Rappresentanza forte e governo debole: il problema italiano


Al cittadino attivo, che si occupa del destino comune del Paese e non soltanto dei propri affari immediati, la politica si presenta esposta al supplizio dei cavalli, che straziano il malcapitato in direzione opposta: quello del governo e quello dei partiti. Detto in altro modo: la politica italiana si trova in una condizione di dissonanza cognitiva. Che finisce per contagiare i singoli cittadini-elettori.

Il cavallo del governo sta trottando regolarmente sul percorso dell’“ordinaria amministrazione”. Solo che si tratta dell’ordinaria amministrazione di una triplice emergenza – sanitaria, sociale, economica – cui, da febbraio, se ne deve aggiungere una quarta: quella geopolitica. Eppure trotta e salta gli ostacoli.

Ma il cavallo, anzi i cavalli, dei partiti, tirano in direzione opposta, i più in nome dell’Agenda Draghi, altri in nome della Non-Agenda Draghi, altri Anti-Agenda Draghi.

“Il supplizio dei cavalli” è l’immagine che rappresenta nitidamente la sindrome bipolare della coscienza degli Italiani, che non è affatto quella tra destra e sinistra, ma quella tra il Bene comune del Paese e quella della giustapposizione anarchica di interessi individuali e corporativi.

Che dire, infatti, della graduatoria delle “emergenze degli Italiani”, quale risulta dall’indagine condotta da Demos&Pi per La Repubblica, che pone “il costo della vita” al 23% degli interessati, “la situazione economica” al 20%, “la guerra” al 3% e “la qualità della scuola” all’1%? In una logica di governo, “la guerra” sta al primo posto, visto che il quadro geopolitico condiziona visibilmente il costo della vita e l’intera economia e la “qualità della scuola”, che condiziona il livello culturale e civile del Paese e la preparazione delle élite, dovrebbe stare almeno al secondo posto.

Dal punto di vista del governo le emergenze si dispongono su una scala diversa da quella dei cittadini. Non che il governo Draghi non stia affrontando l’emergenza economica e sociale, che sta al primo posto nella testa degli elettori. Anzi! Ci ha messo sopra 14 miliardi, senza aumentare di un centesimo il debito pubblico.

Ma a questo punto i partiti, all’inseguimento delle scale di interesse dei cittadini, costi quel che costi – sennò come potrebbero dirsi democratici? – sono corsi a mettere insieme il lupo, la capra e i cavoli, sulle orme di Alcuino di York. E lo stanno facendo, a destra e a sinistra, in modo inevitabilmente confuso e populista, sia proponendo improbabili alleanze politiche tra lupi, capre e cavoli sia rovesciando sull’elettorato ceste di promesse irrealistiche, all’insegna dell’”avvenire delle illusioni”. Eppure partiti ed elettori sanno benissimo che, dopo il 25 settembre, le emergenze non spariranno. “Ci sono nuvole all’orizzonte”, ha avvertito eufemisticamente Mario Draghi. E d’altronde il PNRR è un binario tracciato almeno fino al 2026, per chiunque governi. Potrà il futuro presidente del Consiglio fare cose molto diverse da quello attuale?  E l’immigrazione di Salvini? Sta al 4%, diminuita di due punti dal maggio 2021.

A nessuna discolpa dei partiti, va tuttavia osservato che il bipolarismo dissonante è una costante della storia politica italiana, segnatamente di quella della sedicente Seconda repubblica.

Che non è, pertanto, dovuto solo a nequizia e irresponsabilità etica delle classi dirigenti, ma è, in primo luogo, il sottoprodotto inevitabile della struttura istituzionale della democrazia italiana.

In un sistema sbilanciato a favore della rappresentanza, con il governo come variabile dipendente e risultante occasionale, la democrazia consiste nell’adeguare costantemente la rappresentanza partitico-istituzionale ai movimenti quotidiani dell’opinione pubblica, quale viene generata dai mezzi di informazione, rilevata dai sondaggi, generata ed espressa in modi virulenti e immediati dai social.

Rispetto agli anni ’80, la novità è proprio questa: che l’opinione pubblica viene sempre più generata sistematicamente dall’alto e rilevata altrettanto sistematicamente. E questo ha finito per modificare il rapporto tra rappresentati e rappresentanti e il meccanismo stesso di formazione della rappresentanza. Così, il Berlusconi  politico senza il Berlusconi mediatico degli anni ‘80 non sarebbe mai nato. Piaccia o no, il fenomeno-Berlusconi ha cambiato il modo dei partiti di costruire la rappresentanza. Si tratta di una domanda di rappresentanza immediatistica e mutevolissima, che corre ogni giorno all’incasso e alla quale i partiti sono obbligati a dare risposta al più presto, pena la caduta nei sondaggi e nei voti. I partiti passano in poco tempo dalla polvere all’altare e viceversa.

Assecondando quella domanda, il governo dovrebbe cambiare ogni giorno e, in effetti, se ne cambia tre a legislatura e, neppure tanto paradossalmente, si dovrebbe votare ogni giorno. Questo, d’altronde, il messaggio lanciato anni fa dal M5S: “aprire il Parlamento come una scatoletta” significava semplicemente che la rappresentanza istituzionale era sempre troppo sfasata rispetto ai rappresentati e che bisognava riempire tale gap con la democrazia informatica di Casaleggio e con il referendum quotidiano. La delega periodica non aveva più fondamento e il governo era ridotto ad amministrazione tecnica.

E’ evidente che il difetto della nostra democrazia sta nel manico, cioè nello squilibrio strutturale tra rappresentare e governare: rappresentanza forte e governo debole. Così che siamo tutti in grado di prevedere, senza essere politologi, che l’assetto della rappresentanza dopo il 25 settembre non durerà a lungo e pertanto neppure il governo. Ed è questa la ragione per la quale l’astensionismo tende a crescere. Al di là delle drammatizzazioni strumentalissime, si sa che il nuovo governo per un verso non potrà uscire dai binari del PNRR e, per l’altro, non durerà a lungo. La breve durata dei governi è scritta nel DNA della democrazia italiana. Dopo 74 anni di democrazia, questa è una verità autoevidente

La destra sembra esserne consapevole e propone dunque il presidenzialismo e il federalismo. Lo fa, in primo luogo, perché convinta che, in caso di sua vittoria, potrebbe avere i numeri per andare autonomamente alla modifica della Costituzione e, in seguito, potrebbe anche conquistare la Presidenza. Quando, governante Renzi nel 2016, non aveva la certezza di vincere, si batté contro un’ipotesi che non era affatto presidenzialista, ma che andava comunque in direzione di un rafforzamento della gamba del governo.

Tuttavia, al di là delle intenzioni e delle illusioni della destra, la sinistra farebbe bene a prendere finalmente sul serio il tema della modifica costituzionale, invece di agitare lo spauracchio del ritorno del fascismo e dell’autoritarismo. Sarebbe un modo non solo per scoraggiare tentazioni affioranti di modifica unilaterale della Costituzione, ma, soprattutto, per affrontare finalmente la questione centrale: quella della durata quinquennale dei governi, quali che siano i mutamenti mutevoli dell’opinione pubblica.

E cosa meglio di un’elezione diretta del Capo dello Stato da parte dei cittadini-elettori potrebbe garantirla?

 

Editoriale da santalessandro.org