di Massimo Giannini
Nella cerimonia degli addii a Napolitano, più profondo del dolore c’è solo lo sgomento per la reazione glaciale col quale la destra politica e giornalistica regola i suoi conti con questo Servitore dello Stato. In Parlamento i patrioti tacciono, riparandosi dietro al comunicato di Giorgia Meloni che, stitico e burocratico, trasuda gelo puro da ogni riga. In redazione gli squadristi bastonano, inchinandosi “di fronte alla sua morte ma non alla sua vita”. Intorno al feretro di Re Giorgio si celebra, postuma, un’odiosa luna di fiele. Al Presidente emerito non si perdona il fantasmatico “complotto” contro Berlusconi, in quel rovinoso novembre 2011.
Così i reduci e gli epigoni del famoso Popolo delle Libertà compiono l’ultima rimozione e l’ennesima manipolazione. A se stessi perdonano tutto, perché in certi casi la memoria è un inutile fardello: il fascismo e le radici mai recise con l’Msi, l’eurofobia e la xenofobia, il sovranismo e il nazionalismo. Al Cavaliere, idem: il conflitto di interessi e le leggi ad personam, le gaffe diplomatiche e le bufale economiche, Ruby nipote di Mubarak e lo spread a quota 600. Ma a Napolitano no, a lui va addebitato tutto, perché in altri casi la memoria deve essere macigno irremovibile. E non conta niente la Storia, quella del Paese e quella sua. Certo marchiata da un vizio: il riconoscimento tardivo del tragico errore del Pci sull’Ungheria. Ma poi costellata solo di virtù: l’abiura del comunismo e la scelta del riformismo, il sogno europeista e il vincolo atlantista, l’amore per la Costituzione e la passione per il Parlamento, il senso delle istituzioni e la fedeltà alla Repubblica. Conta solo quell’inaccettabile sequela di presunti “atti sediziosi”. Le dimissioni dell’Unto del Signore (che Napolitano non pretese, ma che furono propiziate dalla rottura nella maggioranza culminata nel voto contrario sul Rendiconto Generale dello Stato). Le mancate elezioni anticipate (che Napolitano non decise perché nessun partito le voleva, rifiutando di intestarsi l’inevitabile manovra lacrime e sangue). E infine il governo di Mario Monti (che Napolitano inventò, per non esporre il Paese all’anarchia di una campagna elettorale nel segno del berlusconismo feroce e ferito, e all’ordalia di un voto anticipato nel pieno di una tempesta finanziaria sul nostro debito sovrano).
Tutto questo è cancellato e distorto, nella narrazione delle Sorelle e dei Fratelli, dei cognati e dei cugini d’Italia. Per ignoranza o per calcolo, non rammentano nemmeno quello che oggi sul nostro giornale gli ricorda Montesquieu: e cioè che un anno prima di quel fatidico 2011 fu proprio quell’odiato Capo dello Stato a “salvare” lo stesso Berlusconi in crisi per lo strappo di Fini, regalandogli altri due mesi di tempo prima della fiducia decisiva in Parlamento (che l’Uomo di Arcore usò al suo meglio, comprando a peso d’oro deputati e senatori). È come se il Paese fosse per sempre prigioniero di una Storia parallela, dalla quale non si può fuggire o lo si può fare solo attraverso le “uscite di sicurezza”, bugiarde, proposte o imposte dai profeti della nuova egemonia culturale. Napolitano ha commesso i suoi errori. Di fronte al collasso della partitocrazia e al rischio di default della democrazia, allargò a volte fino all’estremo la “fisarmonica” dei poteri del Quirinale. Non vide arrivare l’onda grillina (resta agli atti il suo commento infausto dopo le amministrative del maggio 2012: «L’unico boom che ricordo è quello degli Anni Sessanta, altri non ne vedo…»). Probabilmente il governo tecnico di cui fu demiurgo quell’onda populista contribuì ancora di più a ingrossarla. Ma per quanto salatissimo, quello fu il prezzo da pagare, per salvare l’Italia dalla bancarotta e proteggere gli italiani dalla distruzione dei risparmi. E contro le successive spallate del populismo, negli anni a venire, Napolitano fu argine e baluardo. Alfiere della politica, contro l’anti-politica. E “partigiano”, certamente. Cioè sempre dalla parte del Parlamento, contro gli avventurismi personali e le disintermediazioni digitali. Sempre dalla parte della Costituzione, contro le storpiature presidenzialiste e le storture plebiscitarie.
Questo, oggi, addolora e indigna. Nemmeno di fronte a questa bara la destra italiana trova il coraggio e la voglia di compiere l’ultimo passo verso una compiuta “normalità” repubblicana. Riconoscendo il valore di chi la Repubblica l’ha onorata e servita, senza mai perseguire un interesse di partito. Facendo di quella testimonianza il patrimonio comune e condiviso di una nazione che si vorrebbe unita, almeno nei principi e nei valori fondamentali. E che invece si continua a voler dividere, in nome di un passato che non passa mai, o che passa solo se e quando conviene. È uno scherzo del destino, che questo vecchio ex Presidente della Repubblica se ne vada proprio nei giorni in cui si celebra il primo anno di una giovane Presidente del Consiglio. E come scrive Massimo Cacciari, è vero che Napolitano “si porta via con sé un’epoca intera”, attraversata dalle domande senza risposta, dalle grandi speranze nel Sol dell’Avvenire e dalle crisi di sistema, dalle chimere federaliste e dal disincanto dell’Europa, dal dominio globale al declino dell’Occidente. Ma “l’epoca nuova”, ammesso che sia cominciata davvero, non promette granché di buono.
Fonte: La Stampa