L’ultima rilevazione Istat ha reso noti i dati relativi al numero delle imprese che hanno chiuso in Italia negli ultimi anni, vediamo qual è la situazione
L’Istat ha diffuso i primi risultati della seconda edizione del documento Rilevazione multiscopo, parte integrante del Censimento permanente delle imprese, che ha interessato un campione di circa 280 mila realtà imprenditoriali – con 3 e più addetti – concentrandosi su quelle che producono l’85,1% del valore aggiunto nazionale, impiegano il 74,7% degli addetti (13,1 milioni) e il 96,0% dei dipendenti (11,5 milioni), quelle cioè che costituiscono un segmento fondamentale del nostro sistema produttivo.
La Rilevazione diretta è stata realizzata tra novembre 2022 e marzo 2023, ma l’anno di riferimento dei dati acquisiti dalle imprese è il 2022. Il risultato rappresenta quindi l’andamento della situazione imprenditoriale nel nostro paese, evidenziando anche quali e quante imprese hanno chiuso in Italia negli ultimi anni.
Il report Istat
Più di tre quarti delle imprese appartenenti alla popolazione oggetto dello studio Istat (805 mila unità, pari al 78,9% del totale) sono microimprese (con 3-9 addetti in organico), 189 mila (18,5% del totale) sono imprese di piccole dimensioni (10-49 addetti), mentre le medie (50-249 addetti) e le grandi imprese (con 250 addetti e oltre) rappresentano rispettivamente il 2,2% (22.861 unità in valori assoluti) e lo 0,4% (3.969 unità, di cui 1.622 con 500 addetti e oltre).
Inoltre, più della metà delle imprese considerate è attiva al Nord (il 28,7% nel Nord-ovest e il 22,7% nel Nord-est), il 21,3% al Centro e il 27,3% nel Mezzogiorno.
Di fatto, il Censimento offre un quadro informativo di estremo dettaglio: sono coinvolte ben 78 delle 88 divisioni di attività economica presenti nella classificazione ufficiale.
Quante imprese hanno chiuso in Italia
Secondo il report Istat, tra il 2018 e il 2021 le imprese sono diminuite dell’1,2% (-12 mila), mentre sono aumentati del 3,8% gli addetti ai lavori (+480 mila). Nello specifico, rispetto al 2011, le imprese con 3 e più addetti sono diminuite del 2,5% a fronte di un aumento del 5,1% del personale in esse impiegato.
Inoltre, l’evoluzione della struttura dimensionale delle imprese mostra una flessione del numero di microimprese (con 3-9 addetti) e della relativa occupazione, sia in termini assoluti sia in relazione al loro peso sul complesso delle imprese.
Nel 2011 le microimprese pesavano sul totale per il 79,9% e in termini occupazionali del 30,5%, scendendo poi nel 2018 rispettivamente al 79,5% e al 29,5% e nel 2021 al 78,9% e al 28,1%.
Le piccole imprese (con 10-49 addetti) registrano un leggero aumento (+3 mila unità in valore assoluto tra il 2011 e il 2021), mentre tuttavia diminuisce il loro peso occupazionale (26,4% nel 2011; 26,1% nel 2018; 25,7% nel 2021). Contestualmente, aumenta il peso occupazionale delle imprese di medie dimensioni (50-249 addetti) e grandi dimensioni (con 250 e più addetti). In particolare, il peso delle medie imprese, in termini di occupazione, passa dal 16,0% del 2011 al 16,1% del 2018 al 16,9% del 2021, quello delle grandi dal 27,0% del 2011 al 28,3% del 2018 al 29,3% del 2021 (era il 26,8% nel 2001). Tale dinamica è trainata dalle imprese con 500 e più addetti che nel 2021 arrivano ad impiegare il 23,2% del totale degli occupati.
Nel complesso, ragionando per comparti:
il settore dei Servizi rileva una diminuzione del 2,2% delle imprese e un aumento del 2,8% degli addetti;
le imprese che operano nell’Industria aumentano invece dell’1,3% e del 5,5% in termini di addetti, con un peso sul totale dell’economia pari al 30,4% delle imprese e al 36,3% degli addetti (era pari al 29,6% e al 36,0% nel 2018);
il settore delle Costruzioni inoltre è l’unico in cui si registra un aumento del numero di imprese e dell’occupazione delle aziende micro, con +6mila imprese e +38 mila addetti. Tale dinamica è attribuibile principalmente, a partire dal 2020, alle politiche di incentivi fiscali (superbonus 110%), che tra il 2018 e il 2021 presenta una crescita importante del numero di unità (+10,2% a fronte del -3,8% registrato dall’Industria in senso stretto) e dei relativi occupati (+18,8% rispetto al +2,4% dell’Industria in senso stretto), arrivando a rappresentare il 12,0% delle imprese e il 7,8% degli addetti (a fronte del 10,7% e del 6,8% registrato nel 2018);
“Il rallentamento del Terziario e l’espansione delle Costruzioni avviene in un contesto in cui la quota di imprese appartenenti all’Industria in senso stretto continua a diminuire (20,7% nel 2011, 18,9% nel 2018, 18,4% nel 2021)”, viene riportato da Istat. Per cui, “la contrazione dell’Industria in senso stretto riguarda esclusivamente le realtà industriali di piccole e piccolissime dimensioni che, nel complesso, hanno fatto registrare una perdita di 46 mila occupati (-4,7% degli addetti tra le microimprese e -0,5% tra le piccole). Crescono invece le medie (+8,1%) e grandi (+9,1%) imprese dell’Industria in senso stretto e gli addetti in esse impiegati (+9,0% e +4,4%)”.
Aumentano le imprese familiari
A registrare un trend positivo sono invece le imprese che in Italia risultano controllate da una persona o da una famiglia. Come emerge dal report Istat, infatti, nel 2022 si conferma tra le imprese italiane la forte presenza di unità controllate da una persona fisica o una famiglia (più di 820mila unità), ovvero l’80,9% del totale delle imprese con almeno 3 addetti (nel 2018 era il 75,2%).
Il fenomeno è particolarmente diffuso tra le microimprese (83,3% dei casi) e meno frequente tra le piccole (74,5%), le medie (58,8%) e ancor meno tra le grandi unità (41,6%).
La presenza di imprese familiari è più diffusa tra le imprese manifatturiere (81,2%) – in particolare nei settori tradizionali del tessile, abbigliamento e calzature, nell’alimentare e nel legno – nel comparto delle Costruzioni (82,4%), e nei Servizi tra quelle del commercio (84,4%) e dell’alloggio e ristorazione (87,3%).
Si tratta di realtà in cui la gestione dell’impresa è affidata nella maggior parte dei casi all’imprenditore stesso o a un membro della famiglia proprietaria, anche se si ricorre a un manager interno o esterno all’impresa soprattutto nelle imprese di medie (10,4% delle unità considerate) e grandi dimensioni (21,3%).
“Tra il 2016 e il 2022 poco meno di una impresa su 10 dichiara di aver affrontato almeno un passaggio generazionale”, si legge nella rilevazione. “Nel caso delle medie e grandi imprese la percentuale sale rispettivamente al 17,8% e 18,9%”. Mentre, complessivamente, il 7,9% delle unità ritiene inoltre di poterlo affrontare tra il 2023 e il 2025 (possibilità questa indicata più frequentemente dalle piccole e medie unità, poco meno di un sesto del totale).
Risorse umane e tasse: in cosa le imprese spendono (e perdono) di più
A fronte del numero delle imprese che hanno chiuso negli ultimi anni, e considerando anche la battuta d’arresto registrata in diversi settori (dove abbiamo assistito anche a un calo delle nuove aperture) l’Istat ha esaminato alcuni dati interessanti soffermandosi sulle perdite.
Ovvero, tenendo conto del numero di imprese che ha arrestato la propria attività e dei comparti dove l’iniziativa è mancata (quindi dove non c’è stato un interesse a far nascere o crescere nuove realtà), si sono sfruttati e analizzati i dati raccolti per scoprire per cosa le imprese hanno speso di più non avendo un diretto ritorno economico.
Ebbene, stando a quanto emerso, in un periodo segnato dalle conseguenze della crisi sanitaria, l’acquisizione di risorse umane ha coinvolto, nel biennio 2021-2022, un’impresa su due (51,2%): si tratta del 45,1% delle microimprese e il 71,9% delle piccole, con percentuali che crescono e raggiungono valori prossimi al 90,0% tra le medie e le grandi unità.
Queste, però, hanno riscontrato ostacoli all’acquisizione di nuove risorse nel biennio 2021-2022. In particolare, tra le imprese che hanno preso in considerazione la possibilità di acquisire personale:
il 43,2% delle micro lamenta l’impatto di oneri fiscali e contributivi troppo elevati;
il 38,2% l’incertezza sulla sostenibilità futura dei costi delle nuove risorse;
il 28,8% asserisce difficoltà nel reperimento di personale con le competenze tecniche richieste;
il 15,2% la presenza di problemi di natura finanziaria.
Inoltre, è stato osservato che al crescere della dimensione e della complessità organizzativa aziendale aumenta la quota di imprese che lamentano difficoltà nel reperire personale con adeguate competenze tecniche (43,7% per le piccole imprese, 53,1% per le medie e 56,3% per le grandi) e trasversali, come la capacità di lavorare in gruppo, risolvere problemi e situazioni critiche, adattarsi ai nuovi contesti di lavoro (24,4% per le piccole, 32,0% nelle medie e 35,8% per le grandi).
Nel complesso, la difficoltà nel reperire figure professionali con le competenze richieste sembra crescere all’aumentare del contenuto di tecnologia e conoscenza delle produzioni: “Sono le imprese residenti nel Nord e, in particolare, quelle che operano nell’Industria in senso stretto del Nord-est, a lamentare più diffusamente la carenza di competenze”. Tra il 2018 e il 2022 aumentano le imprese che individuano tra gli ostacoli alla competitività la carenza generale di personale (dal 10,6% del 2018 al 19,3% del 2022) e di personale qualificato (dal 9,2% al 14,4%), principale fattore di ostacolo per le piccole e medie imprese.
Tuttavia, alle imprese al di sopra dei 9 addetti è stato anche chiesto quali pratiche abbiano adottato nel biennio 2021-2022 per attrarre e/o trattenere personale qualificato. Ebbene, oltre un’impresa su tre tra le piccole (35,2%), una su quattro tra le medie e il 16,5% delle grandi dichiara di non aver adottato alcuna pratica, mentre percentuali più contenute si osservano nei Servizi di informazione e comunicazione e nelle Attività finanziarie e assicurative.
Comunque, tra le piccole imprese:
una su tre afferma di essere disposta a concedere incrementi salariali:
circa il 30% maggiore flessibilità negli orari di lavoro, una su cinque la garanzia di gradi crescenti di autonomia sul lavoro in relazione a specifiche competenze o mansioni;
seguono, con percentuali minori, la disponibilità a un maggior coinvolgimento nelle decisioni aziendali e l’accesso a benefit (rispettivamente 13,9% e 13,4%);
meno diffusi, tra le piccole, gli incentivi per attività di auto-formazione e crescita professionale, anche esterne all’impresa (11,8%).
Queste percentuali crescono invece significativamente tra le medie e soprattutto le grandi imprese. In questi casi, il contesto sociale ed economico poco favorevole costituisce il primo ostacolo alla competitività indicato dalle grandi imprese (21,4% rispetto al 17,9% delle microimprese, al 14,6% delle piccole e al 16,5% delle medie).
Infine, tra i fattori di difficoltà e dispendio economico segnalati più diffusamente si confermano comunque gli oneri amministrativi e burocratici (27,1% delle imprese) e la carenza di risorse finanziarie (23,7%), che però risultano meno sentiti rispetto al 2018 (erano pari al 33,1% e 29,6% rispettivamente), in tutte le classi dimensionali, così come le difficoltà dovute ad una scarsità di domanda (dal 19,2% all’11,9%) a conferma di come nel 2022 le problematiche delle imprese che hanno superato l’emergenza economica e sanitaria si siano spostate verso una dimensione più immateriale, relativa in particolare al capitale umano.
Federica Petrucci
Di Federica Petrucci – fonte: https://quifinanza.it/