tutto quello che in spirito e dovere di sincerità si dovrebbe dire; tuttavia, parlare non dicendo, tacendo anzi quello che tacere non si dovrebbe, non sarebbe conforme alla mia dignità di uomo libero, al mio costume di schiettezza, ai miei doveri nei confronti della Nazione! E questo proprio ormai alla fine del mio mandato che appunto va a scadere il prossimo 3 luglio 1992.
Questo comportamento mi farebbe violare il comandamento che mi sono dato, per esempio di un grande Santo e uomo di Stato, ed al quale ho cercato di rimanere umilmente fedele: privilegiare sempre la propria retta coscienza, essere buon servitore della legge, ed anche quindi della tradizione, ma soprattutto di Dio, cioè della verità. E allora mi sembra meglio tacere!
Vi sarà certo altra più appropriata occasione per farvi conoscere il mio schietto pensiero ed i miei propositi. Mi duole di avervi forse deluso! Ma sono certo che voi, gente comune del mio Paese, vorrete comprendermi e, se lo ritenete, anche perdonarmi!
Non voglio però farvi mancare questa sera, che spero di gioia e di serenità, il mio sincero e caloroso augurio! A voi tutti, cittadine e cittadini delle cento città, delle mille contrade di questo meraviglioso Paese, con animo fraterno e sincerità di cuore, formulo i più fervidi voti augurali di benessere e di serenità, per voi e per l’intera comunità nazionale.
Per la nostra Repubblica auspico ed alla nostra comunità civile auguro un anno di forte impegno nella libertà e nel coraggio, per il rinnovamento della società e per la riforma delle istituzioni democratiche e repubblicane, per mandato di voi, il popolo italiano, e con la vostra sovrana sanzione.
Che Iddio protegga e benedica l’italia! Viva l’italia! Viva la Repubblica!
Francesco Cossiga
Palazzo del Quirinale, 31 dicembre 2005
Care Italiane, cari Italiani, è questo il settimo incontro di fine anno con voi, l’ultimo prima del termine del mio mandato presidenziale. I commiati, quanto più sono sentiti, tanto più debbono essere brevi. E breve intende essere questo mio di stasera. Tenterò di esprimere l’animo con il quale ho vissuto questi sette anni, il messaggio che ho cercato di inviarvi.
Più volte mi sono riletto il testo dell’impegno preso in Parlamento il 18 maggio 1999, il giorno del mio giuramento. Quell’impegno si ispirava alle iscrizioni scolpite sui frontoni del Vittoriano, l’altare della Patria: “Per la libertà dei cittadini, per l’unità della Patria”. Non è retorica, è l’essenza stessa del nostro convivere civile. L’essere chiamato a rappresentare l’italia, a essere garante della sua Costituzione, l’ho vissuto non solo come un altissimo mandato, ma soprattutto come un dovere, una missione. Per questo ho voluto abitare, con mia moglie, sin dal primo giorno, nel Quirinale: da sette anni è la mia casa, la casa del Presidente della Repubblica, la casa degli Italiani.
Per questo ho insistito nel richiamare i simboli più significativi della nostra identità di Nazione, dal Tricolore all’inno di Mameli, l’inno del risveglio del popolo italiano; e nel rievocare il nesso ideale che lega il Risorgimento alla Resistenza, alla Repubblica, ai valori sanciti nella sua Carta Costituzionale.
Per questo ho visitato ogni provincia d’italia e ho voluto che agli incontri nelle città capoluogo partecipassero tutti i sindaci dei comuni della provincia. (…)
Ovunque, nella varietà dei panorami, lo stesso spettacolo, lo stesso entusiasmo, lo stesso amore per la propria città e per la Patria. Il mio lungo viaggio in Italia è stato la più bella esperienza che ha accompagnato l’intero settennato: mi ha dato sostegno, ha alimentato la mia forza morale e fisica. Lo ho iniziato senza avere un preciso disegno, né esperienza di contatti diretti con la gente. Proprio questa mancanza di preparazione mi ha spinto a presentarmi a voi come sono, come un italiano che si rivolge a ogni altro italiano. E con voi è avvenuta una sorta di scambio.
Vi ho parlato di ciò che avevo nel cuore e nella mente. Di ciò che si era sedimentato in me stesso sin dalla gioventù, vissuta in un periodo tormentato per la nostra Patria, e poi nei lunghi anni in cui mi è stato dato di servire lo Stato; e al tempo stesso di vivere una normale, serena vita di una comune famiglia italiana. E voi mi avete contraccambiato. Mi avete dato molto di più di quanto io vi abbia dato, di quanto potessi darvi.
Ho constatato quanto sia vivo in tutta Italia uno spirito costruttivo di civile solidarietà, radicato nella nostra antica tradizione comunale, libero da vincoli di parte. Esso anima le tante iniziative di volontariato, in Italia e all’estero, ovunque nel mondo la nostra presenza possa essere di aiuto. Dai nostri incontri ho tratto anche consapevolezza di quanto sia diffusa, e già in atto nel Paese, da Nord a Sud, una forte, spontanea reazione ai problemi e alle difficoltà insiti nell’im – pegnativo confronto, politico, economico e sociale, in un mondo, quale quello contemporaneo, investito dalla globalizzazione. Ci uniscono, e ci danno forza, il nostro ingegno, il nostro estro creativo, la nostra passione al lavoro. Ed è di conforto il senso della identità italiana che anima anche le nostre comunità incontrate nei miei numerosi viaggi all’estero. A loro, come a ogni italiano che vive in Patria, mi rivolgo stasera, così come feci sette anni fa.
Quello che mi ha sorretto, e che ho cercato di trasmettervi, è l’orgoglio di essere italiani. Siamo eredi di un antico patrimonio di valori cristiani e umanistici, fondamento della nostra identità nazionale. Come Presidente della Repubblica Italiana mi sono proposto di esercitare imparzialmente il mio mandato, e ho costantemente rivolto a tutti l’esortazione al dialogo, al confronto leale, aperto, reciprocamente rispettoso. (…)
Ho avvertito nella concordia e nella condivisione di fondamentali valori da parte di Stato e Chiesa, e nella operosa collaborazione, nella società, di laici e credenti, un elemento di grande forza per la nostra Patria. Con questo spirito invio un particolare augurio a Sua Santità Benedetto XVI, che ha ereditato dal Suo indimenticabile predecessore, Giovanni Paolo II, la missione di apostolo della fratellanza tra i popoli, del dialogo tra le fedi e le civiltà. (…)
Sento ancora una volta il dovere, il bisogno di rivolgermi ai giovani. Siete il nostro domani. La nostra speranza. (…) Preservate i valori della nostra civiltà, che non soggiacciono al mutare delle mode. Primo fra essi l’amore per la famiglia, nucleo fondamentale della società, punto sicuro di riferimento per ciascuno di noi. Siete nati e vivete in un’europa di pace, di libertà. Tenete alti, e diffondete nel mondo, i suoi ideali. Toccherà a voi completarne e rafforzarne le istituzioni. Per tutti gli Europei non c’è un domani se non in una Unione Europea sempre più coesa.
Questi sono i sentimenti e le riflessioni che, nell’ap – prossimarsi del congedo, affollano il mio animo. Li affido a voi che mi ascoltate. Un pensiero, un augurio particolare vanno a coloro che soffrono, che stasera hanno per compagni il dolore, la solitudine. E a tutti, care Italiane e cari Italiani, i più affettuosi auguri per il nuovo anno. Affrontatelo con fiducia, con speranza. Possa il 2006 portare serenità a voi, alle vostre famiglie, alla nostra amata Patria. Viva l’italia!
Carlo Azeglio Ciampi
Palazzo del Quirinale, 31 dicembre 2014
Il messaggio augurale di fine d’anno che ormai dal 2006 rivolgo a tutti gli italiani, presenterà questa volta qualche tratto speciale e un po’ diverso rispetto al passato. Innanzitutto perché le mie riflessioni avranno per destinatario anche chi presto mi succederà nelle funzioni di Presidente della Repubblica. Funzioni che sto per lasciare, rassegnando le dimissioni: ipotesi che la Costituzione prevede espressamente. E desidero dirvi subito che a ciò mi spinge l’avere negli ultimi tempi toccato con mano come l’età da me raggiunta porti con sé crescenti limitazioni e difficoltà nell’esercizio dei compiti istituzionali, complessi e altamente impegnativi, nonché del ruolo di rappresentanza internazionale, affidati dai Padri Costituenti al Capo dello Stato.
A quanti auspicano – anche per fiducia e affetto nei miei confronti – che continui nel mio impegno, come largamente richiestomi nell’aprile 2013, dico semplicemente che ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento e le incognite che essi racchiudono, e dunque di non esitare a trarne le conseguenze.
Ritengo di non poter oltre ricoprire la carica cui fui chiamato, per la prima volta nel maggio del 2006, dal Parlamento in seduta comune. Secondo l’opinione largamente prevalente tra gli studiosi, si tratta di una valutazione e di una decisione per loro natura personali, costituzionalmente rimesse al solo Presidente, e tali da non condizionare in alcun modo governo e Parlamento nelle scelte che hanno dinanzi né subendone alcun condizionamento.
Penso che questi semplici chiarimenti possano costituire una buona premessa perché Parlamento e forze politiche si preparino serenamente alla prova dell’ele – zione del nuovo Capo dello Stato. Sarà quella una prova di maturità e responsabilità nell’interesse del paese, anche in quanto è destinata a chiudere la parentesi di un’eccezionalità costituzionale.
Personalmente resto convinto che la disponibilità richiestami e offerta nell’aprile 2013, in un momento di grave sbandamento e difficoltà post- elettorale, sia risultata un passaggio determinante per dare un governo all’italia, rendere possibile l’avvio della nuova legislatura e favorire un confronto più costruttivo tra opposti schieramenti politici. Ma è positivo che ora si torni, per un aspetto così rilevante, alla normalità costituzionale, ovvero alla regolarità dei tempi di vita delle istituzioni, compresa la Presidenza della Repubblica.
L’aver tenuto in piedi la legislatura apertasi con le elezioni di quasi due anni fa, è stato di per sé un risultato importante: si sono superati momenti di acuta tensione, imprevisti, alti e bassi nelle vicende di maggioranza e di governo; si è in sostanza evitato di confermare quell’immagine di un’italia instabile che tanto ci penalizza, e si è messo in moto, nonostante la rottura del febbraio scorso, l’annunciato, indispensabile processo di cambiamento.
Un anno fa, nel messaggio del 31 dicembre, avevo detto: “Spero di poter vedere nel 2014 almeno iniziata un’in – cisiva riforma delle istituzioni repubblicane”. Ebbene, è innegabile che quell’auspicio si sia realizzato. E il percorso va, senza battute d’arresto, portato a piena conclusione. Non occorre che io ripeta – l’ho fatto ancora di recente in altra pubblica occasione – le ragioni dell’im – portanza della riforma del Parlamento, e innanzitutto del superamento del bicameralismo paritario, nonché della revisione del rapporto tra Stato e Regioni.
Ma sul necessario più vasto programma di riforme – istituzionali e socio- economiche – messo in cantiere dal governo, sulle difficoltà politiche che ne insidiano l’at – tuazione, sulle possibilità di dialogo e chiarimento con forze esterne alla maggioranza di governo – anche, s’in – tende, e in via prioritaria, per il varo di una nuova legge elettorale – non torno ora avendovi già dedicato largamente il mio intervento, due settimane fa, all’incontro di fine anno con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile.
Vorrei piuttosto ragionare con voi su come stiamo vivendo questo momento in quanto generalità dei cittadini, uniti dall’essere italiani.
Credo sia diffuso e dominante l’assillo per le condizioni della nostra economia, per l’arretramento dell’attività produttiva e dei consumi, per il calo del reddito nazionale e del reddito delle famiglie, per l’emergere di gravi fenomeni di degrado ambientale, e soprattutto – questio – ne chiave – per il dilagare della disoccupazione giovanile e per la perdita di posti di lavoro. Dalla crisi mondiale in cui siamo precipitati almeno dal 2009, nemmeno nell’anno che oggi si chiude siamo riusciti a risollevarci. Parlo dell’europa e in particolare dell’italia. (…)
Tra breve il presidente del Consiglio Renzi tirerà le somme dell’azione critica e propositiva svolta a Bruxelles. Nulla di più velleitario e pericoloso può invece esservi di certi appelli al ritorno alle monete nazionali attraverso la disintegrazione dell’euro e di ogni comune politica anti- crisi.
Tutti gli interventi pubblici messi in atto in Italia negli ultimi anni stentano a produrre effetti decisivi, che allevino il peso delle ristrettezze e delle nuove povertà per un così gran numero di famiglie e si traducano in prospettive di occupazione per masse di giovani tenuti fuori o ai margini del mercato del lavoro.
Guardando ai tratti più negativi di questo quadro, e vedendo come esso si leghi a debolezze e distorsioni antiche della nostra struttura economico- sociale e del nostro Stato, si può essere presi da un senso di sgomento al pensiero dei cambiamenti che sarebbero necessari per aprirci un futuro migliore, e si può cedere al tempo stesso alla sfiducia nella politica, bollandola in modo indiscriminato come inadeguata, inetta, degenerata in particolarismi di potere e di privilegio.
Non può, non deve essere questo l’atteggiamento diffuso nella nostra comunità nazionale. Occorre ritrovare le fonti della coesione, della forza, della volontà collettiva che ci hanno permesso di superare le prove più dure in vista della formazione del nostro Stato nazionale unitario e poi del superamento delle sue crisi più acute e drammatiche. Il Centocinquantenario dell’unità si è perciò potuto celebrare – non dimentichiamolo – con orgoglio e fiducia, pur nella coscienza critica dei tanti problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide con cui fare i conti.
Un recupero di ragionata fiducia in noi stessi, una lucida percezione del valore dell’unità nazionale, sono le condizioni essenziali per far rinascere la politica nella sua accezione più alta, per rendere vincente quell’im – pegno molteplice e di lunga lena che i cambiamenti necessari all’italia chiaramente richiedono. (…)
Dalla constatazione delle qualità del nostro capitale umano può venire e diffondersi un’accresciuta consapevolezza della nostra identità e della nostra missione nazionale. Una missione da esprimere anche in un atteggiamento più assertivo e in una funzione più attiva in seno alla comunità internazionale.
Il canale principale per assolvere questa funzione è naturalmente dato dal concerto europeo, nel quale all’italia è toccata la guida della politica estera e di sicurezza comune europea e la responsabilità operativa del Servizio esterno di azione europea.
E il contesto internazionale in cui muoverci è critico e problematico come mai negli ultimi due decenni. Ne vengono per l’italia e per l’unione europea impegni di riflessione e analisi, e soprattutto di proposta e di azione, non solo diplomatica, rispetto ai quali non ci si può tirare indietro.
Il rischio di cadere in quell’indifferenza globale che Papa Francesco denuncia con tanto vigore è dietro l’an – golo, anche da noi. A quel rischio deve opporsi una sensibilità sempre più diffusa per le conquiste e i valori di pace e di civiltà oggi in così grave pericolo.
La crescita economica, l’avanzamento sociale e civile, il benessere popolare che hanno caratterizzato e accompagnato l’integrazione europea, hanno avuto come premessa e base fondamentale lo stabilirsi di uno spirito di pace e di unità tra i nostri popoli. Ebbene, questo storico progresso è sotto attacco per l’emergere di inauditi fenomeni e disegni di destabilizzazione, di fanatismo e di imbarbarimento, fino alla selvaggia persecuzione dei cristiani.
Dal disegno di uno o più Stati islamici integralisti da imporre con la forza sulle rovine dell’iraq, della Siria, della Libia ; al moltiplicarsi o acuirsi di conflitti in Africa, in Medio Oriente, nella regione che dovrebbe essere ponte tra la Russia e l’europa : di questo quadro allarmante l’italia, gli italiani devono mostrarsi fattore cosciente e attivo di contrasto.
Ci dà forza la parola, il magistero del Pontefice che per la Giornata Mondiale della Pace si fa portatore di un messaggio supremo di fraternità, e ci richiama alla durissima realtà dei “molteplici volti della schiavitù” nel mondo d’oggi.
Farci, ciascuno di noi, partecipi di un sentimento di solidarietà e di un impegno globale – sconfiggendo l’insi – dia dell’indifferenza – per fermare queste regressioni e degenerazioni, è un comandamento morale ineludibile. E forse, facendoci lucidamente carico di quanto sta sconvolgendo il mondo, potremo collocare nella loro dimensione effettiva i nostri problemi e conflitti interni, di carattere politico e sociale ; potremo superare l’oriz – zonte limitato, ristretto in cui rischiamo di chiuderci.
Ho così concluso l’appello che questa sera ho voluto indirizzare, più che ai miei naturali interlocutori istituzionali, a ciascuno di voi come persone, come cittadini, attivi nella società e nelle sue molteplici formazioni civili. Perché da ciascuno di voi può venire un impulso importante per il rilancio e un nuovo futuro dell’ita – lia.
Lo dimostrano quei giovani che non restano inerti – dopo aver completato il loro ciclo di studi – nella condizione ingrata di senza lavoro, ma prendono iniziative, si associano in piccoli gruppi professionali per fare innovazione, creare, aprirsi una strada.
Dal modo in cui tutti reagiamo alla crisi e alle difficoltà con cui l’italia è alle prese, nasceranno le nuove prospettive di sviluppo su cui puntiamo, su cui dobbiamo puntare “dall’alto e dal basso”.
Il cammino del nostro paese in Europa, lo stesso cammino della politica in Italia lo determineremo tutti noi, e quindi ciascuno di noi, con i suoi comportamenti, le sue prese di coscienza, le sue scelte.
Più si diffonderanno senso di responsabilità e senso del dovere, senso della legge e senso della Costituzione, in sostanza senso della Nazione, più si potrà creare quel clima di consapevolezza e mobilitazione collettiva che animò la ricostruzione post- bellica e che rese possibile, senza soluzione di continuità, la grande trasformazione del paese per più di un decennio.
Mettiamocela dunque tutta, con passione, combattività e spirito di sacrificio. Ciascuno faccia la sua parte al meglio. Io stesso ci proverò, nei limiti delle mie forze e dei miei nuovi doveri, una volta concluso il mio servizio alla Presidenza della Repubblica, dopo essermi impegnato per contribuire al massimo di continuità e operosità costituzionale durante il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’unione Europea.
Resterò vicino al cimento e agli sforzi dell’italia e degli italiani, con infinita gratitudine per quel che ho ricevuto in questi quasi nove anni non soltanto di riconoscimenti legati al mio ruolo, non soltanto di straordinarie occasioni di allargamento delle mie esperienze, anche internazionali, ma per quel che ho ricevuto soprattutto di espressioni di generosa fiducia e costante sostegno, di personale affetto, direi, da parte di tantissimi italiani che ho incontrato o comunque sentito vicini. Non lo dimenticherò.
Grazie ancora. E che il 2015 sia un anno fecondo di risultati positivi per il nostro paese, le nostre famiglie, i nostri ragazzi.
Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale, 31 dicembre 2021
Care concittadine, cari concittadini, ho sempre vissuto questo tradizionale appuntamento di fine anno con molto coinvolgimento e anche con un po’ di emozione.
Oggi questi sentimenti sono accresciuti dal fatto che, tra pochi giorni, come dispone la Costituzione, si concluderà il mio ruolo di Presidente.
L’augurio che sento di rivolgervi si fa, quindi, più intenso perché, alla necessità di guardare insieme con fiducia e speranza al nuovo anno, si aggiunge il bisogno di esprimere il mio grazie a ciascuno di voi per aver mostrato, a più riprese, il volto autentico dell’italia: quello laborioso, creativo, solidale.
Sono stati sette anni impegnativi, complessi, densi di emozioni: mi tornano in mente i momenti più felici ma anche i giorni drammatici, quelli in cui sembravano prevalere le difficoltà e le sofferenze.
Ho percepito accanto a me l’aspirazione diffusa degli italiani a essere una vera comunità, con un senso di solidarietà che precede, e affianca, le molteplici differenze di idee e di interessi.
In questi giorni ho ripercorso nel pensiero quello che insieme abbiamo vissuto in questi ultimi due anni: il tempo della pandemia che ha sconvolto il mondo e le nostre vite.
Ci stringiamo ancora una volta attorno alle famiglie delle tante vittime: il loro lutto è stato, ed è, il lutto di tutta Italia.
Dobbiamo ricordare, come patrimonio inestimabile di umanità, l’abnegazione dei medici, dei sanitari, dei volontari. Di chi si è impegnato per contrastare il virus. Di chi ha continuato a svolgere i suoi compiti nonostante il pericolo.
I meriti di chi, fidandosi della scienza e delle istituzioni, ha adottato le precauzioni raccomandate e ha scelto di vaccinarsi: la quasi totalità degli italiani, che voglio, ancora una volta, ringraziare per la maturità e per il senso di responsabilità dimostrati. (…)
Care concittadine e cari concittadini, siamo pronti ad accogliere il nuovo anno, ed è un momento di speranza. Guardiamo avanti, sapendo che il destino dell’italia dipende anche da ciascuno di noi.
Tante volte abbiamo parlato di una nuova stagione dei doveri. Tante volte, soprattutto negli ultimi tempi, abbiamo sottolineato che dalle difficoltà si esce soltanto se ognuno accetta di fare fino in fondo la parte propria.
Se guardo al cammino che abbiamo fatto insieme in questi sette anni nutro fiducia.
L’italia crescerà. E lo farà quanto più avrà coscienza del comune destino del nostro popolo, e dei popoli europei.
Buon anno a tutti voi! E alla nostra Italia!
Sergio Mattarella

Fonte: il foglio