“È quindi ragionevole supporre che i batteri trovino una nicchia nell’organismo in cui non sono ancora vulnerabili, che vi formino un serbatoio permanente e che possano tornare attivi in seguito”, ha affermato Rudel. “Questo fenomeno è noto come persistenza ed è problematico perché le clamidie che persistono nell’organismo diventano sempre più resistenti agli antibiotici nel corso del tempo” ha continuato Rudel. I ricercatori hanno identificato l’intestino come nicchia con l’aiuto di organi artificiali in formato miniaturizzato, i cosiddetti organoidi. Si tratta di strutture prodotte in laboratorio a partire da cellule intestinali umane, molto simili per struttura e funzione all’organo modello. Le squadre di ricerca di Würzburg e Berlino hanno provato a infettare gli organoidi intestinali con la clamidia e hanno scoperto che lo strato cellulare interno degli organoidi è molto resistente ai batteri: gli agenti patogeni possono penetrare solo se l’epitelio cellulare viene danneggiato. Dal lato del sangue, invece, le clamidie sono state in grado di infettare in modo molto efficiente. “In questo caso, abbiamo ripetutamente trovato le forme persistenti dei batteri, che possono essere chiaramente identificate con la loro tipica forma al microscopio elettronico”, ha dichiarato Pargev Hovhannisyan, ricercatore della JMU e primo autore della ricerca. “Trasferito all’organismo umano, questo significherebbe che l’infezione da clamidia con conseguente persistenza trova difficoltà nel penetrare attraverso la parte interna dell’intestino, ma può farlo molto facilmente attraverso il sangue” ha spiegato Rudel. “Tuttavia, che questo avviene effettivamente nel corpo umano deve ancora essere confermato da studi clinici”, ha precisato Rudel. Il prossimo passo di Rudel e Bartfeld è scoprire se le clamidie selezionano determinati tipi di cellule per la loro persistenza, un compito non facile, dato che l’intestino è composto da centinaia di tipi di cellule diverse. La clamidia può persistere nell’intestino degli animali, come provato da esperimenti su modelli murini, e anche nell’uomo, l’intestino sembra essere il luogo in cui questi batteri si trovano più a proprio agio e riescono a sopravvivere. Lo rivela uno studio condotto dai gruppi di ricerca di Thomas Rudel, della Julius-Maximilians-Universität, JMU, di Würzburg in Baviera, in Germania e Sina Bartfeld, che ha lavorato presso la JMU fino al 2021 e ora dirige il Dipartimento di Biotecnologie Mediche presso la Technische Universität di Berlino, riportato sulla rivista PLOS Pathogens. L’infezione da clamidia si risolve facilmente quando trattata con antibiotici ma, in caso contrario, i batteri possono causare gravi problemi, tra cui infertilità e cancro. Le persone infette da clamidia possono trasmettere questi batteri ad altre persone durante i rapporti sessuali non protetti; di solito gli agenti patogeni non causano sintomi o solo lievi all’inizio, come prurito nella vagina, nel pene o nell’ano, ma questi se non trattati possono causare gravi complicanze. Nella pratica clinica quotidiana vi è un noto un fenomeno che può verificarsi dopo un trattamento antibiotico di successo: quando le persone già trattate si presentano dal medico con una nuova infezione da clamidia, spesso sono infettate esattamente dagli stessi ceppi di batteri dell’infezione precedente. (AGI)