Quando la Nato decise di colpire la Serbia per fermare il massacro in Kosovo


AGI – In Europa la data del 24 marzo coincide con il tragico ricordo dell’avvio dei bombardamenti compiuti nel 1999 sulle città di Belgrado in Serbia e di Pristina in Kosovo da parte di aerei NATO decollati da aeroporti italiani. Una ‘ricorrenza’ che, a distanza di 23 anni cade proprio nel mezzo di una nuova guerra piombata sul vecchio continente: è precisamente un mese che la Russia ha dato il via all’invasione dell’Ucraina, iniziata lo scorso 24 febbraio.  

Il conflitto in Jugoslavia fu la prima vera guerra dopo il 1945, pertanto quel fatidico 24 marzo 1999 segnò l’inizio di una delle pagine più buie della storia recente dell’Europa. Quel giorno, verso le ore 16, la Forza Alleata (Allied Force) della Nato – costituita da Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Canada, Spagna, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Turchia, Paesi Bassi e Belgio – avviò la sua operazione contro la Repubblica Federale di Jugoslavia di Slobodan Milosevic, consistita in una intensa campagna di attacchi aerei a fine strategico durata oltre due mesi, fino al 10 giugno, evitando scrupolosamente l’opzione dell’attacco terrestre.  

L’operazione Allied Force è la seconda azione militare nella storia della NATO, dopo l’operazione Deliberate Force del 1995 in Bosnia ed Erzegovina. L’operazione Allied Force è inoltre la prima volta in cui la NATO ha usato la forza militare senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il che ha innescato dibattiti sulla legittimità dell’intervento.  

Sulla carta l’intervento deciso dalla NATO era teso a riportare la delegazione serba al tavolo delle trattative politiche, che aveva abbandonato dopo averne accettato le conclusioni (Trattato di Rambouillet), e a contrastare lo spostamento della popolazione del Kosovo allo scopo di predisporre una sua spartizione tra Serbia e Albania.

Anche se l’esistenza di un piano predisposto a tale scopo non è mai stata provata con sufficiente certezza, resta un fatto che appena iniziarono le incursioni aeree NATO l’esercito serbo attuò operazioni volte a ottenere esodi massicci e compì in taluni casi dei veri massacri.

In Kosovo – allora appartenente alla Repubblica Federale di Jugoslavia – le forze serbe attaccarono i civili kosovari albanesi, massacrandoli e costringendoli ad un drammatico esodo nelle vicine Albania e Macedonia. Tuttavia, a compiere violenze ai danni dei cittadini d’etnia serba, già a partire dal 1995, fu la guerriglia dell’UCK – infiltrata anche da veterani musulmani e croati – che mirava all’indipendenza completa del Kosovo. Da marzo 1998 l’escalation della crisi – caratterizzata dall’intensificarsi delle attività dell’UCK e da una occupazione militare progressiva del Kosovo da parte delle forze militari e paramilitari serbe – spinse vari Paesi europei, Stati Uniti e Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a interessarsi più da vicino allo scenario.   

L’operazione NATO si è sviluppata in tre fasi. La prima era volta a togliere alla Serbia ogni capacità di offesa e difesa aerea, tramite il sistematico bombardamento di aeroporti militari, postazioni missilistiche antiaeree e radar. Nella seconda fase gli attacchi aerei alleati si sono rivolti a obiettivi militari generici, con particolare attenzione alle forze serbe presenti nel Kosovo. La terza fase ha avuto come obiettivo primario quello di colpire bersagli civili e militari nel tentativo di paralizzare il Paese, avendo come principali obiettivi i ponti – con alcuni gravi incidenti – e le centrali elettriche, ma anche le telecomunicazioni, per obbligare il governo serbo – sostenuto per un periodo da Russia e Cina – a una resa e spingere il popolo serbo a fare pressioni sul proprio esecutivo.  

Tra gli episodi salienti ci fu la prima notte di bombardamenti con attacchi a postazioni militari e aeroporti in Kosovo e nei dintorni di Belgrado, anche con missili da crociera. Fu immediato l’afflusso dei primi profughi kosovari presso le frontiere albanese e macedone. Il 5 aprile 1999 una bomba caduta in un’area abitata causò 17 morti mentre una settimana dopo il bombardamento di un ponte sul quale transitava un treno provocò 50 vittime. Il 13 aprile l’esercito serbo colpì con artiglieri un villaggio di frontiera albanese e l’indomani 75 civili kosovari furono uccisi per errore da aerei NATO.

A fine aprile la capitale serba venne bombardata con bombe incendiarie contro il quartier generale del Partito Socialista Jugoslavo e la torre della televisione pubblica serba, causando 16 morti. Nella piccola città di Murino, in Montenegro, sei persone, di cui tre bambini, morirono nel bombardamento di un ponte. Il 1 maggio, 47 civili furono uccisi dopo che il loro bus venne centrato mentre attraversava un ponte. L’8 maggio l’ambasciata cinese a Belgrado venne colpita per un probabile errore di intelligence, causando tre morti e un grave incidente internazionale.

Il 13 maggio, dopo un apparente ritiro serbo dal Kosovo, e il ricorso della Serbia contro la NATO per genocidio presso il Tribunale Internazionale dell’Aia – rigettato il 2 giugno – ci furono 60 morti e 80 feriti causati dalla NATO contro il villaggio kosovaro di Korisa. La NATO accusò i serbi di aver usato i civili come scudi umani.

Il 21 maggio, circa 100 detenuti morirono durante il bombardamento di un carcere a Pristina. Il 27 maggio, il Tribunale Internazionale dell’Aia iniziò a indagare su Milosevic e alti ufficiali per crimini di guerra. Tra il 30 e il 31 maggio furono compiute tre stragi di civili in vari bombardamenti NATO che, però, negò ogni responsabilità, come nell’ospedale di Surdulica (Sud), con un bilancio di 20 vittime, e nel villaggio di Novi Pazar, con 23 morti.

Il 1 giugno il presidente Milosevic accettò le decisioni del G8 e iniziò la pianificazione di una missione di pace in Kosovo. Il 9 giugno lo Stato Maggiore serbo firmò con la NATO l’accordo di Kumanovo sul ritiro dal Kosovo e l’indomani, dopo 78 giorni di bombardamenti, le missioni di attacco furono sospese

Secondo dati ufficiali, in tutto furono compiuti 2.300 attacchi aerei da parte della Forza Alleata, distruggendo 148 edifici e 62 ponti, danneggiando 300 scuole, ospedali e istituzioni statali, così come 176 monumenti di interesse culturale e artistico. Gli aerei coinvolti, in tutto un migliaio, partirono dall’Italia, ai quali si aggiunsero 30 navi da guerra e sottomarini salpati nell’Adriatico e in un secondo momento parte delle operazioni ebbero inizio in Ungheria.  

Sono molto variabili i bilanci riguardanti le perdite umane in Kosovo, anche perché riguardano da un lato le vittime dei bombardamenti Nato e dall’altro quelle dei massacri compiuti sia dalle forze serbe che dalla guerriglia albanese dell’UCK, dando luogo a un’altra guerra, quella dei numeri, diventata anche quella dei media. 

Le bombe sganciate dalla Forza Alleata avrebbero causato in tutto la morte di 2.500 civili, tra i quali 89 bambini, 12.500 feriti e un numero di profughi che va da 700 mila a un milione. Human Rights Watch ha calcolato fra 489 e 528 le perdite di civili jugoslavi provocate dai bombardamenti. In queste cifre non sono comprese le morti di leucemia e di cancro causate dagli effetti delle radiazioni dei proiettili a uranio impoverito.  

Sul versante del genocidio – che ha avuto come posta in gioco anche la legittimazione dell’intervento militare NATO e il concetto di ‘guerra umanitaria’ – in Kosovo i civili uccisi furono più di 13 mila, di cui circa 10 mila albanesi, 2 mila serbi e 500 tra rom, bosniaci e cittadini di altre etnie. I dispersi furono migliaia, i profughi più di 250 mila. 

Source: agi