AGI – Dalla stanza dove sono isolato perché ancora positivo, leggo allibito che gli italiani avrebbero difficoltà a farsi vaccinare da AstraZeneca, prima rilasciato, poi ritirato, poi di nuovo rilasciato. Sarebbero i lavoratori della scuola, addirittura, i più diffidenti.
Chi continua a rinunciare a farsi somministrare la dose anti-Covid va da una percentuale media tra il 10% e il 20%, con picchi di oltre il 30%. Dopo il via libera dell’Ema e quindi dell’Aifa, giungono dalla Sardegna, attraverso l’Azienda sanitaria unica, perfino le prime notizie di rinuncia alla vaccinazione in percentuale non trascurabile (attorno al 20%) da parte di docenti e personale Ata. Torino e Napoli sono le prime città italiane per numero di disdette legate al vaccino AstraZeneca, e la frenata arriva dal personale scolastico: il 31% del totale.
Chi tentenna non ha ancora capito cos’è il Covid. Forse è rimasto alle primissime impressioni di un anno fa quando qualcuno, inopitamente, parlava di “forte influenza”.
Io lotto con il Covid da più di 50 giorni, sono stato ricoverato dieci giorni all’ospedale con polmonite bilaterale interstiziale relata complicata da ipossiemia fortunatamente senza embolie, e posso assicurare che è infinitamente più dolorosa, più paurosa, più faticosa l’infezione da Coronavirus delle piccolissime controindicazioni dei vaccini che, leggo, ordinariamente sarebbero “sanguinamento della pelle o delle mucose, piccole macchie rosse, forti mal di testa, mal di stomaco, dolori improvvisi, paralisi provvisoria di un lato del corpo”.
Per convincersene non c’è bisogno delle esortazioni dei politici, degli opinion leaders o degli influencers: tutti noi, ormai, abbiamo parenti, amici, vicini, che se la sono vista brutta. Non sto parlando dei tantissimi positivi asintomatici. Sto parlando di quelli che come me sono andati all’ospedale finendo magari nella terapia intensiva. Parliamo con loro, facciamoci raccontare la loro esperienza. Sui social ci sono testimonianze terribili e commoventi allo stesso tempo.
Non basta dire “stanchezza”, non basta dire “colpo di tosse”, non basta dire “febbre”, non basta dire “mancanza di ossigeno”. Mentre stai con la mascherina 24h ore al giorno pensi alla morte. Io ho avuto la fortuna di non passare nè per la terapia intensiva nè per la pre-intesiva (o semi-intensiva che dir si voglia) ma vedevo i volti, scorgevo le urla e i gemiti, ho visto i cadaveri di chi non ce la faceva (il cui passaggio, giustamente, il personale cercava di celare). Vedi medici e infermieri in trincea a combattere una guerra di cui la maggior parte dei pazienti, in coma, non saprà mai nulla. Personale sanitario schierato che risponde colpo su colpo alla malattia per restituire alla vita chi il Covid vuole portare alla morte.
I periodi di recupero poi, quelli per tornare negativi, sono lunghissimi: anzi, mi sembra di capire che siano diversi caso caso. Io sono malato da più di cinquanta giorni e ancora non vedo la fine.
Dobbiamo metterci in testa che il Coronavirus è una bruttissima bestiaccia (uso questo sostantivo anche se mi dicono che i virus propriamente non possono essere annoverati tra gli animali: ma questo modo di dire, vi assicuro, è quello che rende l’idea).
Noi preti parliamo spesso della morte e dell’al di là ma, posso dire, io non avevo mai pensato seriamente alla “mia” morte, al “mio” funerale, al “mio” al di là. È un regalo che mi ha fatto il Covid.
Per questo rimango allibito quando leggo di chi discetta sul vaccinarsi o meno. Se non credete a me parlate con qualcuno che c’è passato per davvero e fatevi raccontare. Farsi vaccinare è semplicemente da persone che hanno capito cosa sta accadendo. È tutto. Ogni parola in più è di troppo.
Source: agi