AGI – Il diritto alla salute e alla sanità, in Costa d’Avorio – così come in gran parte del continente africano – è più sulla carta che nella realtà dei fatti. Sulla carta e nelle norme del paese è garantito al nascituro e alla mamma l’assistenza al parto e le cure gratuite per il bimbo fino all’età di cinque anni. Ma tutto ciò resta un’illusione. Per chi non ha denaro, e tanto, non trova negli ospedali pubblici l’assistenza adeguata. Spesso non la trova affatto.
Si è da poco concluso il vertice Unione Europea-Africa, si è discusso anche di sanità, di quando bisognerebbe fare perché diventi un bene usufruibile da tutti e non un privilegio. Molte parole, di fatti davvero pochi. I presidenti africani conoscono bene cosa accade negli ospedali dei loro paesi e lo ignorano. I leader occidentali leggono statistiche e, a volte, si indignano, ma più dei numeri contano le storie che rivelano una realtà drammatica. Alex è un ragazzino di 3 anni. In salute, vivace, ma come tutti noi non ha deciso dove nascere e da che genitori. La madre, per trovare di che vivere per lei e per il figlio, è costretta a praticare il “sesso di sopravvivenza”.
Alex è sballottato un po’ ovunque, anche se non gli manca nulla. A volte viene lasciato in un resort sulla spiaggia, dove la generosa proprietaria italiana se ne prende cura, mentre la madre vende ciò che può sulla spiaggia. A volte rimane a casa con la nonna, ma anche questa non ha un lavoro fisso e, quindi, si ingegna nel vendere medicinali fasulli, ma soprattutto droga.
Per Alex qualcosa, alla nascita è andato storto. Si è formata un’ernia ombelicale che gli sporge di quasi dieci centimetri. Un handicap. Bisognerebbe operarlo. La sanità pubblica dovrebbe prendersene carico, visto che l’ernia è la conseguenza di un difetto nella cicatrizzazione dell’ombelico. Errore di chi lo ha fatto nascere o pura fatalità? Inutile chiederselo. Viste le norme sanitarie del paese non dovrebbero esserci problemi per l’operazione. E invece no.
La madre va all’ospedale pubblico di Grand Bassam, le dicono che è possibile operarlo, ma bisogna pagare. I soldi non ci sono. Così, sentendo un infermiere dell’ospedale che presta servizio come volontario al Carrefour Jeunesse, spazio gestito dalla Comunità Abele, chiedo se è possibile avere un appuntamento con il chirurgo pediatrico, almeno per sapere quale sarebbe il costo. In pochi giorni abbiamo la visita. L’operazione si può fare.
La dottoressa ci consegna un foglio prestampato con tutto ciò che occorre per l’operazione dove campeggia il titolo: “Kit d’intervention chirurgicale”. Una vera e propria lista della spesa. C’è proprio tutto: siringhe nel numero necessario, le lame per il bisturi, i farmaci, il filo di sutura, gli anestetici, le garze, i cerotti, l’occorrente per l’intubazione, guanti sterili, persino il betadine (ben 31 voci).
Due intere pagine, dettagliate. Che ci sia il prestampato significa che l’operazione è di routine. Con le due pagine dobbiamo andare alla farmacia dell’ospedale. Ad ogni voce viene segnato il prezzo unitario e quello moltiplicato per la quantità, e in fondo il totale a cui si deve aggiungere il costo della visita, quello della camera d’ospedale e altre voci. Totale 150mila franchi Cfa (230 euro circa). Per la madre è impossibile pagare quella cifra.
Che fare? Lasciare che Alex porti con sé l’handicap o operare? Si decide di operare. Si paga e ad Alex viene tolto l’handicap. È giusto? È normale? No. Ma non c’era alternativa. Alex è stato fortunato? Forse, ma dovrà continuare a vivere nella precarietà, in un paese che non gli sa offrire futuro. Ma le cose possono andare decisamente peggio.
Sempre a Grand Bassam, antica capitale coloniale della Costa d’Avorio, con l’aiuto della Comunità Abele, ong torinese, ho raccolto la storia di Awa (nome di fantasia). In parte me l’ha raccontata lei, ma fatica a svelare un dramma. Gli educatori della Ong torinese hanno raccontato il resto.
Awa è una ragazza fragile, 16 anni, con una vita complicata fatta di stenti ed esperienze drammatiche. Molte, a Grand Bassam, sono le minorenni, che per arrivare a fine giornata – arrivare a fine mese non è un problema che si pongono, la quotidianità è l’orizzonte – praticano il “sesso di sopravvivenza”, come la mamma di Alex. Ebbene Awa è rimasta incinta per la seconda volta.
La prima gravidanza, seguita a uno stupro, è terminata con un aborto. La pratica è vietata in Costa d’Avorio. E allora queste giovani donne ricorrono a cocktail di farmaci, quelle che hanno dei soldi vanno negli ospedali, anche pubblici, che lo praticano clandestinamente. Con tutte le conseguenze del caso. Awa, però, questa volta, ha deciso di dare alla luce il suo bambino.
Viste le difficoltà economiche della famiglia l’equipe educativa della Comunità Abele ha deciso di prenderla in carico e accompagnarla all’ospedale di Grand Bassam. Dopo due ecografie è stato scoperto che il liquido amniotico era praticamente finito e che il bambino era mal posizionato. La diagnosi: fare un cesareo, e subito, e mettere il bambino in una incubatrice, visto che sarebbe nato prematuro. L’ospedale di Grand Bassam è in fase di riabilitazione e non può fare l’intervento.
Allora viene deciso di chiamare un’ambulanza, pagandola, per trasportare la ragazza all’ospedale Chu di Cocody, ma non ci sono posti. In questo ospedale consigliano di andare all’ospedale militare, ma solo per entrare chiedono una cauzione di 250mila franchi cfa (circa 400 euro). Non abbiamo i mezzi. Si ritorna a Grand Bassam: un educatore si reca alla clinica privata Siloé, un altro a Bonoua al Centro don Orione.
Alla clinica Siloé l’operazione costa 450mila franchi cfa, al centro don Orione non sono equipaggiati per questo tipo di interventi. Questi ultimi ci suggeriscono di andare all’ospedale generale di Adiaké. I volontari provano a chiamare, ma non riescono ad avere informazioni precise e affidabili. Allora di nuovo in ambulanza con Awa. Chilometri su chilometri che non giovano né alla madre né al nascituro.
Ad Adiaké possono fare l’operazione ma non hanno un’incubatrice per il bimbo. Si parte per l’ospedale di Ayamé e poi per il Centro ospedaliero regionale di Aboisso. In entrambi i casi i blocchi operatori non sono funzionanti. Si ritorna a Grand Bassam. I volontari chiamano il Chu di Port Bouet, ma manca l’incubatrice. Quando cercano di entrare in contatto con l’Ospedale di Youpougon, la nostra ricerca finisce: il bambino è morto.
Nove ospedali e oltre 300 chilometri percorsi in ambulanza per cercare di far nascere un bimbo, ma a causa della mancanza di incubatrici, di malfunzionamenti e per i costi elevati il bambino di Awa non ha potuto vedere la luce. A chi dare la colpa? Non serve chiederselo. E poi ci si stupisce che migliaia di persone lascino la Costa d’Avorio per intraprendere il “viaggio della speranza” verso l’Europa. Se Awa decidesse di farlo, da noi sarebbe considerata una migrante economica da respingere. Per me è solo una giovane donna a cui è stato negato il diritto di vivere e di dare la vita.
Source: agi