di Gianni De Iuliis
Dall’11 al 13 gennaio 1979 si svolge la ventinovesima edizione del festival di Sanremo, condotta da Mike Bongiorno, affiancato da affiancato da Anna Maria Rizzoli.
La canzone vincitrice fu Amare, interpretata da Mino Vergnaghi. Un pezzo molto gradevole che non ha avuto molta fortuna, anche perché la casa discografica Ri-Fi, produttrice del brano, fallì poco dopo la vittoria del Festival («Amare, / che cosa vuoi che voglia dire amare. / La noia quotidiana e forse amare. / Domani è ancora uguale. / Amare, / volersi ad ogni costo non è amare. / Illudersi che sia se fai l’amore / e poi sentirsi male»).
Annus horribilis il 1979. Dopo il delitto Moro del 1978 e la crisi del compromesso storico ci fu un pauroso vuoto di potere nella politica italiana. Tre governi in nove mesi, con elezioni anticipate dopo lo scioglimento del Parlamento da parte di Pertini.
Dal punto di vista economico pesa un’inflazione che si assesta intorno al 22% medio annuo. Il fisco è spietato con i salariati che vedono azzerare il proprio potere d’acquisto.
L’unico partito che cresce è quello armato. Centinaia di attentati terroristici e cadaveri eccellenti. Con una novità: si comincia ad ammazzare anche nel proletariato. Sindacalisti, operai, domestici, studenti, professori, agenti. Vittime del terrorismo di destra e di sinistra. Alcune formazioni tristemente famose: Gruppi d’Azione Partigiana, Gruppo XXII Ottobre, Collettivo Politico Metropolitano, Brigate Rosse, Nuclei Armati Proletari, Prima Linea, Proletari Armati per il Comunismo, Comitati Comunisti Rivoluzionari, Unità Comuniste Combattenti, Formazioni Comuniste Combattenti, Brigata XXVIII marzo, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Ordine Nero, Nuclei Armati Rivoluzionari, Associazione Protezione Italiani, Bergisel Bund, Falange Armata, Fasci di azione rivoluzionaria, Fronte Nazionale, Fronte Nazionale Rivoluzionario, Gruppo Stieler, Movimento di Azione Rivoluzionaria, Ordine nero, Terza posizione, Rosa dei Venti.
Ma di quel 1979 vogliamo ricordare un personaggio unico, un atleta. L’atleta italiano. Il più importante probabilmente di tutta la storia sportiva del nostro paese. Pietro Mennea. Il 12 settembre 1979 a Città del Messico Pietro Mennea stabilisce il record del mondo nei 200 metri piani con il tempo di 19″72. Record che durò diciassette anni, fino all’impresa del 23 giugno 1996 di Michael Johnson, che fermò il cronometro a 19”66. L’anno dopo Mennea diventò campione olimpico dei 200 metri piani a Mosca.
Nacque a Barletta il 28 giugno 1952 e morì a Roma il 21 marzo 2013. Soprannominato Freccia del Sud, è l’unico duecentista della storia che si sia qualificato per quattro finali olimpiche consecutive (dal 1972 al 1984). In virtù della sua carriera sportiva è stato insignito dell’ordine olimpico nel 1997 e introdotto nella Hall of Fame della FIDAL. Dopo la carriera agonistica ha conseguito quattro lauree, in Scienze Politiche, Giurisprudenza, Scienze motorie e sportive e Lettere. Scrisse molti saggi su vari argomenti, esercitando le professioni di avvocato e commercialista. Alle elezioni europee del 1999 fu eletto deputato europeo nella lista I Democratici nella circoscrizione Sud e aderì al Gruppo del Partito Europeo dei Liberali, Democratici e Riformatori.
Ci piace ricordare questo grande atleta attraverso alcune sue parole e attraverso i commenti di alcuni giornalisti quando era in vita e post mortem.
« Il doping è una scorciatoia per arrivare al successo, ma tanti atleti che correvano con me non ci sono più. Si tratta senza dubbio di morti sospette. Che devono far riflettere. Io mi sono allenato per 20 anni, ho avuto una carriera lunghissima come velocista, ma non mi sono mai neanche strappato. Invece, se avessi fatto uso di steroidi anabolizzanti, mi sarei strappato chissà quante volte. Lo sport deve rimanere l’ultimo baluardo del tessuto sociale per quanto riguarda il rispetto delle regole. Insomma, tra gli atleti deve vincere il più bravo, non il più furbo.
Io non credo nella predestinazione. I risultati si ottengono solo con molto lavoro. Nella mia carriera sportiva mi sono allenato 5-6 ore al giorno, tutti i giorni, per 365 giorni l’anno, tra gare e allenamenti, per quasi venti anni.
L’Italia non mi ha dato spazio. Qui c’è una mentalità piena di invidia e di gelosie per chi con merito sale in alto. Nessuno usa il successo altrui come vanto di tutti. All’estero i campioni sono protetti e tutelati, qui gettati in pasto. A Sestriere hanno spianato una montagna per fare una pista dove poter battere il mio record. Hanno invitato Michael Johnson e messo in palio una Ferrari, poi mi hanno chiamato per il passaggio di consegne. Ho chiesto: se Johnson non mi batte, la Ferrari la date a me? Dopo due minuti di silenzio hanno risposto no. Allora non sono andato.
Quello della Silicon Valley, quello che ha detto che bisogna essere affamati e folli [Steve Jobs], mi fa ridere. Noi non avevamo niente e volevamo tutto. Eravamo cinque figli, quattro maschi e una femmina. Mio padre Salvatore era sarto, mia madre Vincenzina lo aiutava, a me toccavano i lavori più umili: fare i piatti, pulire la cucina, lavare i vetri. Avevo tre anni quando mamma mi mandò a comprare un bottiglione di varechina che mi si aprì nel tragitto, porto ancora i segni sulle mani.
In California incontrai Muhammad Ali che per me è sempre Cassius Clay. Mi presentarono come l’uomo più veloce del mondo. Lui mi squadrò sorpreso: «Ma tu sei bianco». Sì, ma sono nero dentro.
Non c’è più cultura sportiva, c’è il mito del successo, non quello di farsi strada nella vita. Perché meravigliarsi delle scommesse? Se non si studia, se non si hanno interessi, non c’è crescita della persona. Uno sportivo non deve essere Einstein, ma un minimo ci devi provare a darti degli strumenti e non solo a gonfiare il portafoglio.» (P.Mennea)
«Aveva occhi un po’ tristi e un’aria da persona sola, chiusa. Come molti introversi, non gli apparteneva la preoccupazione di piacere a tutti. Però ogni suo gesto, dentro e fuori lo sport, è stato di orgogliosa sostanza. Campione inarrivabile, velocista “nero” d’Europa, figlio del profondo sud italiano vissuto sapendo che i luoghi comuni si possono combattere e vincere con la forza interiore, con una spinta anche morale. In questo, anche in questo, Pietro Mennea è stato un esempio. Sembrava in eterna lotta col mondo e in parte lo era. Ha rappresentato molto, non solo nello sport e nell’atletica. La possibilità di riscatto per chi non nasce al centro dell’universo e non ha predestinazione, né santi in paradiso. Era magnetico, cocciuto, emanava una forza contagiosa e a volte imbarazzante, difficile da reggere e guardare negli occhi. Non sembrava neanche italiano, eppure era il meglio di tante cose che misteriosamente, magicamente il nostro paese ogni tanto sa proporre». (Maurizio Crosetti)
«Di Pietro dicevano che avesse un brutto carattere, che vedesse nemici dappertutto. Ne aveva, in effetti, a cominciare da quelli che tuonano contro il doping e poi lo fanno entrare dalla porta di servizio, per continuare con quelli che pensano solo alle medaglie e ai guadagni e non hanno capito che c’è una rivoluzione culturale da fare, cominciando dalla scuola, dall’etica, e che non c’è solo lo sport di vertice ma anche lo sport per tutti, e che comunque non ci si deve aiutare mai con farmaci proibiti. «Perché la fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni». Parole sue. A fare da eco, il nostro silenzio: che sia pieno di rispetto, d’ammirazione, di qualcosa che vorrebbe essere un «grazie» tardivo, forse inutile, ma per Pietro Mennea da Barletta doveroso e dolente, adesso che la corsa è finita. Mennea ha passato più di un terzo della sua vita sui campi d’allenamento, anche a Capodanno. Era un asceta, sopportava carichi di lavoro che altri atleti avrebbero rifiutato prima ancora di cominciare. E durare vent’anni, per uno sprinter, è una specie di miracolo. Ma lo è ancora di più il restare affezionato a una vita ripetitiva, ore e ore d’allenamento per limare qualcosa, ore di isolamento e di sacrifici: dieta perenne, il suo maestro e allenatore Vittori gli vietava anche l’acqua minerale gassata, solo liscia doveva essere. E non parliamo degli altri grandi e piccoli piaceri della vita. Però nessuno ha mai sentito Pietro lamentarsi di quegli anni. Fedele al ruolo che s’era ritagliato: l’atleta-asceta, l’atleta-monaco o fachiro, l’atleta-soldato. Perché era nero dentro e sapeva che nella vita e nello sport, tanto più uno sport come il suo, nessuno ti regala nulla, tutto quello che puoi vincere te lo devi guadagnare col sudore, la fatica, il lavoro. Noi italiani, ci ha fatto pensare di essere i più veloci al mondo. A lui la fatica, a noi la gioia» (Gianni Mura)
«Era un esempio di serietà e d’onore, un uomo che aveva lavorato assiduamente per conseguire i suoi risultati: un record mondiale che resistette per 17 anni, da una parte, e quattro lauree (in scienze politiche, giurisprudenza, scienze motorie e lettere), dall’altra. In una recente intervista, alla domanda sul perché oggi l’Italia non eccella più nell’atletica leggera, come ai suoi tempi, rispose “pacatamente e serenamente”. Ricordando che lui, per dieci anni, non aveva mai perso un allenamento, nemmeno nel giorno di Capodanno. E notando che oggi, invece, i giovani sono dei “bamboccioni” che non hanno voglia di sudare né fisicamente, né intellettualmente. In questi tempi di bamboccioni disonorevoli e disonorati, un atleta onorevole e onorato come Pietro Mennea ci fa riflettere su un fatto spesso dimenticato: che nell’attività fisica, così come in quella intellettuale, l’eccellenza si raggiunge al 10 per 100 con l’ispirazione, ma al 90 per 100 con la sudorazione. Non esistono i campioni e i geni naturali: esistono gli individui dotati, che si fanno artificialmente un mazzo tanto per mettere a frutto le loro doti». (Piergiorgio Odifreddi)