di Pietro Ichino
I dati Inps e Istat dicono il contrario di quel che sostiene Landini: negli ultimi quindici anni la probabilità di essere licenziati è rimasta invariata, mentre i rapporti a tempo indeterminato sono aumentati in valore assoluto e in percentuale – Le prospettive di una opportuna semplificazione della disciplina vigente.
Il segretario della Cgil Maurizio Landini non dice su quali dati si fondi la sua affermazione secondo cui il secondo decreto attuativo del Jobs Act, quello che contiene la disciplina dei licenziamenti, sarebbe stato “un fattore di aumento del precariato”: i dati dell’Inps dicono che negli ultimi quindici anni la probabilità di essere licenziati in Italia è rimasta sostanzialmente invariata, mentre l’Istat ci informa che gli assunti a tempo indeterminato sono aumentati sia in valore assoluto sia in percentuale sulla forza-lavoro, e i rapporti a termine sono rimasti circa un sesto rispetto al totale, in linea con la media UE. Per altro verso, l’armonizzazione della nostra disciplina dei licenziamenti rispetto al resto dell’UE, attuata con quel decreto, è indispensabile se vogliamo evitare un disincentivo all’afflusso degli investimenti esteri, dei quali l’Italia non può fare a meno per promuovere l’aumento della produttività del lavoro, quindi anche delle retribuzioni. La riforma dei licenziamenti, infine, ha portato a un dimezzamento del contenzioso giudiziale su questa materia, eliminando un’anomalia tutta italiana: la situazione precedente, nella quale a ogni licenziamento faceva seguito un ricorso al giudice, non giovava certo ai lavoratori, ma solo al ceto forense.
Detto questo, su una cosa do ragione alla Cgil: la disciplina della materia dei licenziamenti, anche in conseguenza degli interventi legislativi e della Corte costituzionale succedutisi dal 2018 in poi, è oggi troppo segmentata e di difficile lettura: la stessa Corte costituzionale ha sollecitato il legislatore a un intervento di semplificazione e razionalizzazione. Il referendum avrebbe però il solo effetto di tornare alla disciplina assai frastagliata della legge Fornero del 2012, complicata dagli interventi della Consulta: la stessa contro cui Landini ha tuonato in passato.
L’iniziativa referendaria segna, peraltro, una novità ulteriore rispetto alle posizioni assunte dalla Cgil nel passato recente, che merita di essere segnalata. Nella Carta dei Diritti Universali del Lavoro, proposta dalla stessa confederazione nel 2016, si proponeva l’estensione del regime del vecchio articolo 18 sui licenziamenti a tutti i rapporti di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti dell’azienda; ora invece per le imprese più piccole la Cgil propone soltanto la possibilità di un aumento dell’indennizzo: ammette, dunque, che il regime della reintegrazione non può considerarsi un “diritto universale”, un “diritto fondamentale della persona”. È un passo avanti apprezzabile, che però mina alla base l’argomento sempre proposto dalla Cgil contro Legge Fornero e Jobs Act: quello, cioè, secondo il quale la sanzione reintegratoria contro il licenziamento ritenuto dal giudice non sufficientemente giustificato costituirebbe un diritto fondamentale della persona.
Sulla base di tutte queste considerazioni, una riscrittura auspicabile dell’intera disciplina dovrebbe:
. a) per il licenziamento determinato da motivi illeciti confermare la sanzione reintegratoria;
. b) per il licenziamento disciplinare attribuire al giudice – quando ritenga il motivo addotto non sufficiente – la scelta discrezionale tra la sanzione reintegratoria e quella indennitaria: dettare, cioè, una disciplina sostanzialmente corrispondente a quanto di fatto accade nei tribunali di tutta Italia oggi (ancorché a mezzo di una forzatura rispetto alla disciplina vigente);
. c) per i licenziamenti economici, individuali o collettivi estendere a tutti i rapporti la disciplina contenuta nel d.lgs. n. 23/2015 cioè la sanzione esclusivamente indennitaria;
. d) per il licenziamento nelle imprese fino a 15 dipendenti aumentare l’entità massima dell’indennizzo da 6 a 12 o 18 mensilità per le imprese con fatturato superiore a una certa soglia, anche qui recependo l’indicazione contenuta in una sentenza della Corte costituzionale.
Sono convinto che una riforma così concepita avrebbe il voto favorevole di una larga maggioranza parlamentare e che essa verrebbe ritenuta dalla Corte di Cassazione idonea a evitare il referendum, perché configurerebbe un mutamento sostanziale della disciplina vigente nella direzione indicata dal referendum sulle materie b) e d), oltre che per il fatto di conseguire una unificazione dei regimi. Ma se anche, invece, la Cassazione non la ritenesse idonea a evitare il referendum, sarebbe molto più facile a quel punto mobilitare l’elettorato in difesa di questa nuova disciplina, finalmente unitaria e facilmente comprensibile da tutti anche senza la consulenza di un esperto.
Liberta’ Eguale