Renzi e Calenda rompono pure in Parlamento. Occhio al 4 per cento


Valerio Valentini

Roma. Dunque per questo dal fatal di Quarto, eccetera? Davvero tutta questa grande avventura, questa ambizione di costruire “il polo riformista in grado di sottrarre l’italia agli opposti estremismi”, è servita per arrivare qui, a fare calcoli un poco miserevoli sui parlamentari che da un gruppo potrebbero andare all’altro e garantire la sopravvivenza, oppure negarla, dell’uno o dell’altro, visto che ormai il “gruppo unico”, quello che doveva essere preludio al “partito unico” che già abortì, sta per dissolversi?
Che la decisione è inevitabile – formazioni separate alla Camera e al Senato – lo si comprende all’alba. Quando Roberto Giachetti, ancora allettato per un incidente in moto, su Radio Leopolda certifica che il paziente non è recuperabile. Non lui, ci mancherebbe, ma la coalizione parlamentare tra Azione e Italia viva. Unione solo d’interesse, ormai. E dunque è Giachetti – uno che non è tipo da mandarle a dire, e Roberto Speranza ancora se lo ricorda – a spiegare che no, se stiamo insieme non c’è più un perché. “Continuare così mi sembra non solo devastante ma anche deprimente”. Ed è un’osservazione che, a sentirla, Matteo Renzi condivide subito. Così la decisione diventa irrevocabile. Alle cinque del pomeriggio, l’ex premier lo comunica ai suoi senatori col tono di chi s’arrenda all’evidenza: “Ormai è andata”.
L’ultima pietra d’inciampo, in questo lento addio un po’ situazionista, è la contrarietà di Carlo Calenda alle proposte avanzate da Renzi due giorni fa a Palazzo Madama. E per strano che appaia, dopo le gazzarre sul Twiga, sull’arabia, sul due per mille e sa il buon dio cos’altro, diventa quasi una separazione consensuale. Perché per Renzi quella mancata condivisione delle proposte da parte dell’ex sodale sta lì a testimoniare una cosa: che il capo di Azione sta cercando di tornare nella galassia del Pd. “Sulla commissione d’inchiesta sul Covid sta con Speranza; sulle questioni salariali sta con la Cgil; sul premierato condivide la linea di Schlein”. Da cui, dunque, la conclusione: “Calenda va a sinistra. Tanti auguri”. Inutile dire che per Calenda è tutto all’opposto: “E’ Renzi che così certifica la sua volontà di fondersi con FI, ed è chiaro che avevamo ragione noi, a maggio, nel dire che non voleva fondere i due partiti”.
Rottura, dunque. Anche alla Camera e al Senato. Forse nella consapevolezza, condivisa, che il progetto politico nato per offrire un’alternativa al cretinismo populista stava progressivamente diventando una variante di quello stesso grullismo, forse solo apparentemente più elitaria. Meglio sancire il divorzio subito, allora, e provare, ciascuno per la sua strada, a riprendere un minimo di slancio in vista delle europee di giugno, con quello sbarramento al 4 per cento che, a vederlo da qui, sembra arduo per entrambi.
Prima, però, c’è da pensare alle rogne più incombenti. Questione di ore, non di giorni, e la costituzione di due gruppi parlamentari separati sarà formalizzata. Al Senato, Renzi ha una garanzia che Calenda non può avere, al momento: i sei membri per poter formare il gruppo ce l’ha solo il fiorentino, che ha già pronto il nuovo nome: “Italia viva – centro riformista”. Il leader di Azione potrebbe chiedere una deroga alla presidenza di Palazzo Madama: ma chi ha visto, ancora due giorni fa, la confidenza tra Renzi e Ignazio Madama – il loro scambiarsi sms in Aula, durante la relazione di quel Nello Musumeci che poi, guarda caso, si produce in un lungo elogio dell’ex premier e delle sue politiche contro il dissesto idrogeologico – sa che l’accondiscendenza di La Russa verso Calenda non sarà scontata. Alla Camera, invece, i rapporti sono inversi, e a sperare nella clemenza di Lorenzo Fontana dovrà essere Renzi. Sempre che tutto, e non è scontato, resti com’è. Perché è ormai certo l’approdo di Elena Bonetti in Azione, e forse Ettore Rosato potrebbe sganciarsi in attesa di un futuro passaggio a destra, e chissà se Enrico Costa, al contrario, non cercherà asilo in Iv. Il resto, insomma, sono manovre di piccolo cabotaggio e di reciproco sabotaggio. Ché, ad esempio, se Giusy Versace vuole mantenere il suo ruolo di segretaria d’aula a Palazzo Madama, per cui molto s’è spesa Maria Stella Gelmini, non potrà andare nel Misto, dunque potrebbe accasarsi con Renzi. E poi, Mara Carfagna, a Montecitorio, con Calenda che appoggia Marco Cappato, che farà? E Luigi Marattin s’ammutinerà? Oh non per questo dal fatal di Quarto, eccetera.

Fonte: Il Foglio