Che El Greco fosse ambizioso, arrogante ed eccessivamente puritano in un’Italia cinquecentesca dove l’arte era uno strumento di fede e Michelangelo il suo divino maestro, era cosa nota nella Roma dei papi.
Ma il fatto che il pittore greco si fosse permesso di definire l’intoccabile Buonarroti “un brav’uomo che non sapeva dipingere”, ai pittori del tempo e ai Farnese, custodi morali del Giudizio Universale, proprio non andò giù, specie quando il primo maestro del Siglo de Oro si offrì di distruggere (e ridipingere) il capolavoro michelangiolesco, giurando che avrebbe ottenuto un risultato migliore e decisamente più vicino alla morale cristiana.
Il fatto è che Domínikos Theotokópoulos – come firmava i suoi dipinti in lettere greche con il suo nome completo – di ambizione ne aveva da vendere.
L’isola di Creta, nel 1541, allora parte della Repubblica di Venezia, gli aveva dato i natali e un’anima indomabile che gli aveva permesso di testimoniare la sua fede, fatta di luci e di ombre. Le sue figure umane, sinuosamente allungate, e i colori originali e fantasiosi erano frutto dell’incontro tra l’arte bizantina, della quale Creta era intrisa, e la pittura occidentale. Venezia (e l’Italia) dove giunse a 26 anni, gli insegnarono come inseguire i propri sogni, a contatto con le famose botteghe di Tiziano, Bassano, Tintoretto, Veronese. Le opere dipinte nel Belpaese sarebbero state influenzate dallo stile del Rinascimento veneziano dell’epoca, con quelle figure allungate che ricordano quelle del Tintoretto e un uso del colore che riconduce a Tiziano.
Il progetto espositivo pronto a inaugurare a Palazzo Reale, a Milano, il prossimo 11 ottobre, dal titolo EL GRECO, a cura di Juan Antonio García Castro, Palma Martínez – Burgos García e Thomas Clement Salomon, oltre a presentare una quarantina di opere del maestro cretese con prestigiosi prestiti internazionali, metterà in luce questi contatti, assieme all’impatto dei modelli italiani nella formazione dell’artista e all’interpretazione dell’ultimo periodo toledano. La mostra – che sarà aparta al pubblico fino all’11 febbraio 2024 – è promossa dal Comune di Milano Cultura e prodotta da Palazzo Reale e MondoMostre, con il patrocinio dell’Ambasciata di Spagna in Italia.
Nel 1570, anno di svolta per quanto concerneva i rapporti tra la Chiesa cattolica e il mondo musulmano, il Mediterraneo occidentale e orientale, El Greco raggiunse Roma, una città difficile come difficile sarebbe stato trovare un nuovo equilibrio al cospetto di un gigante come Michelangelo. Fu nella capitale dell’arte del mondo mediterraneo, dove era entrato a far parte della prestigiosa corporazione dei pittori di San Luca aprendo il proprio studio, che coltivò brillanti amicizie, ma anche malevoli critiche. Le stesse che mosse al Buonarroti.
All’epoca del suo arrivo a Roma, Michelangelo e Raffaello erano già morti, ma il loro esempio continuava ad animare i linguaggi dei giovani pittori. L’ambizioso “maestro Domenigo” era infiammato da un desiderio: lasciare la propria traccia nella città eterna difendendo le sue idee, le convinzioni artistiche e il suo stile. Apprezzava molto il lavoro di Correggio e di Parmigianino, ma El Greco non esitò a criticare duramente il Giudizio Universale di Michelangelo realizzato nella Cappella Sistina. Si potrebbe dire che quando El Greco propose di “cristianizzare” il Giudizio si offrì di applicare le amare verità del cristianesimo orientale alla corrotta terra desolata di Roma.
Cavalcando la diatriba, sempre più convinto che il colore fosse più importante del disegno, El Greco propose spregiudicatamente a papa Pio V di ridipingere interamente l’affresco della Sistina secondo i dettami della nuova e più rigida dottrina cattolica. Si dice siano stati proprio gli attacchi verbali all’eroe della pittura, Michelangelo, a indurre diversi pittori ad allontanarlo da Roma.
D’altra parte il capolavoro di Michelangelo era avvezzo alle critiche dei benpensanti. Il cerimoniere del papa, Biagio da Cesena, aveva detto era “una cosa molto vergognosa aver fatto in un luogo così onorevole, tutte quelle figure nude che mostravano la loro nudità così spudoratamente”, definendolo un’opera “non per la cappella di un papa, ma per uno stabilimento balneare o un’osteria”.
A Roma dal miniaturista croato Giulio Clovio, El Greco era riuscito a ottenere una lettera di raccomandazione ad Alessandro Farnese, e quindi un alloggio nell’elegante palazzo del cardinale, iniziato nel 1514 da Antonio Sangallo e proseguito da un onnipresente Michelangelo. I mesi a casa del committente più ambito della capitale artistica europea non bastarono però a decretare il successo di El Greco in città, anzi. L’architetto e scrittore Pirro Ligorio lo definì uno “stupido straniero”, mentre una lite con Farnese avrebbe costretto il giovane artista ad abbandonare la residenza. A palazzo El Greco era entrato in contatto con l’élite intellettuale romana, ma le sue scelte erano controcorrente e il lavoro scarso. Clovio restituisce il ritratto di un pittore meditabondo, seduto nella penombra della sua stanza, quasi irritato dall’intensa luce del giorno che splendeva nelle strade della città.
A Roma Domínikos continua a produrre ritratti e opere di piccolo formato per la devozione privata, ma non sa affrescare, e questa sua pecca lo esclude dai grandi cantieri decorativi di Villa Farnese a Caprarola e dell’oratorio del Gonfalone a Roma.
Ma perché era così insofferente all’arte di Michelangelo?
Forse la sua aggressività traduceva l’arroganza di un giovane artista di fronte a una sfida impossibile. L’attitudine profondamente spirituale di El Greco rifletteva lo spirito della chiesa cattolica romana di Spagna del periodo della Controriforma che non poteva certo far passare come morali i nudi michelangioleschi meditando l’opportunità di “rivestirli” per ragioni educative.
El Greco, proveniente da un’isola di fede, fu probabilmente il primo grande pittore religioso dopo il Beato Angelico.
La sua fede estatica fece sì che i suoi dipinti sembrassero registrazioni di visioni, incontri reali con i santi. Il suo era un linguaggio messianico di rinnovamento religioso. In una delle numerose versioni della Purificazione del Tempio, dipinta a Roma all’inizio degli anni Settanta del Cinquecento, ritrae Michelangelo, Tiziano e Raffaello tra i cambiavalute, come se si apprestasse a consegnare i grandi del Rinascimento a un passato decadente e impuro.
L’ossessione per il tema della purificazione del tempio suggerisce che egli avesse davvero un profondo desiderio di purificare la pittura, di renderla cristiana.
Quando El Greco arriva in Italia è già immerso nella tradizione pittorica più puramente religiosa che sia mai esistita. Era nato sulla frontiera tra Est e Ovest, tra il mondo musulmano e quello cristiano. Creta era stata una colonia veneziana fin dal XIII secolo e, dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, era rimasta una delle ultime roccaforti dell’antico mondo bizantino – il lembo orientale dell’impero romano – ancora sotto il dominio cristiano.
Il 20 maggio 1571 Venezia, il papato e la Spagna misero da parte i loro antagonismi per costituire una Lega Santa contro l’Impero Ottomano. Il 7 ottobre incontrarono la flotta turca al largo delle coste della Grecia. Trentottomila uomini morirono nella battaglia di Lepanto, i cristiani subirono enormi perdite e la flotta turca fu distrutta. In tutto il Mediterraneo le posizioni religiose si stavano irrigidendo.
L’intensità della nuova era religiosa non poteva non divampare nell’arte di El Greco.
Fu impossibile a El Greco sfuggire all’influenza di Buonarroti, particolarmente evidente in opere più tarde, come l’Allegoria della Lega Santa. Realizzando i ritratti di Michelangelo, Tiziano, Clovio e, presumibilmente, Raffaello in uno dei suoi dipinti (La purificazione del tempio) il pittore delle figure snelle e delle composizioni verticalmente allungate espresse la sua gratitudine nei confronti dei colleghi, ma pretese anche di essere messo sullo stesso piano di quei grandi maestri, modelli da emulare.
Nonostante le critiche al suo più acerrimo nemico, citazioni dell’arte di Buonarroti attraversano dipinti come Cristo crocifisso con due donatori (1580), una sorta di adattamento di un disegno di Michelangelo di Cristo sulla croce. Tutto nelle tele di El Greco diventa un’interpretazione di Michelangelo: il manierismo, la mancanza di interesse per gli sfondi prospettici, l’attenzione espressiva nei confronti dei corpi rappresentati in maniera estremamente soggettiva. Eppure superarlo era impossibile. Solo Caravaggio, successivamente, sarebbe stato all’altezza di rivaleggiare con lui adottando forme estranee di un realismo profondo. Quindi per il poeta di Candia sarebbe stato meglio andarsene in qualche posto sperduto, a debita distanza dalla Cappella Sistina.
La nuova meta fu la Spagna di Filippo II. E Toledo, dove arrivò nel luglio del 1577, a 41 anni, gli offrì una seconda patria, migliore, dove cominciare ad ottenere, con la morte, arrivata nel 1614, l’eternità.
Sperava di ricevere un incarico da Filippo II e di essere nominato pittore della Cattedrale di Toledo. Riuscì ad assicurarsi due importanti commissioni: l’Allegoria della Lega Santa e il Martirio di San Maurizio. Ma queste opere non piacquero.
Il sogno di diventare “pittore del re” e di decorare tutto l’Escorial era svanito.
A Filippo, un intenditore avvezzo a Bosch e a Tiziano, i suoi lavori proprio non piacevano. E a Toledo dovette combattere contro gretti critici religiosi che gli chiedevano perché, ad esempio, collocasse le teste dei santi al di sopra di Maria quando alla Madonna sarebbe dovuto spettare il posto più alto.
Il suo carattere difficile e l’originalità artistica delle sue composizioni e iconografie sorpresero tutti, come anche i suoi prezzi troppo alti per il mercato castigliano.
Nonostante ciò, Toledo gli fornì un ambiente di amici e fedeli clienti dove ebbe grandi commissioni come quella del Entierro del Señor de Orgaz, la cappella di San José o il santuario di Nuestra Señora de la Caridad a Illescas.
Alla sua morte cadde nell’oblio, riscoperto più tardi da artisti come Manet, Cézanne, Picasso, Modigliani, Matisse, Duchamp, Soutine, Chagall, Kokoschka, Schiele, Beckmann, Dix, Giacometti, Pollock e Bacon che guardavano a lui con autentica avidità.
Les Demoiselles d’Avignon di Picasso sono ad esempio uno straordinario omaggio alla pittura apocalittica di El Greco, a quel vortice di forme informi, corpi spirituali. Mentre il maestro ci lavora, ha un accesso intimo e privilegiato all’Apertura del quinto sigillo di El Greco (La visione di San Giovanni, 1608-14).
In quel “veneziano, che però è cubista nella costruzione”, Picasso riconobbe una mente incontaminata, eremitica. Fu grazie ai moderni, e alla sua stessa capacità di riuscire a trovare il traît d’union tra Oriente e Occidente con quell’idea che l’arte che è espressione del regno dello spirito, che El Greco si sarebbe affrancato dalla possente ombra di Michelangelo conquistando il suo ruolo di spicco nel Pantheon dei grandi dell’arte.
In copertina El Greco, Laocoonte, 1610-14, National Gallery of Art, Washington D.C.
Di SAMANTHA DE MARTIN – fonte: https://www.arte.it/