AGI – Sono trascorsi due anni pandemici, la storia cominciò a Wuhan, in Cina, nel dicembre del 2019, quando Pechino comunicò (in ritardo) all’Oms l’esistenza di un nuovo coronavirus. Da quel momento la storia è cambiata e non si tornerà più indietro, siamo già immersi in un “nuovo mondo” di cui molti – anche tra noi – non hanno piena coscienza. Parlerà il tempo, che come sempre è galantuomo, saranno i fatti a curvare il nostro spazio (è già successo), chi vive nel “prima” è inesorabilmente fuori tempo nel “dopo”. Ultimo avviso ai naviganti, siamo nell’oceano del “domani” e nella tempesta devono remare tutti.
Il 2021 è stato l’anno della battaglia, abbiamo inventato l’arma (il vaccino) con un balzo in avanti della ricerca scientifica (un solo anno per produrre l’anti-virus), il mondo ha riaperto l’economia, l’industria della cultura ha ripreso la lunga marcia dell’immaginario che sempre anticipa il reale.
Molti libri hanno segnato il percorso di questo periodo eccezionale, ne fissiamo qui il carattere nell’epilogo dell’anno, mentre si chiude il sipario, per lasciare una traccia del vissuto, accendere una luce, far volare una lucciola nella notte (la scomparsa delle lucciole e delle api è un cattivo segno per tutti noi, la poesia della natura ha una metrica che abbiamo alterato). Ringrazio i colleghi che hanno raccolto l’invito a scrivere, è un modo per stare insieme in un momento in cui questa parola, “insieme”, è stata travolta dall’ondata della variante della storia.
La mia vita è notizia e impaginato, titolo e sommario, foto e didascalia, il quotidiano consumarsi del fatto e misfatto in cronaca, un distillato su penna e taccuino, ciclo senza fine, logorio di ogni giorno che poi decanta in una Terra Felix dove trova pace e nuova linfa in romanzo e saggio, politica e storia, filosofia e scienza, poesia e sceneggiatura. L’immersione in pagina per cercare risposte, rifugio dal caos, carezzare l’insonnia, fermare l’assalto della stupidità, coltivare il mestiere di scrivere, alleviare la fatica di vivere, mantenere il timone e la rotta.
Accompagno le mie letture con la musica (“Senza fiato lasciami e poi / già che sei qui non te ne andare…”, Mina), mentre la mia auto scorre nel dedalo d’asfalto e pietra sconnessa della Città Eterna (“Sul ponte sventola bandiera bianca”, Franco Battiato), trapassa via Venti Settembre (“Vorrei essere libero come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura”, Giorgio Gaber), aggira la fontana delle Naiadi (“Peppino Peppino, figlio dell’amore, in quale vicolo o strada batterà il tuo cuore”, Antonello Venditti), marcia su via Cavour (“This is the end, my friend”, Doors), sorvola il Colosseo (“Roma dove sei, eri con me?” Mattia Bazar), scollina sul Circo Massimo (“I Drink Wine”, Adele), affiora sul Gazometro (“Dolce Moby Dick, nessuno ti ha baciata mai”, Banco). Musica, maestro. Riunione, notizie del giorno.
Abbandonata l’idea di “tapparsi in casa ad aspettare l’astronave” (Sergio Caputo), non resta che riderci sopra, sui chili avanti, la salute troppo indietro, i giornali consumati, una vasta dissipazione senza un piano, così più vado avanti con gli anni, tra i sommersi e i salvati, più cerco risposte nell’ordine dei classici, nello splendente inattuale, lo incrocio con il nuovissimo, coltivo in laboratorio la fusione nucleare dei generi e dello stile, mando con spirito funambolico in rotta di collisione mondi lontanissimi, nella speranza che dal Big Bang germogli un nuovo pianeta abitabile per la mia anima errante. Troppi desideri e prometeici disegni per un semplice cronista. Restano i libri, fantasie, zigzag, fughe senza meta.
E i libri? Sono tanti, troppi, affollano il mio spazio, sono la certezza materiale che il disordine avanza regolarmente e con illogica distribuzione nelle mie stanze. Nuovi e vecchi insieme formano torri, avamposti, trincee, tunnel. Le riletture sono una sorpresa, sempre. Un Victor Hugo scintillante su “William Shakespeare” (Feltrinelli), una sciabolata di gloria sul Bardo, opera presentata da Hugo come “manifesto letterario per il XIX secolo”, libro scritto di fronte all’oceano, dall’esilio, per il terzo centenario della nascita del drammaturgo inglese, una celebrazione del “Canone Occidentale” (titolo di un’opera del critico letterario Harold Bloom, una collezione di diamanti). L’autore de “I Miserabili” (romanzo che nel tempo è per me una continua ripresa, impresa, rilettura, riemersione e folgorazione) orbita come un asteroide intorno a Shakespeare per raccontarci del genio che domina la scrittura, perché “Dio non ha creato questo meraviglioso alambicco dell’idea, il cervello umano, per non servirsene”. Non è così per tutti (leggere “La prevalenza del cretino”, di Fruttero e Lucentini, scritto nel 1985, anticipatore dell’oggi imbruttito) e questa in fondo è già una tagliente consolazione, il peggio abbonda e, visto lo scaffale del meglio, c’è da augurarsi che esondi e trascini via tutto. C’è speranza, ma certo, sono tempi radioattivi, c’è spazio per le mutazioni, gli inverni nucleari e naturalmente i miracoli.
Nella circumnavigazione dell’oceano shakespeariano, seguendo la mappa del genio tracciata da Hugo, cercando con disperazione una zattera, affiora come un’isola vulcanica un libro, lo ha scritto il premio Nobel per la letteratura, Kazuo Ishiguro, nato a Hiroshima, vivente nell’isola d’Inghilterra, un giapponese che fa eruttare il caro vecchio sogno dell’anima della macchina e svela l’intimo battito irregolare dell’umano tra le pagine di “Klara and the Sun” (Faber – l’edizione italiana è di Einaudi). La macchina che impara (e insegna) l’amore, il soggetto/oggetto virtuale, il sentimento così umano, troppo umano, da essere per forza quello di un androide programmato fino all’incoscienza, calcolato per eccesso e per difetto al punto da afferrare nella giungla del Big Data la caducità, il rischio, l’impresa, il “difetto” di fabbricazione della catena biologica.
Il grande dilemma di Klara (la macchina) è quello del donarsi tutta a Josie, la bambina colpita dal male oscuro. In questa prospettiva di fine vita e nuovo inizio, di balzo nel vuoto e rimbalzo nell’esistenza, la domanda è semplice e inesorabile: credi nel cuore, nella poesia, nella forza dell’amore? L’incipit di “Klara e il Sole” è come un rassicurante ronzio di batteria, le macchine cercano il sole che sorge e tramonta, per loro è fonte di energia, è la differenza tra il buio e la luce, la vita e la morte, la ragione della “scelta” dell’umano per la macchina da compagnia, il modello è la durata, l’evoluzione è l’affidabile, l’emozione un’equazione, il calcolo è un destino che separa il felice dall’infelice, la ricerca del sentimento che salva dallo spegnimento. Klara vi spaccherà il cuore fino alle lacrime, dall’alba al tramonto, con la ricerca e applicazione dell’amore sull’amore, la sua “ricarica”. Quanti di voi lo hanno esaurito? Come Klara, cercate il sole.
C’è un retrogusto antico, un remoto e tenace tessuto floreale (in)volontario di Friedrich Nietzsche nel libro di Ishiguro, è tutto nell’apertura di “Così parlò Zarathustra” (Adelphi): “Astro possente! Che sarebbe la tua felicità, se non avessi coloro ai quali tu risplendi!”. Libro profetico che crea dipendenza (“che agisca come una droga è un dato di fatto generalizzato”, Giorgio Colli), ossessione e lezione di Carl Gustav Jung (leggere “Lo Zarathustra di Nietzsche”, Bollati Boringhieri), rivelazione perenne che resta stordente enigma, una tempesta solare, qui ritroviamo il motivo dell’alba e del tramonto, della luce e del buio (e ancora riappare – è un eterno ritorno – lui, William Shakespeare che nel Macbeth fa dire a Ross: “È per il predominio della notte, o per la vergogna del giorno / che l’oscurità seppellisce il viso della terra, / quando dovrebbe baciarla la luce viva?”), è lo spirito di Klara che cerca il sole e di Zarathustra che insegue il fulmine del sacrificio, fino all’estremo superumano: “Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando”. L’assoluto in dissoluzione, il “donatore” dell’inatteso che nel libro di Ishiguro si materializza in Klara.
È la fine dell’anno che rotola a valle, pura neve che tracima nello stordimento dei numeri, delle notizie, dei titoli, del nostro compagno di viaggio virus, l’infinitamente piccolo infinitamente grande, mutevole, sinuoso. Tramonta Delta, sorge Omicron. Tutti a caccia del virus (“Spillover”, di David Quammen) e del fil rouge del sottosopra pandemico (“Pandemia”, di Lawrence Wrigth). Sembrava chiusa la partita con il problema della Guerra Fredda, della lotta tra il capitalismo e il comunismo (“La fine della storia e l’ultimo uomo”, Francis Fukuyama) e invece è ripartita più forte che mai in nuove e vecchie forme, cortine di ferro e sfere d’influenza ritrovate e già note nelle vecchie trame (“The Cold War”, di John Lewis Gaddis), con la rivincita della geografia e la riemersione dell’Eurasia (“Il perno geografico della storia”, di Halford John Mackinder), la comparsa di fantasmi di nuove guerre (“2034” di Elliot Ackerman e James Stavridis). La geopolitica ruggisce come una tigre, il problema è cavalcarla.
È l’epilogo di una storia, il sipario che si chiude, un anno che se ne va, un vecchio treno a vapore che sbuffa sul binario della vita, un aroma di Novecento e futuro, ferraglia e pixel. Siamo sulla banchina, fa freddo, c’è aria di ghiaccio e castagne roventi, la stazione brulica di personaggi in cerca d’autore, sembrano schizzati via dall’intarsio del “Maestro e Margherita”, un colpo di cesello di Michail Bulgakov, vedo Ponzio Pilato che ha mal di testa, Gesù che lo confonde, la rondine che compare sul colonnato, ma dove si sarà mai accomodato lui, Woland, il Diavolo? Partiamo, che viaggio. Buona lettura.
(Mario Sechi, direttore dell’Agi)
Il Condominio – J.G. Ballard
Cosa succede in una comunità quando un imprevisto ne mette in crisi l’ordine e la (rassicurante) routine? Prendi un condominio, anzi un super condominio, un grattacielo che racchiude i servizi di un intero quartiere e ne abbraccia le stratificazioni sociali (e dove, comunque, nessuno ha il problema di ‘mettere insieme il pranzo con la cena’) fai saltare l’alimentazione elettrica e stai a vedere cosa si scatena. E’ questo l’assunto di partenza de Il Condominio, di J.G. Ballard, e l’escalation scatenata da un banale problema – a chi non è mai capitato di trovarsi, più o meno a lungo, con tv, telefono, ascensore, microonde, wifi, cioè le estensioni che più o meno consapevolmente sono i pilastri della vita di ogni giorno, improvvisamente privi di vita? – piano piano scava lo sgomento nel lettore. Un incidente minore, per quanto fastidioso, si rivela infatti l’innesco di tensioni con evidenza latenti, nascoste sottotraccia. E devastanti.
L’esito è un’esplosione, in sostanza, che cancella il confine tra vita civile e regressione a quella primitiva, con una picchiata decisa e drammatica verso i gradini più bassi di questa ipnotica marcia indietro nella convivenza. Il libro è del 1975 e pur senza aver perso nulla della sua freschezza – i meccanismi fondamentali del vivere umano restano intatti, nonostante il variare delle dimensioni dei televisori e, dalla loro comparsa, dei cellulari – è facile leggerci le speranze di tempi che progettavano una società diversa, più libera, meno irrigidita. Al lettore di oggi stabilire se quella ‘liberazione’ che irrompe in maniera progressiva quanto inesorabile segni l’affrancamento dell’Uomo da orpelli e costrizioni o metta invece in guardia da ciò che può accadere quando si rivoluziona tutto.
Raccontato in prima persona da uno degli inquilini del Condominio, il libro segue un passo dopo l’altro il percorso lungo la scala della tensione – e sarà facile verificare quanto il riferimento a gradini e scale non è solo un artificio retorica per questa occasione – con una freddezza che enfatizza l’impatto della storia, una cronaca che chi legge percepisce distante da sé ma tanto vicina da poterla toccare. Separata da una parete sottile, come quelle del lussuoso condominio, quelle che lasciano sentire tutto ciò che accade nell’appartamento accanto. Una parabola, come tutte quelle che raccontano le debolezze umane, che non passa di moda. Anzi. Insomma, doveva andare tutto bene e in un certo senso è stato senz’altro così. Ma poteva (o potrebbe?) andare decisamente peggio.
(Bruno Alberti)
Soviet Bus Stop – Christopher Herwig
E’ a Natale di 30 anni fa – per l’Occidente, ma non per la Russia ortodossa che lo festeggia il 7 gennaio – che la bandiera rossa con la falce e martello viene ammainata dalle mura del Cremlino. Mikhail Gorbaciov si dimette da presidente dell’Urss e l’impero sovietico si dissolve per sempre. A 30 anni di distanza da quell’esperienza, nell’immenso spazio delle repubbliche socialiste che tutte insieme costituivano il Paese più grande del mondo, rimane un apparato di simboli e architetture che ancora oggi le accomuna e che anche in Europa riconosciamo come familiare: le piazze con al centro l’immancabile statua di Lenin; i palazzi del potere imponenti e austeri o i tristi condomini di pannelli prefabbricati, le inconfondibili ‘krusciovke’ – volute appunto da Nikita Krusciov – tutti uguali da Vladivostok all’Asia centrale. Nell’omologazione estetica dell’immenso impero ci sono, però, soprattutto negli ultimi decenni della sua esistenza, momenti in cui la creatività prende il sopravvento su cliché e canoni predefiniti.
Come nel caso delle fermate degli autobus, che nel suo libro Soviet Bus Stop, il fotografo Christopher Herwig fissa come la dimostrazione che “dietro la Cortina di ferro, milioni di individui amavano sognare a occhi aperti, volevano forzare i limiti della creatività e avevano bisogno di un modo per condividere tutto questo”. In 12 anni, Herwig percorre 30.000 chilometri, dal Mar Nero ai Monti Altaj, e fotografa eccentriche fermate di bus, spesso ormai in disuso, il cui fasto stride con il banale uso quotidiano a cui erano invece destinate: mosaici colorati, geometrie bizzarre, costruzioni fuori misura che sembrano piombate nella steppa da un futuro indecifrabile. Un libro non da leggere in senso letterale, ma con cui fare un viaggio nel tempo. Dal Kazakistan alla Lituania, passando per Abkhazia e Armenia, perdendosi per paesini dai nomi impronunciabili, in un’atmosfera sospesa, in attesa di quel bus che forse non arriverà. Ma in fondo poco importa.
(Marta Allevato)
Il Partito Radicale – Gianfranco Spadaccia
Dalla fondazione nel 1955 alle campagne per i diritti civili, dall’ingresso in Parlamento alle candidature di Toni Negri ed Enzo Tortora, dal partito transnazionale alla Lista Bonino e alla battaglia per la legalità. Mancava una storia documentata, e in presa diretta, di una presenza fondamentale nella politica italiana come quella del Partito Radicale. A colmare questa lacuna è Gianfranco Spadaccia, giornalista, classe 1935, appena ventenne membro del Comitato promotore del movimento e più tardi affermatosi come uno dei principali leader radicali, di cui diventò segretario, oltre a essere deputato e senatore in tre legislature. ‘Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia’, edito da Sellerio, è il tentativo di mettere per la prima volta in fila gli avvenimenti che hanno contrassegnato la vita dei radicali.
Ma attenzione, avverte Spadaccia “chi si aspettasse un libro di segreti e pettegolezzi rimarrebbe deluso. Questa è una storia di fatti, che nascevano dalle nostre idee e dai nostri principi”. Non una storia “di gruppi dirigenti e delle loro lotte intestine”, ma quella di “una forza politica minoritaria che non avendo mai, salvo eccezionalmente e per brevi periodi, avuto responsabilità di governo e non avendo mai fatto parte dell’establishment, è riuscita ciò nonostante a imporre riforme che hanno contribuito a trasformare la cultura di questo Paese”. Un partito aperto e inclusivo, senza probiviri e obblighi di obbedienza, aperto anche a iscritti di altri movimenti. Un partito con un grande leader politico, Marco Pannella, “carismatico ma non un guru”, e sempre circondato “di gruppi dirigenti di notevole qualità con i quali si confrontava in continui incontri di lavoro, in una forte dialettica democratica”.
Spadaccia nel suo excursus sui 60 anni di storia del partito non manca di ricordare l’impegno del partito “per una certa idea di legalità fondata sulle garanzie del diritto. Non ce ne siamo dimenticati quando ‘Mani Pulite’ sembrava premiare le nostre inascoltate battaglie contro la corruzione, ma veniva condotta usando e abusando della carcerazione preventiva come arma di pressione”. In chiusura, una domanda senza risposta: “Cosa ha impedito all’alternativa radicale, fatta di opposizione intransigente al potere partitocratico ma anche di indubbie capacità riformatrici, di imporsi rispetto alle alternative populiste – Lega, Rete, Italia dei Valori, 5 Stelle? E’ una domanda a cui altri devono dare una risposta, posso solo dire che i radicali non sono mai stati ‘sfascisti’ nei confronti dei nostri avversati e meno che mai delle istituzioni”.
(Gianluca Allievi)
Cecità – José Saramago
Il mondo che credevamo di vedere è scomparso. Al suo posto solo ombra, solitudine e miseria. Cecità racconta (e anticipa), con una durezza quasi profetica, l’oscurità e la disperazione di un virus sconosciuto che colpisce l’umanità, lo stesso ‘buio’ che ha travolto il mondo venticinque anni dopo (il libro è stato pubblicato nel 1995), con lo scoppio della pandemia da Covid.
È la narrazione cruda, violenta, e straordinariamente attuale, di una malattia sconosciuta che prende forma piano piano e progressivamente si diffonde in tutta la città, indefinita, e nel Paese. Un “male” metaforico che mette a nudo le debolezze umane.
Un uomo fermo in macchina, a un semaforo, all’improvviso perde la vista. Ma non si tratta di un singolo caso: è l’inizio di un’epidemia, “un mal bianco”. I ciechi vengono presi, nelle loro case o per la strada, e rinchiusi, costretti a vivere in isolamento da coloro che non sono stati contagiati. Un inferno a cui è destinato chi non ha più la vista.
“Finché non si fossero trovate la terapia e la cura e, chissà, magari un vaccino per prevenire l’insorgenza di casi futuri, tutte le persone che erano diventate cieche, nonché quelle che vi fossero state in contatto fisico, in vicinanza diretta, sarebbero state radunate e isolate, in modo da evitare ulteriori contagi, i quali, nel verificarsi, si sarebbero moltiplicati più o meno secondo ciò che matematicamente si suole denominare come progressione geometrica”.
Saramago riesce a fotografare, la paura dell’altro, del ‘contagio’ con cui, ora, abbiamo imparato a convivere, ma che prima ignoravamo. L’abbrutimento e la miseria di un mondo in cui l’istinto di sopravvivenza porta l’uomo a commettere azioni deprecabili. Per poi restituirgli, di colpo, la vista, la luce e con essa la triste consapevolezza: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono”.
(Giorgia Ariosto)
La famiglia Karnowski – Israel Joshua Singer
Come la racconteremo questa storia? Come racconteremo questo tempo? Anzi: come lo racconteranno? Perché si è fatto strada in me il dubbio che non saremo noi a raccontare di questi anni sospesi, dei giorni straordinari che scorrono sempre uguali, delle paure che prendono il posto delle emozioni. Il paragone tra questa pandemia e una guerra (non importa quale, purché ci siano vittime ed eroi, ma soprattutto un nemico da sconfiggere) è abusato, ma forse un altro parallelo può aiutarci a immaginare come potrebbero andare le cose nella narrativa futura di ciò che stiamo vivendo. Futura, perché quella contemporanea – tanto abile a raccontare di epidemie, guerre termonucleari e varie catastrofi globali purché siano frutto di fantasia – sembra incapace di fare i conti con la realtà. Gli autori sembrano come di fronte a un tabù che non si può ancora raccontare, ma che un giorno qualcuno dovrà pure affrontare.
È già successo? Sì in un altro tempo in cui ai contemporanei sembrava impossibile che quello che accadeva intorno a loro stesse accadendo davvero. Le persecuzioni antisemite degli anni del fascismo e del nazismo sono forse l’evento meno raccontato da chi lo stava vivendo e uno strano destino fa sì che alcune delle storie di maggior successo siano state scritte molti decenni dopo e siano frutto di fantasia, come se l’orrore nazista non fosse già sufficientemente ‘creativo’. Ci sono due romanzi che affrontano in un modo esemplare il punto di vista degli ebrei perseguitati: uno è ‘Suite francese’ di Irene Nemirovsky e l’altro è ‘La famiglia Karnowski’ di Israel Joshua Singer. Esemplari perché, a differenza dei libri di Primo Levi, non sono frutto di una elaborazione ex post, ma dell’esperienza vissuta nell’immediatezza degli eventi.
Nemirovsky morì ad Auschwitz nel 1942, Singer nel 1944 a New York, dove era emigrato dieci anni prima proprio per sfuggire alle persecuzioni. Nessuno dei due vide la fine del nazismo e nessuno di loro era pienamente a conoscenza delle cose che di lì a pochi mesi sarebbero precipitate sulle spalle e sulla coscienza dell’umanità. Eppure raccontarono quello che stavano vivendo in un modo completamente diverso. Nemirovsky con un registro quasi lirico e trasognato, tanto che la protagonista ebrea del suo romanzo cede al fascino dell’ufficiale nazista senza nemmeno rendersi conto di ammirare il suo futuro carnefice. Singer invece lo fa con lucidità e consapevolezza, indicando, pagina dopo pagina, tutti quegli indizi che si andavano accumulando e che, se letti con attenzione, avrebbero mostrato anche ai più scettici la tragedia che si stava prima preparando e poi compiendo.
Ogni capitolo della saga di Karnowski è un passo verso l’inferno che sarebbe stato la Shoah, un campanello d’allarme che suona in un mondo di sordi. E il fatto che il libro sia stato pubblicato nel 1943 solo in yiddish è la prova di quanto l’intenzione di Singer fosse quella di essere ascoltato da quegli ebrei che ovunque – anche in America – si ostinavano a ignorare quei campanelli e nascondevano le persecuzioni subite quasi fossero una vergogna. Ma questo romanzo è anche qualcosa di più intimo e profondo: un viaggio nella perdita dell’identità che dà gioco facile al carnefice quando deve affondare la sua lama. Dal capostipite, il devoto e sapiente David, attraverso l’agnostico e affascinante Georg fino all’ultimo, il devastato Jegor, quella dei Karnowski è una discesa verso una dissoluzione che, prima di essere fisica, è stata identitaria, nel momento in cui l’individuo ha perso contezza di sé fino a disconoscersi e disprezzarsi al punto di desiderare di somigliare al proprio aguzzino. Lo sguardo estremamente lucido di un contemporaneo verso la tragedia del suo tempo. Al di là della semplice cronaca: un viaggio nell’animo umano devastato dall’orrore incombente. Una voce e un registro che forse gli autori nostri contemporanei non hanno trovato per raccontare ciò che ancora si fa fatica a credere.
(Ugo Barbàra)
Di chi è la colpa – Alessandro Piperno
Un papà un po’ cialtrone e oppresso dai debiti. Una mamma severa e gelosa custode del proprio passato. Un fatto di sangue che cambia per sempre la sua vita e le vite di chi gli sta intorno. Difficile dimenticare il protagonista di “Di chi è la colpa” (Mondadori, 20 euro), il romanzo che segna il ritorno in libreria di Alessandro Piperno cinque anni dopo “Dove la storia finisce”. Protagonista di cui seguiamo l’intero percorso di vita, dall’adolescenza all’età adulta, in una parabola segnata dall’attrazione crescente – ai limiti della fascinazione – per i Sacerdoti, la famiglia della madre, che nelle poche ore di una festività ebraica lo porteranno a scoprire le sue origini trasformandolo in poco tempo in una persona completamente diversa.
L’amore senza futuro per una cugina eccentrica e capace come nessuno di leggergli dentro, l’ammirazione per uno zio dall’ego smisurato che gli insegna a ‘vivere’, la relazione con la ragazza più bella e corteggiata del liceo favorita da una indicibile menzogna. E poi l’amore per i viaggi, la passione per la letteratura, la scoperta della religione. Tutto ruota – come suggerisce il titolo – intorno al tema della colpa (“E’ così che siamo fatti, no? Nei momenti di crisi – ammette l’io narrante – quando le cose prendono il verso sbagliato, non resta che guardarsi intorno in cerca di qualcuno a cui affibbiare la colpa”) che, con il mutare della prospettiva, e il passare del tempo, cambia di volta in volta ‘padrone’ in una inesausta ricerca della verità che coinvolge tutti i personaggi costringendoli a confrontarsi con i propri dubbi, i propri traumi, le proprie identità nascoste.
Quella di Piperno – già vincitore di un Campiello, di uno Strega e, in Francia, di un Prix du meilleur livre etranger – è una scrittura lucida, accuratissima, affabulatoria, che non smarrisce mai la sua capacità di introspezione psicologica. Specie nel lungo, struggente finale, capace di
mescolare angoscia, disincanto e redenzione.
(Stefano Barricelli)
Ryszard Kapuscinski – L’altro
“Il mondo in cui stiamo entrando è il Pianeta della Grande Occasione”. E l’incontro con l’altro diventa “la sfida del XXI secolo”. Ossigeno e benzina, tra le pagine de “L’altro”, un saggio-testamento spirituale firmato da Ryszard Kapuscinski uno dei padri del reportage. E’ un libro quanto mai attuale in questo periodo di muri e barriere: per colpa del virus (gioco forza) l’altro diventa una (costante) potenziale minaccia in quanto possibile asintomatico. La Storia, tuttavia, è una ruota. E la diffidenza verso l’altro è stata una costante. “Se i greci chiamavano ‘barbaro’ i non greci – ricorda il giornalista – se i romani costruivano contro gli altri fortificazioni di pietra, ‘limes’, se i cinesi chiamavano ‘yang-kwei’, mostri marini, i non cinesi che arrivavano dal mare, oggi tra uomo e uomo si è inserito un intermediario, un impulso elettronico, una rete, un satellite”, ovvero i social e il virtuale.
Chissà cosa avrebbe scritto Kapuscinski – morto nel 2007 a Varsavia – in tempi di Covid. Ora è il virus lo steccato. Guardarsi negli occhi a poca distanza è diventato un lusso. Ma anche nei secoli scorsi, si scopre leggendo questo saggio, il rapporto con l’altro non è mai stato semplice. “Ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro ha sempre avuto tre possibilità di scelta: fargli guerra, isolarsi dietro un muro o stabilire un dialogo”. Ed è proprio la terza strada, l’opportunità da seguire. Tuttavia, nulla è scontato. “Per la mentalità del reporter il viaggio significa sfida e sforzo, fatica e sacrificio”. “Ripensando ai miei numerosi viaggi per il mondo mi sembra che il problema più inquietante non siano state tanto le frontiere – scrive Kapuscinski – le difficoltà e i pericoli quanto la sempre rinascente incertezza circa il genere, la qualità, l’esito del mio incontro con gli altri”. Una ‘piccola cassetta di attrezzi del mestiere’ ci regala il giornalista polacco testimone di ben 27 guerre, imprigionato 40 volte e scampato a 4 sentenze di morte. E l’altro diventa proprio il filo rosso che lega tutta la sua carriera, la passione per i viaggi unita ad una forte curiosità per il mondo “un fenomeno raro”.
Ne “L’altro” brillano sprazzi del Kapuscinski reporter, vagabondo della storia, un maestro. Non aveva l’aspetto di un Indiana Jones. Chi lo ha conosciuto è rimasto sorpreso dalla sua figura non certo appariscente: bassa statura, quasi pelato, vestito con camicia scozzese da operaio polacco. Le sue armi erano ben più potenti. Scarpe e penna, taccuino sempre in tasca, capacità di sorprendersi e di non seguire la massa. Infanzia povera segnata dal freddo, dall’esilio e dalla fame, sognava di diventare il portiere della nazionale polacca. Poi i primi viaggi allo sbaraglio in Asia e Africa come corrispondente dell’agenzia di stampa polacca Pap.
Pochi soldi tanto da essere costretto (a differenza dei colleghi americani) a inviare telex di massimo 200 parole. Fu la sua fortuna perché con poche frasi asciutte e fulminee riuscì a descrivere carestie e complesse guerre tra tribù. In questo saggio c’è solo il profumo dei viaggi sui bus affollati o sui camion dei contadini in sperduti villaggi africani. Accanto al giornalista emerge, infatti, lo storico. E il reporter con uno sguardo profondo anche per la letteratura e la filosofia (moderna e contemporanea) incentrata sull’oggetto del suo lavoro: l’altro, appunto. Ecco così materializzarsi il ‘pantheon’ di Kapuscinski: Erodoto, il saggio viaggiatore, la ‘bussola’ da seguire (“la xenofobia è la malattia di gente spaventata”) la filosofia di Emmanuel Levinas (“accettare l’altro benché diverso considerando un valore questa sua alterità”) e l’antropologo Bronislaw Malinowski (“prima di giudicare bisogna recarsi sul posto”).
“Gli altri sono lo specchio in cui guardarsi e capire chi si è” e allo stesso tempo “è importante avere chiaro il senso della propria identità per confrontarsi liberamente con una cultura diversa”, un’altra considerazione significativa nel saggio composto da quattro conferenze tenute tra il 1990 e il 2004. Mantenere dunque la propria identità erosa dal caos della società globalizzata e caotica senza rinunciare al confronto e al dialogo, la sfida da affrontare. Il saggio si conclude con quello che personalmente immagino come un buon proposito per il (mio) viaggio che verrà (sognare non costa): “l’esperienza di tanti anni trascorsi in mezzo agli altri di paesi lontani mi insegna che la benevolenza nei loro confronti è l’unico atteggiamento capace di far vibrare la corda dell’umanità”.
(Stefano Benfenati)
Il Muro di Berlino – Frederick Taylor
La ricostruzione di uno dei momenti più drammatici ed importanti della storia della ‘guerra fredda’, “Il muro di Berlino” nel libro del giornalista e storico inglese Frederik Taylor è un contributo interessante ed approfondito su come nel corso dei quasi tre decenni (13 agosto 1961-1989) viene vissuto lo scontro Est-Ovest e su quali furono le difficoltà che portarono alla sconfitta del comunismo non solo nell’Urss ma anche e soprattutto nei paesi ‘satelliti’, come appunto la Ddr di Honecker, travolta dalla crisi economica e dalla dipendenza dei fondi di Bonn per sopravvivere.
Nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, nell’inquietante scenario di un mondo sull’orlo della distruzione atomica, Berlino – ricorda l’autore – venne tagliata in due da un reticolo di filo spinato che separò, talvolta per sempre, genitori e figli, fratelli, amici e amanti. L’operazione, tanto inattesa quanto fulminea, riuscì grazie alla perfetta efficienza con cui fu compiuta. Lo scopo dichiarato di Walter Ulbricht, il leader tedesco orientale che l’aveva ordinata, era porre fine al continuo esodo di popolazione verso la parte occidentale della città (ancora controllata dalle forze armate di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia), unico ponte per raggiungere la ricca Germania Ovest.
La mossa si rivelò vincente: nonostante l’angosciato sgomento di 4 milioni di berlinesi e lo sdegno dell’opinione pubblica mondiale, divenne subito chiaro che ogni reazione era di fatto impossibile, e comunque troppo rischiosa. Intrecciando dati ufficiali, fonti d’archivio e testimonianze personali, Frederick Taylor racconta tre decenni della storia di una capitale e di una grande nazione europea che, in un lungo e tormentatissimo dopoguerra, improvvisamente si trovarono spaccate a metà. Secondo la Procura federale tedesca, a Muro caduto, 86 persone “morirono per diretta conseguenza di violenze subitepresso il Muro”. Il sito finanzialo dal governo cita 125 vittime, comprese guardie di confine orientali uccise in scontri a fuoco e qualche sfortunato la cui morte è collegata per via indiretta (un signore morì per infarto durante un controllo). L’elenco a cui si aggiungono i “liquidati” dalla ferocia della Stasi porta a 227 morti, ricorda il libro.
Oltre che sulle trame politiche, l’interesse di Taylor si concentra sulla vita quotidiana, sulle paure e sulle speranze dei berlinesi prigionieri che, con sempre più ingegnosi e disperati tentativi di fuga, favorirono paradossalmente la trasformazione dell’originario reticolato nell’alto muro che li avrebbe privati a lungo della libertà. Appare nel resoconto preciso del libro ben chiaro subito a Johnny Fitzgerard Kennedy che l’unica strada e’ condannare l’atto, ma non si poteva andare oltre per non rischiare un pericoloso conflitto nucleare. E’ la logica della ‘guerra fredda’, quindi tutti fermi in attesa deli avvenimenti. Ma si deve aspettare la notte del 9 novembre 1989 quando un fatale malinteso – l’annuncio che “la Rdt apre le frontiere” – scatenò la reazione la caduta del Muro che fu annunciata al mondo.
Ma era il frutto della crisi sovietica, del Gorbaciov che “non era Krusciov, che aveva sempre finito per pagare. I sovietici – scrive l’autore – si rifiutarono di tirare fuori dai guai il regime, finanziariamente e militarmente. Il messaggio era chiaro: si salvi chi può, ogni comunista per sé”. Krenz, successore di Honecher, capì che la strada era segnata e la fine si avvicinava con l’opposizione che cresceva nelle piazze ed i carri armati russi che vigilavano senza intervenire. Da qui – ricorda Taylor – si corse fino alla fine del regime e al primo voto libero della Rdt in quasi sessant’anni il 18 marzo 1990 e la unificazione tedesca che prendeva corpo sempre più con forza. “fu senz’altro Kohl – scrive l’autore – che riuscì a far accettare l’idea con energia e determinazione e con insuperabile (a detta di alcuni disastrosa) capacità di soffocare le apprensioni sociali ed economiche in nome dell’obiettivo politico”.
(Domenico Bruno)
Ma l’amore mio non muore – Autori Vari
Più che un libro vero e proprio, ormai quasi introvabile uno spaccato delle ‘cultura alternativa’ della fine degli anni ’60. E’ ‘…ma l’amor mio non muore’, Testo cult della storia del movimento antagonista italiano. Ci sono le voci dei situazionisti, dei beat, dei capelloni, degli autonomi. Nato con l’intento di ‘istruire’ e far sentire una comunità i giovani che volevano abbattere “lo stato borghese”, il volume, a distanza di oltre 40 anni dalla sua uscita, la prima edizione è del 1971, è ormai un libro di storia. Una storia minima ma che rende l’idea dei giovani, o almeno di una parte di questi, di quell’epoca.
Mette insieme hippies e rivoluzionari, spiegando ai primi come realizzare collanine e braccialetti con chiodi e fil di ferro e ai secondi come costruire molotov e difendersi dai gas lacrimogeni. A tutti come piantare e far crescere la marijuana. E ancora, come comportarsi se viene fermati e interrogati dalla polizia ma anche come preparare ricette afrodisiache e indicazioni su come installare un ripetitore radio pirata. Istruzioni ormai superate e reperibili facilmente dalla rete ma all’epoca dirompenti tanto che l’allora magistrato Vittorio Occorsio parlò di “espressione di un atteggiamento sovversivo, inconcepibile e imperdonabile”. Rischiò quindi il sequestro ma prima che venisse bloccato andò esaurito. Venne così ripubblicato in Francia e reimportato in Italia tramite un distributore di Marsiglia.
Stampato in stile ‘dadaista’ con formati e caratteri diversi a ogni pagina riporta anche documenti di collettivi studenteschi e operai riprodotti in forma originale, così come articoli di giornale. Scritto a più mani è stato ristampato nel 1997 e poi nel 2003. Bellissime le vignette e le foto d’epoca. In copertina una immagine storica di uno dei primi scontri a Milano con un gruppo di manifestanti che impugna bastoni, ‘antenati’ delle chiavi inglesi che diventeranno negli anni successivi il simbolo dei cortei violenti, che aggrediscono un poliziotto. E la presentazione: “origini documenti strategie della cultura alternativa e dell’underground in Italia.
(Salvatore Carloni)
Gilgamesh – Edizione a cura di Andrew George
C’è un testo, antichissimo, che a scuola non viene insegnato. Un poema, un’epopea che narra le gesta di un re vissuto quasi cinquemila anni fa, raccontata da un autore il cui nome non ha mai raggiunto la fama di Omero ma che, come il narratore cieco dell’Iliade e dell’Odissea, ha raccolto dandogli forma poetica racconti risalenti fino a mille anni prima – orali o scritti – mettendoli insieme a formare un corpus unico di altissimo livello letterario. Il testo è noto come Saga di Gilgamesh e l’autore – questo esistito veramente a differenza di Omero di cui non è certa l’esistenza – si chiamava Sin-leqi-unninni, colto esorcista e sacerdote babilonese vissuto a Uruk, città-stato della Mesopotamia (nell’Iraq meridionale), tra il XIII e l’XI secolo avanti Cristo.
Le gesta del mitico re di Uruk Gilgamesh sono raccontate sulle tavolette d’argilla ritrovate nella ex Mesopotamia a partire dal 1850 e assemblate con difficoltà negli anni a causa della loro pessima condizione e perché distribuite in molti musei del mondo. La versione finale della Saga di Gilgamesh, quella considerata la versione ‘standard’ firmata da Sin-leqi-unninni (il suo nome compare effettivamente su ogni tavoletta della saga), è in continuo aggiornamento. Dalla prima versione di 100 anni fa dell’assirologo tedesco Arthur Ungnad (che affascinò il poeta Rainer Maria Rilke nel 1916) ad oggi il testo è diventato sempre più corposo e comprensibile e sono sempre meno le lacune – seppure ce ne siano ancora moltissime e di significative – che rendono difficoltosa la lettura o la comprensione.
Adesso, a oltre vent’anni dalla sua pubblicazione in Inghilterra, Adelphi porta in libreria ‘Gilgamesh’ (pagg. 308 – euro 24), l’edizione a cura di Andrew George che offre la traduzione (per ora) più aggiornata dell’epopea del re di Uruk. Una versione realizzata quasi dieci anni dopo quella storica di Giovanni Pettinato (pubblicata da Rizzoli nel 1992) che si avvale di nuove traduzioni di tavolette provenienti dai vari musei del mondo. Il più antico poema epico dell’umanità, scritto in accadico (dialetto babilonese usato dal popolo) e firmato da Sin-leqi-unninni, si intitola ‘Colui che vide il profondo’, dalla frase iniziale dell’opera. L’autore, nella sua versione definita ‘standard’ o ‘classica’, ha messo insieme in un corpus unico e di alto valore letterario l’epopea del mitico re della città-stato di Uruk, vissuto secondo la leggenda tra il XXIX e il XXVIII secolo avanti Cristo e divinizzato dopo la sua morte avvenuta alla fine di un regno durato 126 anni.
Il testo, di cui l’edizione Adelphi offre la versione più aggiornata, sommariamente ‘debitore’ dei cinque poemi sumerici su Bilgamesh del XXII secolo a.C. – oltre che dei racconti orali e dell’epopea paleo-babilonese scritta in accadico del XVIII secolo dal titolo ‘Superiore a tutti gli atri re’ – è stato riportato alla luce nel 1853 in diverse ‘copie’ (oggi se ne contano 35) fra le rovine del palazzo di Assurbanipal a Ninive ed è composta da 11 tavolette con una lunghezza variabile da 183 a 326 versi (più una dodicesima aggiunta probabilmente al testo per affinità di materiale che altro non è che una traduzione in accadico della seconda metà del poema sumerico ‘Bilgamesh e gli Inferi’).
All’inizio del terzo millennio se ne contano in tutto 73: i 35 manoscritti di Ninive (dove gli scribi avevano ricopiato la saga di Sin-leqi-unninni per volontà di re Assurbanipal che li voleva nella sua biblioteca) e quelli provenienti da altri siti – otto dalle città assire di Assur, Kalhu e Huzirina e trenta dai siti archeologici babilonesi, soprattutto da Babilonia e Uruk – ma moltissime tavolette ancora non sono state tradotte perché in condizioni pessime o perché mancano assirologi in grado di decifrare la scrittura cuneiforme. Al momento, di un poema costituito da circa tremila versi ne mancano all’appello 575 mentre; altri sono seriamente danneggiati e, quindi, inutili. In definitiva, oggi è possibile avere un testo consecutivo e comprensibile di meno di quattro quinti dell’opera di Sin-leqi-unninni.
L’epopea babilonese di Gilgamesh, che era all’epoca molto diffusa al punto da venir tradotta anche nelle lingue ittita e hurrita (come si vede da tavolette ritrovate in Anatolia e in Siria), viene ora riproposta al pubblico in un volume che aggiunge al contenuto artistico molte informazioni sull’opera. In ‘Gilgamesh’, infatti, viene ripercorsa la storia del ritrovamento del più antico poema dell’umanità e viene proposta una versione accurata ed ‘elegante’ dell’epopea ‘standard’. Inoltre vengono riportati i poemi sumerici su Bilgamesh che hanno fornito il materiale grezzo a Sin-leqi-unninni per la sua opera. Nel volume vengono anche inserire le tavolette più importanti oggi conservate in vari musei del mondo che hanno permesso di integrare le lacune e rendere comprensibile l’intera saga di Gilgamesh.
In definitiva l’edizione a cura di Andrew George pubblicata oggi permette di riscoprire un testo antichissimo che negli anni a venire potrebbe essere inserito di buon diritto nei programmi scolastici. Un testo che parla, infatti, di temi di attualità stringente come la paura della morte, il gusto del viaggio e dell’avventura, la necessità dell’uomo di inseguire la conoscenza, l’amicizia, il rapporto con l’aldilà e con dio. Un testo che offre anche immagini sessuali e altre macabre (quasi gotiche) che sembrano appartenere alla letteratura moderna. Importante, infine, l’episodio raccontato nella tavoletta XI da cui hanno attinto gli autori della Bibbia ebraica, dove si trova il racconto del Diluvio universale, con tanto di Noè babilonese (Utnapishtim) che costruisce una grande barca e vi mette in salvo gli animali, le persone più valide e i semi di tutte le piante del mondo.
Merita infine una citazione, tra i tanti, un passo di alto valore letterario che si trova nella tavoletta X in cui Gilgamesh esprime lo sconforto umano di fronte all’inevitabile e assurdo destino mortale. “L’uomo si spezza come canna in un canneto! Il giovane avvenente, la bella fanciulla – [troppo presto nel fiore degli anni] la Morte di ghermisce! Mai nessuno vede la Morte, mai nessuno vede il volto [della Morte], mai nessuno [ode] la voce della Morte, la Morte feroce, che falcia gli uomini. Sempre costruiamo le nostre case, sempre vi facciamo i nostri nidi, sempre i fratelli si spartiscono l’eredità, sempre scoppiano faide nel paese. Sempre il fiume si gonfia e ci porta l’inondazione, e la libellula si libra sull’acqua: sul volto del sole il suo sguardo si posa. Poi all’improvviso non c’è più nulla! I prigionieri e i morti, quant’è simile il loro destino! Mai fu ritratto il sembiante della Morte, mai nel paese i morti salutarono un uomo”.
(Andrea Cauti)
Blu di Prussia e Rosso di porpora – Giovanni Ferrero
Un duello mortale sotto la Cupola della basilica di S. Pietro sta per ripetere dopo duemila anni la cancellazione di un potere millenario. Forze tese a ringiovanire le strutture e l’anima del mondo cattolico per adeguarlo ai tempi in rapida trasformazione, chiudendo per sempre l’era romana per aprirne una nuova e rivoluzionaria, e di fronte forze a difesa tenace e disperata del vecchio assetto secolare si scontrano senza esclusione di colpi.
Questo lo sfondo di una vicenda a mezza via tra il poliziesco e il teologico raccontata in “Blu di Prussia e Rosso Porpora” di Giovanni Ferrero, per Salani Editore, che si snoda a Roma e che vede come protagonisti uno stanco e sfiduciato ispettore di polizia sull’orlo della pensione, un vecchio e ambiguo cardinale tradizionalista e un famoso pittore sensibile e sognatore. Completano il quadro due donne che ruotano intorno al pittore, una restauratrice colta e sagace ed una giovane botanica a perenne caccia di fiori.
Il rapimento di un cardinale di colore è l’evento che mette in moto il meccanismo di questo originale romanzo pieno di spunti, dove l’amore e l’ammirazione per l’immutabile fascino della città eterna si stempera nei pennelli di due artisti che si legano in una avventura dalle mille sfaccettature.
Ed è così che il lettore viene accompagnato in itinerari romantici lungo i tortuosi percorsi della Roma rinascimentale fino alle stanze dove il pittore e la restauratrice raccolgono preziosi momenti di intimità e spunti di ricerca della soluzione di un fatto clamoroso che sta sconvolgendo la quiete sonnacchiosa dell’ispettore e che sta strappando il pittore dal suo mondo fantastico.
La tela di un ambiguo dipinto appena restaurato rinvenuto devastato dall’acido e la morte misteriosa dell’assistente del cardinale africano, aggiungono al quadro complessivo il colore cupo che i tubetti che alimentano la tavolozza del pittore e della restauratrice non riescono fortunatamente a dare con lo stesso realismo che possa soddisfarli nella loro caccia ai toni di colore preferiti nelle botteghe di arte della capitale.
Ma per l’ispettore Gravini il rinvenimento di una tela raffigurante il crollo della basilica di S. Pietro e le considerazioni del cardinale sulla società corrotta e decadente che secondo lui avrebbe logorato una fede millenaria sotto la spinta di un cattolicesimo liberale, avevano un significato simbolico che era molto di più di una semplice prova.
L’ispettore era convinto di essere finito in mezzo ad un groviglio di forze, di pulsioni e di obiettivi in contrasto tra loro, ma tutti governati da menti spietate decise a raggiungere le loro mete senza scrupoli e carità.
In suo aiuto giunge una anziana suora, Suor Agathe, esperta di antiche religioni e di esoterismo alla quale l’ispettore ricorre quando nelle stanze del cardinale di colore vengono rinvenute statuette del culto voodoo. Tutto questo mentre cominciano ad intrecciarsi manovre preparatorie in previsione di un prossimo conclave, dato che il papa è morente e la scelta del nuovo pontefice si profila molto combattuta.
Tuttavia la soluzione dell’intrigo alla fine sarà facilitata dall’alleanza tra suor Agathe e l’ispettore con il supporto dell’ improbabile pittore, improvvisatosi investigatore dilettante, ma sagace quanto basta per sciogliere dei nodi che erano sfuggiti alla sua distrazione.
C’è da dire che una delle caratteristiche di questo romanzo è lo spazio che l’Autore lascia alla descrizione, piena di affettuosa ammirazione, della città di Roma, tale da invogliare nel lettore il desiderio di andare a dare un’occhiata a scorci, monumenti e dettagli descritti per bocca del pittore e della restauratrice Chiara, in modo tale da chiedersi se ci si trovi di fronte ad un bel libro giallo, un libro di teologia o addirittura ad una guida turistica. Certamente è un po’ di tutto questo, e sarà chi legge a poter giudicare.
L’Autore, torinese, esperto di marketing e laureato in Scienze alimentari ha mostrato una sorprendente competenza in materia di arte pittorica e di monumentalità romana, il tutto impiegando una tecnica narrativa di indubbia efficacia da avvincere il lettore fin dalle prime righe per condurlo per mano fino al sorprendente finale.
(Maria Letizia D’Agata)
‘Lasciatemi divertire’ – Nicoletta Grillo
Perché si può insegnare a suonare la chitarra, a cantare, a dipingere un acquerello e non a scrivere una poesia? Nasce dalla voglia di confrontarsi con questo tabù ‘Lasciatemi divertire – quaderno di un poeta in erba’, il libro di Nicoletta Grillo che vuole ‘desolenizzare’ un esercizio alla portata di grandi e piccoli, se si sperimentano alcuni semplici suggerimenti che, da autrice di versi, ha deciso di divulgare. E per tutti scrivere versi può significare aprire una finestra e farci entrare aria fresca, così fresca da svelarci parti di noi e del mondo intorno a noi che mai avremmo altrimenti conosciuto nel loro nocciolo.
Il libro è concepito graficamente proprio come un quaderno dove poter scrivere e ritagliare le parole come se fossero dei pezzi di Lego. Le parole più importanti, per Grillo, sono quelle incontrate per caso. Tra i consigli c’ è quello di raccoglierne ogni giorno un paio, segnarle su dei post-it di colori diversi e, quando se ne ha voglia, tirarle fuori dal cassetto e ‘distribuirle’ in modo che salti fuori una poesia. “Bella o brutta non importa, si impara a cantare, a suonare, a scrivere una poesia perché è bello non perché bisogna diventare i migliori”. Un altro innesco di fantasia può essere ritagliare pezzi di giornali e trasformare anche grevi cronache in parole alate. La regola più importante è non pensare che ci sia un crudele professore a giudicare la nostra opera ma cancellare, strappare, rifare, lasciarsi ‘vincere’ dalla leggerezza e anche dalla tenerezza per le cose del mondo, anche quelle che sembrano avere un cuore duro.
(Manuela D’Alessandro)
Ho visto i lupi volare – Giovanni Tota
Dal campo in carbonella al nuovo stadio inaugurato dalla Juventus, la storica promozione in serie B che coinvolge una intera regione, e ancora personaggi locali ormai scomparsi, l’entusiasmo e il trasporto di un bambino, poi diventato adulto nel libro “Ho visto i Lupi volare” (Creativin edizioni, pp248), del giornalista molisano Giovanni di Tota. Un lavoro autobiografico che parte dagli anni Settanta, seguendo le gesta della squadra di calcio del capoluogo.
Alla storia nota del percorso calcistico rossoblù, Giovanni di Tota intreccia, in un equilibrio delicato e assolutamente commovente, vicende della sua famiglia, degli amici e della città. Il tamburo, la curva, le trasferte negli anni del liceo e dell’università. I volti noti di quei tempi raccontati nei loro aspetti personali e umani, aneddoti di tutta una generazione. Un viaggio nei sentimenti, nei limiti e nelle contraddizioni di una Campobasso che allora, tra gli anni ’70 e ’80, grazie al calcio usciva dal silenzio della provincia e iniziava a cambiare pelle.
(Giuseppe Di Pietro)
Mastro Geppetto – Fabio Stassi
Chi l’ha detto che a Natale bisogna essere per forza più buoni? E chi l’ha detto che, davanti al caminetto, tra presepe e regali, si debbano leggere solo fiabe e lieti fini? A riportare tutto sul piano della crudele realtà è Fabio Stassi con il suo “Mastro Geppetto” (Sellerio, 2021), personaggio laterale di una storia universalmente conosciuta che si ritrova a essere, suo malgrado, al centro della scena.
Lo scrittore romano riscrive la triste storia del papà di Pinocchio, malato di solitudine e anzianità, zimbello del paese per quel figlio, unica gioia di un cuore puro e ingenuo, che nella vita reale non è altro che un pezzo di legno intagliato, seppur con infinito amore. Intorno al Geppetto stassiano, infatti, si agita una società marcia, priva di compassione, capace solo di prendersi gioco dell’elemento più indifeso della comunità. Il falegname ‘Giuseppetto’, tra coperte bucate e altre indigenze, viene così assalito “da un invernarsi improvviso di tutte le cose” che non prospetta nessuna primavera all’orizzonte. La sua ricerca spasmodica di un figlio che non c’è, tra scomparse e nuove apparizioni per via delle burle dei compaesani, rappresenta il triste epilogo di un’esistenza giunta ormai al capolinea, forse con troppi rimpianti. Pinocchio non parla, resta inerte, è un fantasma che non ha bisogno di prendere vita in una casa piena di muffa e decadenza ma resta l’unico motivo di gioia e disperazione a cui si aggrappa il suo creatore.
“Non ho tradito lo spirito originale dell’opera” ha dichiarato l’autore in un’intervista a Repubblica “l’ho soltanto portato alle estreme conseguenze”. Ovvero a una visione del mondo più vicina a quella del Collodi intellettuale, spesso disilluso e rassegnato di fronte alla ferocia espressa dalla contemporaneità. Una visione assai lontana da quella proposta dall’universo Disney. Dentro le pagine di “Mastro Geppetto” si ritrovano tutti i personaggi più noti: da Mastro Ciliegia a Mangiafuoco, dal Grillo parlante a una nuova versione del “Gatto e la Volpe” (uno zoppo e un cieco), fino ad arrivare a “Lucignolo”, forse quello che trova maggior riabilitazione dalla penna di Stassi.
Tutti, però, hanno nomi diversi, aspetti singolari, funzioni narrative non combacianti alla versione classica perché visti attraverso gli occhi dello sfortunato protagonista. Quel che resta di questa fiaba, cruda e senza un finale chiuso, è un senso di malinconia che non ha molto a che fare con il Natale ma che rispetta, in toto, il cinismo della modernità. E forse è quello di cui si ha più bisogno, soprattutto davanti a feste troppo patinate e buoniste.
(Alessandro Frau)
The Disuniting of America – Arthur Schlesinger Jr
Vecchie idee, sempre nuove. Le avessimo ascoltate prima capiremmo meglio il presente, anche se riguardano un passato che non è il nostro. È così che un vecchio saggio scritto da un saggio ormai vecchio era lì, da trent’anni, pronto a farci capire cosa ci sarebbe capitato prima o poi. E noi, sciocchi, lo leggemmo a tempo debito ma senza capirci nulla, o proprio poco. Tanto che concludemmo, noi con gli occhi ancora pieni dei “Mille Giorni di John Fizgerald Kennedy alla Casa Bianca”, che non fosse questo il libro migliore di Arthur Schlesinger Jr, il quale i mille giorni li descrisse, Kennedy consigliò e soprattutto innalzò a mito indistruttibile di beltà e di giovinezza. Sciocchi che non eravamo altro.
Eppure questo “The Disuniting of America”, scritto nel 1991, è chiave oleata per aprire la porta alla comprensione di un’America come quella di oggi, divisa come non mai e preda di sovranismi e Cancel Culture, violenti assalti al Congresso e statue di Colombo stupidamente abbattute. Forse perché solo gli storici vedono i processi delinearsi con anticipo: loro hanno in mano il passato e la ruota si volge, si sa, ma resta sempre immota. Scriveva, Schlesinger lo storico che ci vedeva lungo, come la parcellizzazione della politica, della cultura e del pensiero avrebbe portato ineluttabilmente alla corrosione del tessuto connettivo grazie al quale l’America si regge, e il figlio o il discendente dell’ultimo arrivato prima o poi scopre – e ne è felice – di essere homo americanus.
Ma per ottenere la mirabile trasformazione occorre che si mantenga un minimo comune denominatore, un idem sentire, un pur piccolo spazio di principi e retaggi che non vengano mai messi in discussione. Tutto questo invece non c’è più, o per lo meno rischia di sparire. Non che le radici del fenomeno siano marce. Al contrario: la predominanza della componente wasp e anglocentrica aveva sì portato alla negazione dell’altrui centralità, fosse questa del mondo femminile come di quello afroamericano o ancora degli immigrati italiani, irlandesi o greci, per non dire degli slavi.
Ma, scriveva ancora lui, passare dalla legittima restituzione della dignità e dei diritti all’eccesso di rivendicazione il passo è breve. E vale per tutte le minoranze, siano esse etniche come religiose come di orientamento sessuale. Così il popolo nato per unire rischia di ritrovarsi in pezzi, la reazione del maschio medio bianco sottooccupato e incavolato è dietro l’angolo, il Paese sembra il villaggio di Asterix quando scoppia la rissa di tutti contro tutti. Lo sciamano, del resto, si è già appalesato. Non è solo un discorso valido per gli Stati Uniti. L’Europa, l’Italia, sono sempre più culla di minoranze che paiono più cercare la lite che non la sintesi. Vale quindi la pena di leggere. Mica per altro: per prepararsi. L’anno che sta arrivando tra un anno passerà. L’importante è non dover mettere, un giorno, dei sacchi di sabbia vicino alla finestra.
(Nicola Graziani)
In un volo di storni – Giorgio Parisi
Perché gli storni, che proprio in questi mesi invernali popolano le città, compiono quelle incredibili coreografie in cielo che tutti conosciamo? E come riescono a danzare in aria come una miracolosa intelligenza collettiva? Sembrano le domande di un bambino, ma chi se l’è poste seriamente, e soprattutto è riuscito in anni di ricerca a dare molte risposte, è uno scienziato italiano geniale, che non è nemmeno dovuto emigrare per esprimere il suo talento ma ha dato il massimo nella sua carriera di fisico a Roma: Giorgio Parisi, insignito quest’anno del premio Nobel per la Fisica. Il suo libro ‘In un volo di storni’ è un’agile, godibile ma tutt’altro che banale elegia della scienza, del valore della scoperta, anche se apparentemente fine a se’ stessa. In cui la magia che forse un po’ si perde con la luce della conoscenza (è per sfuggire al falco pellegrino, ad esempio, che gli storni si muovono con quelle ampie volute, e rimangono a distanza regolare l’uno dall’altro per seguire il movimento dei propri vicini laterali, ecc. ecc.) si trasferisce al processo stesso della scoperta:
“In fisica e in matematica – scrive Parisi – è impressionante la sproporzione tra lo sforzo per capire una cosa nuova per la prima volta e la semplicità e la naturalezza del risultato una volta che i vari passaggi sono stati compiuti”. Il libro è allora una avventurosa galleria di questi passaggi, dall’anno impiegato a fotografare in tre dimensioni gli storni da Parisi e il suo team ad altri incredibili esperimenti, come quello australiano che, per studiare le transizioni di fase, fa gocciolare una densissima massa di pece a temperatura controllata addirittura dal 1927: da allora sono cadute nove gocce. Un mondo sorprendente per chi, come me, ha una formazione umanistica: una scienza tutt’altro che sazia di scoperte, e che anzi si interroga su domande inaspettate, come appunto il volo degli uccelli, ma anche il motivo per cui improvvisamente, a una certa temperatura, l’acqua ghiaccia o evapora, in un processo che coinvolge contemporaneamente e istantaneamente milioni di componenti.
E’ a questi campi che Parisi deve la sua fama: lo studio dei sistemi complessi, il tentativo di capire, arruolando nella battaglia matematica, biologia, persino filosofia, i meccanismi che portano sistemi composti da una miriade di entità, che siano uccelli, neuroni o molecole, a comportarsi in determinati modi. Una cavalcata un po’ folle in cui quasi mai le risposte rivoluzionarie che vengono trovate rispondono alla domanda iniziale, ma sono figlie delle altre mille domande che sbocciano nel cammino.
Per andare dove, spiega Parisi, non è necessariamente la cosa più importante. Quando un ministro britannico chiese a Faraday, si ricorda nel libro, a cosa servissero i suoi studi sull’elettromagnetismo, lo scienziato rispose imperturbabile: “Al momento non saprei, ma è probabile che in futuro ci metterete una tassa sopra”. Una scienza oggi più che mai sotto attacco, scrive il premio Nobel, forse anche per “una certa arroganza degli scienziati che la spiegano come una scienza assoluta”, mentre è più che mai cruciale, secondo l’autore, coinvolgere più persone possibile, spiegare, divulgare. In questo Parisi è impareggiabile: tra le sue pagine (e nei suoi numerosi interventi pubblici, accademici o no) traspare la genuina gioia di spiegare, per rievocare l’ancora più genuina gioia delle scoperte fatte, ma anche dei fallimenti, con lo stupore quasi infantile che solo i grandi scienziati hanno. Lo stesso stupore del cronista, che dopo aver cercato il professore al cellulare pochi minuti dopo la notizia del Nobel per un commento, come probabilmente altre migliaia di giornalisti, ed avergli comunque mandato un whatsapp di congratulazioni, si è visto accendere il cellulare quella notte stessa da un messaggio: “Leggo solo ora, è stata una lunga giornata… grazie mille di cuore buonanotte”.
(Paolo Giorgi)
I Promessi Sposi – Alessandro Manzoni
Tra i ricordi della scuola, ne annovero uno per i frutti che ha dato nel mio futuro di lettore, e che riscopro oggi attraverso uno dei grandi romanzi (forse il più grande) della letteratura italiana: ‘I promessi sposi’. Era difficile amare, tra le mille distrazioni della gioventù, Alessandro Manzoni e la sua opera, ma al liceo vi riuscì un professore che avevaa una dote: sapeva leggere ad alta voce. Riuscì, perfino, a farmi apprezzare perfino Gabriele D’Annunzio, e a farmi superare gli steccati ideologici che spesso hanno costretto grandi autori in recinti senza senso.
Leggeva ad alta voce, quel professore, e così l’impresa per me diventava più facile e, soprattutto, godibile. Si tremava con don Abbondio, e si tifava per il povero Renzo, costretto a fuggire dalla prepotenza di don Rodrigo, immergendoci nei paesaggi di una Lombardia che, anch’essa, veniva tirata fuori dal “ramo del lago di Como” e restituita al lettore in tutte le sue sfumature di paesaggio. Gli ‘umili’ si prendevano la scena, in una sovversione che trova nella lingua italiana la sua forza trainante, il suo ‘manifesto’.
Quella lingua, però, va parlata e ascoltata, se si vuole che ‘sentirne’ la potenza: per questo, ascoltare la lettura ad alta voce di un romanzo del genere è atterrare davvero con una macchina del tempo nel Seicento narrato da Manzoni. Lo rifaccio, a distanza di quasi 40 anni, con un audiolibro, un podcast, in cui quel capolavoro fluisce dalle orecchie al cervello al cuore: Fabrizio Gifuni, Paola Pitagora, Alessandro Benvenuti, Anna Bonaiuto, Massimo Popolizio, Paolo Poli, si alternarono qualche anno fa ai microfoni di Radio 3 per una esperienza di lettura che è un vero racconto orale della nostra storia, per restituire agli italiani una radiografia del nostro carattere e, come giudicò Leonardo Sciascia che a differenza di molti lo amò anche da studente, per consegnarci di nuovo un’opera “inquieta” e lucida sul nostro tempo. (Fabio Greco)
“Treni d’amianto, binari di memoria” – Agata Mazzeo-Ernesto Vaggi
Come è nata la forza e la consapevolezza dei lavoratori delle Officine Grandi Riparazioni di Bologna che ha permesso di affrontare una storica vertenza contro l’uso dell’amianto alla fine degli anni ‘70? Come si è costituito il rapporto con le strutture sanitarie territoriali, coi medici del lavoro, nell’ambito della Riforma sanitaria del ‘78? Qual è stato il ruolo degli operaie delle loro rappresentanze? Le risposte sono contenute nel libro di Agata Mazzeo-Ernesto Vaggi “Treni d’amianto, binari di memoria” Storie di lavoro e lotte alle Officine Grandi Riparazioni di Bologna edito da Pendragon (pagine 350, euro 18), novità di Natale della casa editrice bolognese. Una storia che parte da un contesto lontano e che abbraccia 150 anni di storia e di mobilitazioni legate al mondo del lavoro. Oggi la battaglia continua per conservare memoria alla città, rivendicare a un uso civico e museale lo stabilimento dismesso delle ferrovie di Via Casarini, 24, costruire memoria collettiva. Al libro seguirà un documentario, che racconterà sei storie, tra cui quella del medico del lavoro Leopoldo Magelli che all’epoca partecipò a queste battaglie assieme ai lavoratori.
“L’amianto è una cosa di cui parlare poco volentieri, perché è una cosa che porta morte, che dà morte- scrive Agata Mazzeo nell’introduzione del libro – E quindi, probabilmente, tutti si vorrebbero girare dall’altra parte e non vorrebbero sentirne parlare. Però, secondo me, non si può non riconoscere quello che è successo. E quello che è successo è una storia grande, importante, che non si può dimenticare”.
Centinaia i casi seguiti negli anni dall’associazione familiari vittime dell’amianto. Il libro, spiega l’associazione, rappresenta oggi una sorta di risarcimento storico, sociale, e per questo politico, alla comunità.
“Rivendichiamo che l’ex stabilimento delle Officine Grandi Riparazioni di Bologna – spiega all’AGI Andrea Caselli – Presidente AfeVA Emilia Romagna – oggi in stato di abbandono da tre anni da quando sono cessate le attività spostate al Lazzaretto, diventi un luogo della memoria, per ricordare dove queste storie si sono materializzate: un luogo per la città, dove trasferire tutti i materiali raccolti negli anni dai lavoratori, circa il 10% dei quali è oggi esposto in un presidio in Regione, all’Assemblea Legislativa. Un posto grande che potrebbe essere tra l’altro utilizzato dalla città per iniziative, le più diverse. Un posto importante- conclude Caselli – pensiamo che le Ferrovie dello Stato debbano in qualche modo riconsegnare le chiavi del vecchio stabilimento alla città di Bologna, in modo che possa diventare un luogo pubblico”.
(Annarita Incerti)
In viaggio con Shakespeare – Roberto Caramelli
Un modo diverso per conoscere Shakespeare. Il libro di Roberto Caramelli ci porta nei castelli e nelle locande, nelle foreste e nelle città, nelle isole e nelle coste descritte dall’autore inglese, spiegando com’erano e come ora possiamo vederle. E poi ci accompagna nelle città italiane dove sono state ambientate le commedie: Messina di Tanto rumore per nulla, Palermo de Il racconto d’inverno, Firenze di Tutto è bene quel che finisce bene, Verona di Romeo e Giulietta, Padova della Bisbetica domata, Milano de I due gentiluomini di Verona, Venezia di Otello e poi Mantova, citata in tante opere, e su cui Caramelli avanza un’ipotesi: la città lombarda ha ospitato il Bardo venuto per recitare e allestire spettacoli alla corte di Vincenzo Gonzaga. Il libro “In Viaggio con Shakespeare”, della casa editrice Elliot, è una guida di viaggio piena di suggerimenti, ricca anche di rimandi cinematografici. Puntuale e precisa, è interessante per lo studioso appassionato ma anche per il lettore comune che vuole esplorare località nuove o conosciute nel parallelismo magico dei versi antichi.
(Silvia Inghirami)
Pane nero – Miriam Mafai
“Roma era felice, quel 10 giugno 1940, com’erano felici Milano, Torino, Cosenza, Bari, Palermo, Bologna, Firenze. La guerra sarebbe durata poche settimane e la vittoria era sicura. Parigi stava per cadere. Presto sarebbe caduta anche Londra. Milioni di donne preparavano la cena a milioni di uomini, mentre alle otto in punto, annunciate dall’uccellino della radio, nelle case italiane tornavano a farsi sentire le parole di Mussolini: ‘L’ora della decisione suprema è scoccata’”.
Il libro di Miriam Mafai: ‘Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale’ (Ediesse editore) ha il pregio di far vedere da vicino come un Paese possa avvicinarsi alla catastrofe senza rendersi bene conto dei guai che si avvicinano. Chi è a piazza Venezia esulta. L’opposizione non ha voce. Gli italiani imboccano una china mortale, pensando alle prossime vacanze.
Cominciò così, in una serata estiva, l’avventura di guerra dell’Italia fascista. Durò cinque anni, durante i quali centinaia di migliaia di donne combatterono la più lunga battaglia della loro vita: contro la fame, contro le bombe, contro una guerra la cui fine si allontanava di giorno in giorno, sempre di più.
Con la forza evocativa di un maestro neorealista. Mafai ricostruisce la vita quotidiana di questo esercito femminile. Madri, mogli, ragazze, operaie, mondine, borsare nere, borghesi e principesse, ebree, fasciste e partigiane. Ne nasce un’epopea che ha come scenario le città bombardate, le campagne percorse dalle fanterie di tutti gli eserciti, Roma, città aperta.
Letizia, operaia della Superga, abitava vicino al Martinetto: “Tutte le mattine, quando fucilavano la gente, si sentivano i colpi. Per noi era una cosa tremenda. Quella mattina quando fucilarono Perotti, Giambone e tutti, sentimmo otto colpi uno dietro l’altro, otto raffiche. Sai cosa vuol dire essere lì, sapere che moriva della gente… Noi sentivamo tutto. Quella è una cosa che non si può dimenticare”.
(Luca Mariani)
In nome della madre – Erri De Luca
Il maestrale di marzo soffia una storia nuova. Quella di Miriam, innanzitutto, sconvolta come da un colpo di vento; sposa promessa a Iosef, ebrea di Galilea, a cui l’annuncio di un angelo mette un figlio in grembo. “In nome della madre s’inaugura la vita”, scrive Erri De Luca con la sua solidissima leggerezza che scava solchi sottili e profondi. “In nome della madre” edito da Feltrinelli, condensa lo stupore dello scrittore per le donne, il prodigio della maternità, il loro corpo, “una zolla di terra”.
E inchioda al loro smarrimento gli uomini, buoni a fare qualche mestiere e a chiacchierare, “ma sono persi davanti alla nascita e alla morte”, sono cose che non capiscono. Cosicché “ci vogliono le donne al momento della schiusa e all’ora della chiusura”. Per Miriam/Maria, per l’amore smisurato per lei, sposa promessa e consegnata a tutt’altro, è disposto a piegare consuetudini e leggi che lo volevano ‘primo lapidatore’ dell’amata a causa di quel Ieshu/Gesù, che portava dentro di sé e che partorirà da sola in una stalla. Iosef della regione di Giuda, l’uomo giusto e innamorato. “Con la tenerezza venne la gratitudine – è la risposta di Miriam a quella fede riversata in lei – mi aveva creduto. Contro ogni evidenza si affidava a me. Io oggi sono tua più di prima, più della promessa”.
Perché questo falegname sfida tutto e tutti e si consegna alla sua Miriam che il vento di marzo aveva scaraventato dentro una storia sacra e umanissima? “Sai cosa è la grazia”, chiede alla sua amata, fornendo così una risposta: “Non è una andatura attraente, non è il portamento elevato di certe nostre donne bene in mostra. E’ la forza sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo, sfidarlo a duello tutto intero. E’ un dono e tu lo hai avuto. Tu sei piena di grazia. Intorno a te c’è una barriera di grazia, una fortezza, Tu la spargi, pure su di me”. Qui c’è, spiega Erri De Luca, la storia di una ragazza “operaia della divinità”, l’amore smisurato di Iosef, una gravidanza avventurosa, la paura di una mamma per il destino del figlio. E sembra che bastino un maestrale di inizio primavera e una stalla gravida di vita ostinata per scrivere una storia nuova.
(Giuseppe Marinaro)
Il peso della farfalla – Erri De Luca
Scrutare l’anima di un animale selvatico attraverso i suoi comportamenti, riscoprire con lui i valori di un’esistenza semplice, in perfetta sintonia con la natura che al tempo stesso è madre e matrigna, soprattutto nell’eterno duello tra uomo e animale. ‘Il peso della farfalla’ di Erri De Luca è la storia di un camoscio e di un uomo. La storia narra di questo superbo arrampicatore di cime impossibili che, rimasto orfano, è costretto ha imparare tutto da solo. E, nonostante tutto, ne diventa il ‘re’. L’uomo è un cacciatore, bracconiere, esperto alpinista, capace di scalare pareti impossibili e tuttavia consapevole di essere un ‘re minore’ al cospetto dell’animale.
In circa sessanta pagine, l’autore ci prende per mano e ci accompagna con la narrazione nel confronto fra le due esistenze, due solitudini diverse: l’uomo e l’animale si cercano, si spiano, si rincorrono e al tempo stesso si temono. Insieme percepiscono il sopraggiungere del momento che metterà fine alla loro vita, solitaria per scelta, che si consumerà nel silenzio dei boschi. Mantenendo però intatta fino all’ultimo la fierezza e la dignità.
Il libro conserva sullo sfondo il duello, certo, ma mette a fuoco anche la sorprendente bellezza della natura e l’intelligente laboriosità degli animali che vivono in un ambiente naturale descritto in modo raffinato e suggestivo.
Un giorno di novembre arriverà la fine, il re dei camosci dall’alto di una cresta vede l’uomo, con l’odore del bracconiere nelle narici si lancia su di lui, ma non lo butta giù dalla cima, lo grazia. L’uomo no, non sbaglierà il colpo finale, ma la pietà e il rispetto prenderanno prepotentemente il sopravvento.
In un ritmo deciso la storia si intreccia cosí ai destini tra gli uomini e gli animali, chiusi nella parabola eterna di nascita e morte. Non c’è una pagina che sia inferiore all’altra e tutto è in perfetto equilibrio.
(Vincenzo Marsala)
Eccomi – Jonathan Safran Foer
“Eccomi”. Abramo non ha dubbi di fronte a Dio che lo chiama. “Hinneni”, risponde a Jahvè che gli chiede il sacrificio di suo figlio Isacco. L’anziano patriarca si trova di fronte alla scelta più difficile: a chi essere fedele, al figlio o a Dio? E l’uomo contemporaneo a chi dovrebbe essere fedele: a se stesso e ai suoi sogni o al ruolo che è chiamato di volta in volta a ricoprire nel mondo?
Ambientato a Washington, “Eccomi” di Jonathan Safran Foer, racconta le quattro settimane più complicate della famiglia Bloch: Jacob, Julia e i loro tre figli. Sarà un terribile terremoto in Medio Oriente, che rischia di portare alla distruzione Israele, a obbligarli a riflettere sul significato dell’esistere e dell’amore. Di ciò che è casa.
I Bloch, e il loro matrimonio così apparentemente ineccepibile come tanti altri matrimoni, sono la nostra casa di vetro, quella dove tutto appare per ciò che è. I fallimenti, le delusioni, il quotidiano che cancella le illusioni. Le crepe ricoperte con lo stucco dell’abitudine. “Guardami, fammi sentire desiderata”, vorrebbe dire Julia a Jacob. “Guardami, fammi credere che sono il miglior scrittore sulla faccia della Terra”, vorrebbe dire Jacob a Julia.
L’incapacità di dare un senso. Come quando Jacob scopre che un verso di ‘All Apologies’ dei Nirvana, canzone follemente amata in gioventù e cui ha cercato di attribuire un significato per anni semplicemente non ne ha alcuno. “Non vuol dire niente. Era stato quello il mio errore. Ero convinto che volesse dire qualcosa”. Invece di goderne a prescindere.
Come in fondo accade con l’amore. Ha un significato fin quando non glielo si chiede. Fino a quando l’unica riposta è: “Sono qui”. Così come sono, così come sei. Senza sovrastrutture, senza passato o futuro, senza altro che se stessi. Con i propri limiti, le proprie paure, le proprie incapacità. Sommersi dal presente e immersi nel presente. Perché in definitiva soltanto una cosa conta: “La vita è preziosa e io vivo nel mondo”. Eccomi, Hinneni. Non c’è bisogno di altro.
(Gianluca Maurizi)
Alabama – Alessandro Barbero
Un vecchio agricoltore siede su una sedia a dondolo nel portico della sua vecchia e malandata casa, in Alabama. Una giovane ricercatrice è seduta vicino a lui, cerca di farlo arrivare al punto. E il punto è una delle pagine più infami della storia degli Stati Uniti d’America: il massacro di neri unionisti a Chancellorville, epilogo di quella passata alla storia come la battaglia perfetta di Lee. Un lavoro complicato, per la ricercatrice, perché il vecchio Dick Stanton non fa che divagare, aprire parentesi narrative, soffermarsi su particolari all’apparenza insignificanti – cosa mangiassero i soldati secessionisti, come vestivano, come pregavano – ma che rivelano un tempo e un mondo che per il narratore sembrano non essere mai cambiati. Inoltre, Stanton parla alla maniera diretta, sprezzante e a tratti volgare propria dei “fegatacci” al seguito del generale Lee, infarcita di considerazioni razziste da fare accapponare la pelle alla povera intervistatrice.
Risiede in questo, tuttavia, il punto di maggior forza del romanzo: la ricerca sul linguaggio di Alessandro Barbero e lo sforzo di renderlo nella lingua italiana porta il lettore nel mezzo della vicenda storica. L’autore sembra danzare sulla musica creata da quel linguaggio sincopato riuscendo a restituire lo spirito di un’epoca. Barbero, d’altra parte, storico lo è di professione, divulgatore per inclinazione naturale ed esperto di tattica militare per una passione nata da bambino, quando iniziò a giocare con i soldatini, come ha rivelato in una intervista. Capacità che ha già avuto modo di mettere alla prova con una produzione-fiume di saggi e romanzi a sfondo storico, da “Bella vita e guerre altrui di Mr Pim, gentiluomo” a “Le Ateniesi”.
(Paolo Molinari)
Come il mare – Wilbur Smith
Un maestro dell’avventura, scomparso a novembre. Rispolvero questo libro degli anni Settanta ‘in memoria’ ed è ancora un bellissimo viaggio in un’avventura magistralmente narrata. Personaggi ben tracciati e trama attualissima.
In fondo, sembra scritto ieri: si parla, senza mai usare questo ormai noioso termine, di resilienza. Nick è finito giù dalla cresta dell’onda, sconfitto sul piano economico, umano e sentimentale. L’antagonista gli ha tolto il lavoro, l’azienda e la moglie. Indovinare chi vincerà è facile dalla prima pagina. Il come è tutta un’altra storia, quella del romanzo.
A tratti epico e con qualche sfumatura dolciastra, Come il mare è uno dei più belli di Smith: fuori dalle sue ‘saghe’ di cui è maestro indiscusso, il romanzo avrebbe potuto diventare un altro inizio di una lunga storia. Da solo, invece, brilla come una pietra preziosa e offre nuove sfumature ad ogni rilettura (questa è la quarta per me, è stato un toccasana nei momenti difficili, a proposito di resilienza).
Questa volta, però, è una lettura a mo’ di saluto a un amico, come diventano un po’ tutti gli scrittori di cui si legge più di un libro.
La storia è un “ne rimarrà uno solo”: Nick ha perso tutto e appena, costretto da un’emergenza, riprende da dove aveva cominciato, la plancia di comando di un rimorchiatore oceanico, parte in un soccorso della nave da crociera della sua ex compagnia. Diventa l’occasione del nuovo scontro con l’odiato Duncan. In mare, in tribunale e dovunque.
Ne resterà uno solo, non serve indovinare chi, ma scoprire come. E imparare a rialzarsi.
(Andrea Nobili Tartaglia)
Di mondi diversi e anime affini – Mohamed Ismail Bayed e Raissa Russi
“Di mondi diversi e anime affini” De Agostini editore, è il primo libro scritto da Mohamed Ismail Bayed e da Raissa Russi. Quella di Mohammed è la storia di un bambino che impara troppo presto a conoscere sulla propria pelle l’ostilità dettata dall’ignoranza e la cattiveria del branco. Quella di Raissa è la storia di una bambina circondata da una ‘bolla’ di amore, protetta da tutto ciò che è diverso e che vuole imparare a camminare con le proprie gambe.
I bambini crescono, oggi hanno 26 e 23 anni. Pur venendo da mondi diversi si innamorano e decidono di affrontare insieme tutte le esperienze di una giovane coppia, scoprendo passioni in comune e quelle piccole diversità che ci rendono unici. Soprattutto imparano a fare a pezzi gli stereotipi, usando l’arma dell’ironia.
Mohamed e Raissa scelgono Tik Tok per raccontare la loro storia di coppia mista e per scherzare sui mille pregiudizi e ostilità che si trovano ad affrontare lungo il percorso. E su Itk Tok fanno presto il boom di contatti.
“Non sapremo mai – dicono – se senza unire le nostre vite saremmo arrivati esattamente al punto in cui siamo ora. Ma ci piace pensare di no. Perchè è insieme che siamo diventati più forti. E anche più felici”.
E’ un libro indicato soprattutto per i giovani, ma rappresenta una ventata di freschezza anche per i più grandi.
(Rita Nocchi)
Cinquant’anni di palcoscenico – Eduardo Scarpetta
Chi ha visto il film ‘Qui rido io’ di Mario Martone potrebbe leggere, come effetto collaterale, l’autobiografia di quel sovrano del teatro napoletano che fu Eduardo Scarpetta: ‘Cinquant’anni di palcoscenico’ (336 pp., Castelvecchi Editore, 22 euro). Io l’ho fatto con deliberato ritardo, avendo a lungo parteggiato per la fazione del poeta Ferdinando Russo, che in quell’affascinante Belle époque napoletana contrastò il teatro di Scarpetta e scatenò il processo per la messa in scena de ‘Il figlio di Iorio’, con cui si dissacrava la tragedia dannunziana. L’autobiografia di Scarpetta è un saporoso, dettagliato racconto della sua ascesa artistica e umana da zero alla dominazione delle scene cittadine ma non solo, grazie a un genio indiscutibile, a un’acuta volontà e alle circostanze storiche.
Scarpetta cresce all’ombra del sommo Pulcinella, Antonio Petito, facendo una lunga gavetta al Teatro Sancarlino dove assiste alla celebre morte sulla scena dell’attore maestro, e dove ucciderà lui stesso la maschera di Pulcinella per sostituirvi quella di Felice Sciosciammocca. Scarpetta mette in archivio la farsa tradizionale degli autori ottocenteschi e ricrea un teatro più borghese, rivede testi e recitazione, densità di trama e varietà di tipi. La sua fortuna, sia in senso artistico sia di mercato (diventerà assai ricco), la ottenne però con le numerose riduzioni delle pochade francesi. Chi gli contestò di avere semplicemente rivestito di panni napoletani i manichini d’oltralpe non disse il falso ma fu ingeneroso, come Scarpetta puntualizzava: “A misura che la riduzione diventa trasformazione crescono le difficoltà e gli ostacoli da superare”. Sostenne pure, sbagliando, che dati i costumi e l’indole locali “non è possibile qui, a Napoli, altro teatro che non sia il comico”.
Fu padre non soltanto naturale dei fratelli De Filippo, perché il teatro di Eduardo senza Scarpetta non sarebbe stato lo stesso. Fu inoltre colui che consentì a Totò di riportare esiti strepitosi al cinema con opere come ‘Miseria e nobiltà’, ‘Il medico dei pazzi’ e ‘Un turco napoletano’.
Tanto sapida è l’autobiografia quanto omissiva – ma ebbe le sue ragioni – di certe parti più private, relative alle complesse relazioni femminili che avrebbero reso padre Scarpetta, fuori del matrimonio, non solo dei tre De Filippo ma del poeta Ernesto Murolo (papà del musicista Roberto). E che lo avrebbero reso a sua volta padre solo per legge di un figlio che la moglie aveva concepito prima di sposarlo, da un amore con Vittorio Emanuele II. Sembra la trama di una sua commedia eppure andò più o meno così.
(Francesco Palmieri)
Sapiens. Da animali a dei – Yuval Noah Harari
Circa 70.000 anni fa l’Homo Sapiens era un animale insignificante. Viveva in un angolo remoto dell’Africa e perlopiù si faceva i fatti propri, come una scimmia qualunque. Poi, nei millenni successivi, è diventato il signore del pianeta. Lo ha conquistato. Oggi è capace di creare la vita, di modificarla, o di distruggerla. Proprio come una divinità, l’Homo Sapiens oggi punta all’immortalità, al totale controllo della vita e della morte. Ma come è potuto accadere?
‘Sapiens. Da animali a dei’ di Yuval Noah Harari è un libro sulla storia dell’umanità che racconta l’evoluzione di una scimmia “riuscita a diventare dio” grazie a una capacità che l’ha contraddistinta da tutti gli altri animali: l’immaginazione. Quella che ha portato prima alla creazione di gruppi allargati, tribù, organizzazioni complesse, nazioni, entità sovranazionali, e insieme a creare narrazioni, religioni, ideologie, valori capaci di dare un senso al presente della collettività e proiettarla nel futuro. L’immaginazione è fiducia nel futuro.
Ci sono libri che aiutano a mettere in ordine le cose. Aiutano a guardare quello che siamo oggi, le sfide del nostro tempo, con uno sguardo che si estende millenni. Il libro di Harari (Bompiani, 2017, 536 pp) ha questo merito. È una storia dell’umanità capace di far tremare i polsi anche al lettore per la complessità del compito che l’autore, all’epoca dottorato di ricerca in Storia all’Università di Oxford, oggi professore della stessa università, si è preposto. Harari, israeliano, tra i più grandi intellettuali, filosofi e divulgatori contemporanei, riesce in questo libro a mantenere rigore e facilità di lettura, attraversando la nostra storia, dall’epoca dei ‘cacciatori-raccoglitori’ a quella dell’intelligenza artificiale e dei viaggi spaziali. Una storia affascinante e drammatica, fatta di grandi imprese e tragedie ancora più grandi, di gesti eroici e infinite debolezze, quelle che ci rendono ciò che siamo: artefici inconsapevoli della nostra storia, schiavi di regole che ci siamo imposti vivendo nelle quali cerchiamo, sempre proiettandola, la felicità.
(Arcangelo Rociola)
La variante di Luneburg – Paolo Maurensig
Succede con i libri come con le persone, si sa, può capitare di dimenticarli. O meglio: di ricordarsi in un dato momento di non aver più pensato a loro per tanto tempo, semplicemente perché la vita te ne ha proposti altri e la cronaca della tua esistenza ha portato in primo piano migliaia di avvenimenti nuovi. Mi è successo quest’anno, il 29 maggio, alla notizia della morte di Paolo Maurensig, scrittore goriziano, autore di ‘La variante di Lüneburg’, pubblicato da Adelphi nel 1993 e da me letto la prima volta nel 2001 su un treno per Milano. Un libro che ho amato profondamente, non solo per la prosa colta e sorprendente o per la trama mozzafiato, ma perché riaccese i miei ricordi d’infanzia sugli scacchi, le partite con mio padre, il primo libro sulle tecniche, l’amore per i pezzi, le ore passate a guardarli e a tenerli in mano a mo’ di preziosi amuleti.
Un flash dell’Agi sulla morte di Maurensig – 78 anni, un malore improvviso – e ti torna di nuovo tutto alla mente, quel treno per Milano, quel libro divorato in poche ore e custodito come un testo sacro per giorni, quella sensazione tattile dei grandi soldatini bianchi e neri tenuti stretti in pugno da bambino. E naturalmente la tragica storia di Dieter Frish, l’imprenditore tedesco protagonista del romanzo, la sua misteriosa morte, il viaggio a ritroso nella sua vita che svela al lettore come quella fine cruenta avesse a che fare con una sanguinosa partita di scacchi tra due maestri nemici per la vita, un ebreo e un ex ufficiale nazista. Sullo sfondo, l’orrore indicibile dell’olocausto e dei campi di sterminio, il coraggio e la crudeltà che si sfidano sui lati opposti della Storia, consapevoli della irreversibilità delle rispettive mosse. La paura dell’abisso è una febbre orrenda che non scende mai, fino all’ultima pagina.
Per rileggerlo, 20 anni dopo, sono serviti gli occhiali, ma l’emozione è stata la stessa. Alcuni frangenti della vicenda non li ricordavo affatto, è stata una rilettura profonda, migliore, più attentata ai dettagli letterari che allo sviluppo della trama già nota. Piccolo capolavoro senza tempo, ‘La variante di Lüneburg’, che ha prodotto un piccolo effetto collaterale, davvero marginale se penso alla potenza della storia narrata: il testo sacro di Paolo Maurensig mi ha fatto ricominciare a studiare gli scacchi. A giocare, a seguire lezioni sul web, dove ti sfidano nickname dall’altra parte del pianeta.
Un gioco, certo, dove però perdere “provoca un dolore profondo”, disse una volta Garry Kasparov. Un gioco spietato, dove ti misuri con le tue paure, i tuoi limiti di concentrazione, la tua propensione all’agire d’istinto, con la tua convinzione, spesso sbagliata, che ogni lasciata è persa, mentre ci sono volte che una ‘patta’ è la più onorevole delle soluzioni possibili. Saper attendere l’errore dell’avversario è un’arte marziale, insegnano gli scacchi e questo romanzo, una risorsa da coltivare, per restare in piedi nelle sfide – anche quelle minori – che la vita ti lancia.
(Giampaolo Roidi)
War Zone Zoo – The Berlin War and World War 2 – Kevin Prenger
Nel maggio 1945 Berlino, come ogni altra città tedesca, è ridotta a un cumulo di macerie. Un destino condiviso anche dal magnifico giardino zoologico aperto nel diciannovesimo secolo. Dei circa 4 mila animali che lo popolavano, ne sono sopravvissuti 91. Le torri Flak della contraerea montate proprio al suo interno lo avevano reso un bersaglio costante dei bombardamenti alleati. Quello che era, e sarebbe tornato a essere, uno degli zoo più celebri del mondo è una distesa di crateri disseminati di resti umani e animali.
Kevin Prenger riesce nella difficile impresa di trovare un punto di vista originale per narrare il conflitto più devastante che abbia mai insanguinato la Terra, attraverso le voci del personale del Tiergarten Park che, mentre all’esterno si consumava una guerra titanica, cercò di proteggere e nutrire gli animali fino all’ultimo. Una missione che può sembrare incongrua in un Paese dove sempre più persone non avevano né cibo né ricovero ma diventa per guardiani, veterinari e zoologi l’unico modo per continuare a dare un senso alle proprie giornate mentre tutto intorno a loro sta crollando.
Il racconto prosegue con il racconto della rinascita e degli anni della Guerra Fredda, quando il sorgere del muro porta la DDR ad allestire un secondo zoo, tuttora esistente, a Berlino Est. In appendice, una breve rassegna delle storie di altri giardini zoologici divenuti loro malgrado teatri di battaglia, da Sarajevo a Gaza. Non sarebbe male se Prenger ne facesse la base per un volume più ampio.
(Francesco Russo)
La maga delle spezie – Chitra Banerjee Divakaruni
Ci sono storie senza tempo. Più gli anni passano, più diventano preziose e risplendono, capaci di illuminare anche i momenti più bui. Sono scritte come fiabe e raccontano mondi, emozioni antiche, invitano ad affidarsi alla fantasia e al tempo stesso diventano specchi in cui riflettersi. ‘La maga delle spezie’ è tutto questo e anche molto di più, perché l’autrice – indiana immigrata negli Stati Uniti – ha il dono di una scrittura poetica, ipnotica che sa toccare corde profonde. Ci si innamora delle spezie, impossibile non restare affascinati da Tilo, la maga che a loro ha immolato al sua vita.
Ci si immerge in una trama intessuta della sete di potere per sfidare la paura dell’abbandono e il cui filo sottile è l’amore rifuggito e nel contempo bramato. La maga è prigioniera di un corpo da vecchia che cela le passioni di un cuore giovane e indomito, sospeso fra il bisogno insopprimibile di avere qualcosa, qualcuno, per sé e il destino di donarsi agli altri, perché possano accedere a fiammelle di felicità attraverso le proprietà delle spezie.
‘Le speranze e i dolori degli esseri umani mi si infilano sotto la pelle come rasoi’, così vive la signora delle spezie, nella solitudine cui solo i ‘superpoteri’ condannano, benché lei quella conoscenza esclusiva l’abbia coltivata e voluta sopra ogni cosa.
Nella sua bottega si affaccia un’umanità dolente, vittime e carnefici, scintille di un mondo spietato e violento che si accanisce sui più deboli e sulle donne, mandando in frantumi speranze e illusioni di chi ha lasciato la sua terra per inseguire un sogno altrove. Le loro esistenze s’intrecciano con quella della maga, indicandole la strada verso l’autenticità, che passa per la scoperta della fragilità e, soprattutto, per l’umiltà e la fiducia.
‘Anche se ci sbagliamo, riproveremo’, le viene proposto alla fine o, meglio, all’inizio del suo nuovo viaggio. “Continueremo a cercare finché troveremo insieme il paradiso”.
(Roberta Secci)
Mammut – Antonio Pennacchi
La scorsa estate ci ha lasciato Antonio Pennacchi, già premio Strega, acuto e critico osservatore dei nostri tempi. Prima di diventare un affermato scrittore Pennacchi aveva fatto l’operaio per un’azienda che produceva cavi elettrici di Latina.
Proprio al mondo operaio e alla fabbrica è dedicato il suo primo libro, ‘Mammut’. Un libro che dopo la sua morte ho voluto rileggere per ripercorrere i suoi inizi da scrittore.
Pennacchi aveva dovuto penare tanto prima di trovare un editore disposto a scommettere su di lui e pubblicare ‘Mammut’. Ben otto anni trascorsi con 55 rifiuti di 33 editori diversi. Il testo iniziale ha subito negli anni rivisitazioni, limature e riadattamenti nel tentativo di confondere le case editrici dove spediva il manoscritto. Pubblicato da Donzelli Editore nel 1994 è stato successivamente ristampato dalla Mondadori dopo la vittoria del Premio Strega con “Canale Mussolini”.
Mammut è il racconto che ha al centro la fabbrica e il mondo degli operai ed è ambientato negli anni 80 quando il pianeta era ancora diviso in due blocchi: quello occidentale e quello sovietico.
Ma è anche il periodo dell’unità sindacale, delle assemblee di fabbrica, delle occupazioni e della coscienza operaia arrivata al suo culmine.
Tra i coloriti personaggi del romanzo c’è Benassi, una specie di idolo per gli altri operai che è sempre pronto ad intervenire, spina nel fianco del ‘padrone’, e ad incitare alle manifestazioni, al blocco della fabbrica e alle occupazioni stradali per i propri diritti.
Nel corso di alcune proteste Benassi riesce ad impedire che i propri compagni finiscano per occupare la stazione ferroviaria della città che avrebbe causato scontri con le forze dell’ordine e successive denunce. Ma il corteo degli operai, invece, invade senza alcun impedimento una centrale nucleare creando non pochi disagi e imbarazzi.
I rapporti con gli altri compagni di lavoro si inclinano quando Benassi decide di accettare la proposta di un periodo di due anni da passare all’esterno della fabbrica per scrivere un libro storico sull’azienda ponendo fine alla sua vita da operaio. Operai che, rivendica Benassi, non esistono ormai più “sono estinti come i mammut”.
La condizione della classe operaia e le trasformazioni che subisce negli anni sono alcune delle riflessioni che ci offre questo romanzo d’esordio di Pennacchi, dove è facile intuire che l’operaio rimarrà comunque tale anche quando non ci saranno più macchinari da manovrare.
(Paolo Tripaldi)
Storia popolare dei sardi e della Sardegna – Luciano Marrocu
Da appassionato della Sardegna, non solo delle coste da cartolina ma anche di quella terra antichissima e misteriosa che si scopre solo spingendosi all’interno, mi ha emozionato la “Storia popolare dei sardi e della Sardegna” di Luciano Marrocu. E’ un libro che consiglio a chiunque voglia scoprire l’unicità di un’isola che è passata sotto tante dominazioni senza mai lasciarsi soggiogare del tutto, mantenendo il proprio carattere distintivo e spesso influenzando i propri padroni.
Marrocu, docente di Storia contemporanea all’Università di Cagliari, ha scelto un tono popolare ed epico per questo libro che non rinuncia mai al rigore scientifico. La sua Storia parte dagli albori, dal periodo tra 500.000 e 300.000 anni fa quando i primi esseri umani raggiunsero la Sardegna dal litorale toscano. Fu solo intorno al 5.000 a.C. che la presenza si fece stabile e strutturata con i coloni che introdussero l’agricoltura, l’allevamento e la ceramica. Si arriva quindi all’età nuragica (tra il 1800 e il 1.000 a.C. l’isola contava ben 7 mila di queste costruzioni uniche al mondo), ai fenici e ai cartaginesi, la cui influenza sull’isola avrebbe fatto dire a Cicerone che l’Africa era la madre della Sardegna.
C’è poi il tormentato rapporto con i romani, segnato da rivolte e repressioni, gli influssi dell’Islam dominatore del Mare nostrum e l’epoca dei giudicati, l’unico embrione di una Sardegna autonoma. A segnare la storia dell’isola furono i secoli di egemonia di Pisa e Genova e la conquista catalano-aragonese, entrata nel Dna dell’isola a partire dal simbolo dei quattro mori. Si arriva quindi ai Savoia e alla faticosa assimilazione allo Stato unitario, il flirt del fascismo con la causa sardista fino alla riproposizione di una “identità sarda” ai giorni nostri nel contesto della globalizzazione.
Questa ‘dolce madre taciturna’, come la chiamava Sebastiano Satta, questa isola posta al centro del Mediterraneo ma lontana da ogni possibile terraferma, sprigiona il suo fascino dalle pagine di Marrocu e merita di essere (ri)scoperta da chiunque sia stato inebriato almeno una volta dal profumo dell’elicriso avvicinandosi alle sue coste.
(Davide Sarsini Novak)
Complici e colpevoli – Nicola Gratteri
Un viaggio nel “profondo Nord”, fotografando pagina dopo pagina l’evoluzione della ‘ndrangheta fuori dai confini della Calabria. “Complici e colpevoli” è il nuovo libro del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, e del giornalista e studioso Antonio Nicaso, edito da Mondadori.
Quello che emerge dal volume è la capacità delle cosche calabresi di inserirsi nel mercato e nell’economia di quasi tutte le regioni italiane. La ‘ndrangheta, evidenziano gli autori del libro, è pronta a fagocitare i fondi messi a disposizione dell’Italia attraverso il Pnrr, mentre sta già approfittando della crisi economica legata alla pandemia per impadronirsi di piccole e medie aziende utilizzando i fiumi di denaro a disposizione delle cosche.
L’ennesima inchiesta di Gratteri e Nicaso è una denuncia inquietante attraverso un percorso che inizia tra gli anni Sessanta e Settanta, arricchito da citazioni, ricostruzioni giudiziarie e intercettazioni.
“Per le mafie – spiegano Gratteri e Nicaso – l’attuale crisi economica legata alla pandemia è come una muleta sventolata sotto gli occhi del toro”. Il libro presenta l’evoluzione delle cosche, la capacità di impadronirsi delle imprese, di condizionare le scelte aziendali ed economiche grazie allo strapotere economico.
Le aree prese in esame, con un capitolo dedicato ad ognuna di queste regioni, sono quelle di Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Trentino Alto Adige. Si tratta dei territori dove la presenza delle cosche calabresi è stata già accertata dalle indagini, ma lo sguardo è già rivolto anche a Toscana e Friuli Venezia Giulia.
Gratteri e Nicaso, attraverso una serie di documenti, hanno dimostrato come la ‘ndrangheta abbia riprodotto il proprio modello organizzativo, potendo contare sulle “relazioni di complicità e collusioni nella sfera legale dell’economia, della politica e delle istituzioni”.
E qui emerge questo secondo, drammatico, aspetto considerato che a favorire l’insediamento dei mafiosi “sono stati i contesti economici e politici locali, il silenzio, la colpevole sottovalutazione di chi avrebbe dovuto denunciarne la presenza, ma soprattutto il sistema di accordi illeciti, su base corruttiva, tra imprenditori, esponenti politici e mafiosi”.
La presenza della ‘ndrangheta nel Nord Italia, non è più “contagio” perché “le mafie, soprattutto nelle regioni che determinano l’andamento dell’economia nazionale, sono diventate agenzie di servizi, o meglio vengono sempre più percepite come tali. Niente sangue, niente allarme”.
La lettura del volume è conoscenza e scoperta del fenomeno criminale. E e riesce a dimostrare, passo dopo passo, come la ‘ndrangheta sia ormai diventata una holding senza confini. E nessuna regione è rimasta inesplorata.
(Rosario Stanizzi)
La scelta per il Quirinale
E’ l’appuntamento più importante della politica italiana insieme alle elezioni politiche, ma forse un po’ di più, e bisogna arrivarci preparati. Il ‘grande gioco’ del Quirinale, fatto di accordi e tradimenti, candidati entrati papi e usciti cardinali, astuzie e fallimenti, comincerà nella seconda metà di gennaio ma partiti, leader e aspiranti Presidenti stanno già muovendo truppe e pedine. Per leggere le notizie senza esserne travolti, per avere in mano qualche bussola che guidi nella foresta di dichiarazioni e commenti che fioccheranno nelle prossime settimane, ecco una piccola bibliografia sui presidenti della Repubblica. Una manciata di libri scritti da storici, costituzionalisti, politici e giornalisti che hanno raccontato l’istituzione, il ruolo e i dodici presidenti della storia repubblicana. Molti sono i libri scritti in questi settantacinque anni e la scelta è dunque caduta con un criterio cronologico sui più recenti, che hanno il merito oggettivo di prendere in considerazione tutti i presidenti, da Enrico De Nicola e Luigi Einaudi a Sergio Mattarella.
I due libri di cui si è più parlato in queste ultime settimane sono stati scritti da due giornalisti, Bruno Vespa e Marco Damilano. Damilano, direttore dell’Espresso, ha da poco dato alle stampa “Il Presidente” (La nave di Teseo), che racconta tutte le elezioni. Le trattative segrete, i tradimenti, gli scandali, gli interventi di poteri esterni ai grandi elettori che lo votano (ieri la Chiesa e la massoneria, gli Usa e l’Urss, oggi i social e l’Europa), perfino le stragi (piazza Fontana, il rapimento e l’omicidio di Moro, l’eliminazione del giudice Falcone a Capaci) che hanno azzoppato ‘i cavalli di razza’ e incoronato molti outsider. Vespa, in “Quirinale. Dodici presidenti tra pubblico e privato” (Rai Libri), disegna i ritratti delle dodici diverse personalità che hanno avuto l’onere e l’onore di ricoprire la più alta carica dello Stato attraverso una ricostruzione storica delle diverse elezioni del Presidente arricchita di aneddoti, retroscena, dichiarazioni e moniti.
Anche “Dodici presidenti” (Il Sole 24 ore) è scritto da un giornalista, il vicedirettore del Sole 24 ore Alberto Orioli. Nel libro si ripercorrono le vite dei dodici Presidenti narrate come un viaggio nella storia dell’Italia vista dal Palazzo del Quirinale, si analizza il peso di una istituzione di un potere non ben definito dalla Costituzione ma non per questo meno pesante e declinato in modo diverso dai dodici Presidenti.
Enciclopedico ma di facile lettura, “I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia italiana (Il Mulino), è curato da Sabino Cassese, Giuseppe Galasso e Angelo Melloni. Il volume si compone di due parti: una offre un profilo biografico di ciascun presidente e una analisi del suo mandato presidenziale, la seconda spiega i grandi snodi storico-politici legati alla funzione e all’analisi del funzionamento della presidenza, settennato per settennato.
Molto utile anche il sito online del Quirinale, dove si trovano storia e discorsi dei dodici presidenti, ma anche la visita guidata al palazzo del Quirinale, il testo della Costituzione e la storia dei simboli repubblicani.
Poi due testi più ‘leggeri’. Il primo “Quirinale games” (Nuova Palomar), scritto dall’ex parlamentare e docente di diritto pubblico, Pino Pisicchio è un romanzo di fantapolitica. Dietro nomi di facciata viene raccontata la prossima elezione del Presidente della Repubblica, con strategie, aspirazioni, manovre paure e durezze di quattro possibili candidati e della misteriosa scomparsa di uno di questi.
Per i più curiosi dei costumi del palazzo infine c’è “Tutti i piatti dei presidenti. 30 anni di ricette, storie e aneddoti nelle cucine del Palazzo del Quirinale”. Lorenza Scalisi e Chiara Cadeddu hanno raccontato con tanto di foto e ricette, i segreti delle cucine che servono ogni giorno il Presidente ma anche i suoi ospiti, dai leader del mondo a premier e ministri.
(Barbara Tedaldi)
Cronache marziane – Ray Bradbury
Spazio 1999. Gli alieni terrestri sbarcano su Marte. Con la colonizzazione del Pianeta Rosso inizia la grande avventura umana nello spazio. Sono passati oltre settant’anni dalla prima edizione di ‘Cronache Marziane’ (era il 1950) di Ray Bradbury e di certo non lo si può definire un libro ‘vecchio’. Un classico semmai della fantascienza, un cult per i fissati del genere che facilmente fa breccia nel cuore del lettore curioso e pronto a un appassionante viaggio nell’animo umano (o marziano che sia), con i suoi sogni, desideri, speranze, ambizioni, illusioni.
Un viaggio che si sviluppa in 27 anni (dal gennaio 1999 all’ottobre 2026) e 28 racconti che hanno protagonisti diversi e unico denominatore comune Marte. Il pianeta è abitato da esseri misteriosi con una loro evoluta civiltà, che comunicano telepaticamente con i terrestri ma quando questi vanno a bussare alla loro porta si preoccupano solo del fango che potrebbero portare in casa e dei dolcetti di cristallo che bruciano nel forno. In questo racconto i marziani sani di mente non reagiscono alla presenza degli astronauti arrivati da un mondo lontano a bordo di un razzo perché pensano che si tratti di allucinazioni. I matti del vicino manicomio sembrano invece prendere sul serio i nuovi arrivati, ma non è così. Li festeggiano e si fanno raccontare le loro storie aspettando che l’allucinazione svanisca. E quando questo non avviene, per scacciarla via dalla mente lo psichiatra del centro spara e uccide i pionieri terrestri. Ma i loro corpi restano lì davanti ai suoi occhi, come il razzo. Si convince allora di essere anche lui pazzo e si suicida. Questa è la tragica fine della seconda spedizione terrestre su Marte. La prima ne ha fatta una analoga e la terza avrà lo stesso destino.
Uomini e donne del pianeta Terra arrivano comunque su Marte. In pochi anni costruiscono case, strade e città, e per avere il loro spazio abbattono tutto ciò che è stato edificato dai marziani. Molti dei quali decidono di ‘scomparire’ e si rifugiano in aree e linee temporali lontane. Poi sulla Terra scoppia la guerra nucleare e i colonizzatori decidono di combatterla e di tornare a casa. Lasciando Marte deserto e desolato. Ma qualcuno nuovamente arriverà.
Raymond Douglas Bradbury, che molti ricordano per essere il geniale autore di Fahrenheit 451, si spegne all’età di 91 anni il 5 giugno 2012. Un mese dopo, il 6 agosto, atterra su Marte il rover robot Curiosity e gli scienziati della Nasa decidono di chiamare ‘Bradbury Landing’ l’area marziana dell’atterraggio. Quarant’anni prima (nel 1971), sempre in suo onore, l’equipaggio dell’Apollo 15 chiama un cratere lunare “Dandelion” (dal racconto ‘Dandelion Wine’) e nel 1992 un asteroide diventa il ‘9766 Bradbury’.
(Gaia Vendettuoli)
Primo sangue – Amelie Nothomb
Davanti al plotone d’esecuzione che si accinge a mettere fine alla sua breve esistenza, un giovane diplomatico belga ripercorre con la memoria tutta la sua vita. La nascita, avvenuta quando sua madre era già una giovane vedova inconsolabile, segna un’infanzia alla disperata ricerca dell’attenzione materna, la cui distrazione è però compensata dall’affetto dei nonni e da lunghi fantastici periodi trascorsi nel castello delle Ardenne dove vive in dignitosa miseria la nobile famiglia dei nonni paterni, in compagnia di un gruppo di cugini allo stato brado. Si passa poi agli studi, ai primi amori e alla giovinezza fino ai giorni precedenti la “condanna a morte” in Congo, quando al suo primo incarico di console è a 28 anni appena protagonista suo malgrado di una pericolosissima trattativa per salvare quanti più compatrioti dalla furia vendicativa dei rivoluzionari che li avevano presi in ostaggio nella primissima fase post coloniale. Il diplomatico è Patrick Nothomb, e a raccontare la sua storia utilizzando la prima persona è sua figlia, la romanziera belga francofona Amélie Nothomb, nel suo ultimo romanzo che ha anche ottenuto il prestigioso premio letterario francese Renaudot.
Come gli altri suoi libri, anche questo viene pubblicato in italiano dall’editore Voland, e sarà in libreria nelle prossime settimane, in un volume di 128 pagine. La scrittura limpida e scorrevole di una delle autrici più tradotte al mondo è questa volta al servizio di una questione tutta personale: si trattava di dire addio al genitore, molto amato nonostante uno dei libri di maggior successo di Amélie si intitoli Uccidere il padre. Nothomb, infatti, riuscì a sfuggire a quel plotone di esecuzione, e sarebbe morto oltre mezzo secolo dopo, nel marzo del 2020, proprio quando tutto il mondo si accingeva ad affrontare la tragica pandemia da coronavirus. Grazie alle missioni diplomatiche del padre, la figlia ha avuto la fortuna di una formazione cosmopolita: molti dei suoi romanzi sono il frutto del suo vagabondare per il mondo, in particolare degli anni dell’infanzia trascorsi in Giappone. Nelle pagine in cui l’autrice si infila nei panni del padre bambino si capisce la citazione scelta da Amélie Nothomb per introdurre il romanzo. E’ del drammaturgo francese Sacha Guitry, e recita così “Mio padre è un figlio grande che ho avuto quando ero molto piccolo”.
(Francesca Venturi)
Source: agi